ritorno

 

 

 

 

Introduzione:

 

Che cos'è la malattia?

 

L'antropologo francese Marc Augé rileva un fondamentale paradosso «costituito dal fatto che la malattia è allo stesso tempo il più individuale e il più sociale degli eventi. Ognuno di noi la sperimenta direttamente dentro di sé e può morirne. [...] Eppure, tutto in essa è allo stesso tempo sociale, non solo perché un certo numero di istituzioni si fanno carico delle diverse fasi della sua evoluzione, ma anche perché gli schemi di pensiero che permettono di individuarla, di darle un nome e di curarla, sono eminentemente sociali: pensare alla propria malattia significa fare già riferimento agli altri»

Dunque la malattia è - dice Augé -momento di crisi individuale e sociale al contempo, collasso del singolo e del suo gruppo che, in quanto tale, necessita di una spiegazione. La definizione della malattia in un contesto dato non può prescindere quindi da tutte quelle altre rappresentazioni sociali costituenti ciò che si potrebbe definire il "sistema cognitivo" di una data popolazione (e in essa quello di un dato individuo).

Già Linton aveva sottolineato come ogni cultura, nel momento in cui "stabilisce" la norma, disegna anche le coordinate dello scarto da essa ("antinorma", "devianza"). II "modello di cattiva condotta" definisce ciò che, in modo culturalmente convenzionale, è concesso fare per allontanarsi dalla norma. Devereux osserva come la malattia sia un caso particolare di "modello di cattiva condotta": è possibile immaginare la malattia come una delle forme di questo distanziamento, dal momento che ogni cultura prescrive, accanto alle procedure e ai comportamenti considerati "sani" o "normali" anche quelli che si riferiscono alla sfera della patologia, delineando modi codificati del soffrire e del comunicare la sofferenza.

Ciò significa che ogni cultura struttura un linguaggio specifico del soffrire, un modo "normale" (normato) per star male e per favorire il riconoscimento del proprio malessere e quindi il dispiegamento di quei dispositivi tecnici che definiamo "cure". La normalità è un concetto "multidimensionale", che tiene in considerazione l'appropriatezza di un dato tratto o comportamento (adeguatezza del parlare e del gestire, atteggiamenti personali, ma anche modo di vestire e di acconciarsi) all'interno di un dato contesto di relazioni sociali.

1- la malattia ha forme che variano nel tempo a seconda delle epoche,delle società, delle condizioni di vita:

La variabilità delle malattie nel corso del tempo è fatto comprovato: non solo le definizioni cambiano, seguendo le diverse indicazioni che la comunità scientifica via via elabora nei manuali teorico-diagnostici, ma le stesse forme morbose evolvono e si modificano in conseguenza di cambiamenti del modo di vivere delle popolazioni. II modo di sperimentare la sofferenza è cambiato nelle sue configurazioni, restando però legato ad importanti fattori di origine sociale.

2- coinvolge l'individuo, ma coinvolge pesantemente tutto il suo ambiente:

La malattia è un fatto sociale anche perché l'infermità del singolo coinvolge pesantemente il suo gruppo. Non solo poiché l'evento destrutturante impedisce al paziente l'esecuzione dei suoi compiti abituali in seno alla sua comunità, ma anche perché il male, attraverso il malato, viene reso evidente, incarnato in un soggetto reale, diventando minaccia effettiva per tutto il contesto in cui si esplica.

3- la sua definizione e le pratiche che ne derivano sono socialmente e culturalmente determinate:

Ogni società, abbiamo già visto, dà senso all'evento destrutturante, interpretandolo secondo le chiavi di lettura della realtà che possiede e che si è data nel corso della sua storia. Così la malattia può essere, come accade in certi casi presso i Wo%f del Senegal, una punizione per un interdetto rituale non rispettato, riflettendo un mondo fatto di obblighi morali e pragmatici nei confronti degli antenati (Coppo, 1994); può essere frutto di un'aggressione da parte di uno sciamano malvagio, frequente causa di malessere tra i Wirróriko del Messico; può essere, come accade in Marocco, il risultato della contaminazione ad opera di un genio perverso, abitante di luoghi impuri (stagni, paludi, scarichi, pozzi, immondezzai), che si impossessa del corpo del malato e ne determina le azioni (Aouattah, 1993); può altresì essere visto come il risultato di un'infezione batterica, alla quale bisogna rispondere secondo i parametri della tecnologia medica.

Poco importa se la vero causa sia da cercarsi fra gli antenati, gli sciamani, i geni o i batteri.

Anche nella medicina occidentale non mancano queste connessioni. La nostra cultura influenza la nostra medicina, in modo analogo a quanto avviene in altre società. François Laplantine ha messo in evidenza come il nostro modo di considerare il malessere come assoluto e oggettivo, quasi un elemento naturale, sia talmente introiettato che «non lo concepiamo più come sistema di rappresentazione possibile, ma come realtà, ed è penoso per noi persino immaginare che potrebbe esisterne un altro» (Laplantine, 1992).

Nel corso della storia e della cultura la malattia mentale, quindi, è stata sempre (e lo è ancora) legata ad una rappresentazione sociale. Ogni società con una propria cultura, un proprio popolo, dei propri usi e costumi e una propria "mentalità" rappresenta la malattia mentale con la sua causa di origine e il suo eventuale trattamento in modi diversi da un'altra società.

La questione della contenzione fisica accompagna da sempre la storia della psichiatria.

L'atto di Pinel (1794), che simbolicamente dà avvio alla nuova scienza psichiatrica, apparentemente libera gli individui folli reclusi al Bicétre da "ceppi e catene" per collocarli in un nuovo spazio, il manicomio, utile allo sviluppo degli studi e della cura della follia.

In effetti i) nuovo progetto terapeutico, che prende il nome di trattamento morale, si accompagna fin da subito ad atti costrittivi: "il trattamento morale è l'unico ad avere un'influenza diretta sui sintomi della follia... presuppone l'impiego ragionato di tutti i mezzi che agiscono direttamente sull'intelligenza e sulle passioni degli alienati".

Le catene lasciano il posto a nuovi mezzi di coercizione: sedie di contenzione, cinture di cuoio, manette, collari, camicie di forza.

Nel corso dell'800 rimane inascoltata l'esperienza condotta da Conolly (1856) che abolisce ogni forma di contenzione fisica all'interno di un ospedale psichiatrico inglese. Agli inizi del '900 si discute a lungo all'interno della comunità psichiatrica italiana, circa l'opportunità di abolire i mezzi di contenzione; il dibattito tuttavia non modifica la pratica coercitiva che rimane pressoché inalterata fino agli anni 60-70, allorché nell'ambito dei profondi cambiamenti che produrranno il superamento dell'Ospedale Psichiatrico, la contenzione fisica viene denunciata e combattuta come espressione di una pratica violenta e disumana, antitetica a qualunque tipo di terapia.

Tutto ciò non ha evitato che la pratica della contenzione fisica si diffondesse di nuovo ai giorni nostri.

 

CONTENZIONE IERI

"Legge Bianchi" del 1904: il modello manicomíale

La legge era orientata verso la tutela della società nei confronti del malato stesso. Gli articoli principali prevedevano: l'obbligo di custodia per "persona affetta da qualsiasi causa di alienazione mentale... pericolosa a sé e agli altri o di pubblico scandalo"; l'ammissione in ospedale psichiatrico poteva essere richiesta dai parenti o da chiunque altro, nell'interesse degli infermi e della società. La conseguenza più grave, oltre al ricovero in manicomio, era l'iscrizione dell'internato nel casellario giudiziario.

"Quando gli infermieri mi massacravano di botte con la pretesa di curarmi, io mi rífugiavo nella mia seconda ombra, e non sentivo il dolore”.

Ecco una frase come tante altre, ascoltata dalla voce di un ex internato nel manicomio di Gorizia nel film di Silvano Agosti dal titolo, appunto, "La seconda ombra". Una frase che rivela la brutalità e gli orrori perpetrati a persone internate nei manicomi, costituiti da cancelli, inferriate, porte e finestre sempre chiuse; luoghi dove catene, lucchetti e serrature imperavano sovrani. Luoghi dove le "cure" più comuni erano la segregazione nei letti di contenzione, la camicia di forza, il bagno freddo, l'elettroshock, la lobotomia (asportazione dei lobi parietali, cioè di una parte del cervello). Luoghi, infine, dove (e giornate trascorrevano in immensi saloni tra il fumo delle sigarette, urla e tanta paura.

 

 

 

 

 

CONTENZIONE OGGI

Legge 180/1978: "Accertamenti e Trattamenti Sanitari Obbligatori"                

In una situazione molto tesa e confusa, fu richiesto un referendum popolare per abrogare la vecchia legge psichiatrica dei 1904. Per evitare questo referendum fu emanata in sede parlamentare e frettolosamente una nuova legge: la 180 dei 13 maggio 1978 sancì la fine dei modello manicomiale ed indicò la necessità di predisporre strutture e servizi territoriali che consentissero al cittadino che presentava disturbi psichiatrici di vivere la sua esperienza di crisi mantenendo, fin quanto possibile, il legame con il suo ambiente.

Scompare la legislazione speciale per la psichiatria e le norme che regolano l'assistenza psichiatrica sono recepite dalla legge di riforma sanitaria (Legge n.833 dei 23 dicembre 1978 "Istituzione dei Servizio Sanitario Nazionale").

Gli articoli 33, 34, 35 della Legge 833 dei 1978 dei SSN sanciscono che i malati di mente vanno curati nel territorio, che non è più possibile il ricovero in Ospedali Psichiatrici, che ne è vietata la costruzione e che gli eventuali trattamenti, volontari o obbligatori, vanno effettuati in appositi reparti, con un massimo di 15 posti letto, presso gli ospedali generali, collegati in forma dipartimentale'con gli altri servizi e presidi psichiatrici presenti sul territorio.

Con la Legge 180 l'impostazione tradizionale, manicomiale, è stata stravolta: il paziente psichiatrico diventa portatore di una patologia per cui il ricovero coatto (Trattamento Sanitario Obbligatorio) deve essere l'eccezione, laddove siano presenti specifiche condizioni cliniche.

II T.S.O. per malattia mentale è assimilato a qualsiasi ricovero obbligatorio per altri motivi:

- il paziente ha il diritto di comunicare con ('esterno;

- il paziente, per quanto è possibile, ha il diritto alla libera scelta dei medico e del luogo di cura.

a) è un provvedimento dei Sindaco, in quanto massima autorità sanitaria locale;

b) viene notificato entro 48 ore al Giudice Tutelare che entro 48 ore convalida o meno il provvedimento;

c) viene disposto su proposta di un medico abilitato e convalida da parte di un medico dei Sistema Sanitario Nazionale;

d) II criterio per disporre un T.S.O. non è più la pericolosità ma l'insieme di tre circostanze: la presenza di una sintomatologia tale da rendere necessario un intervento urgente, il rifiuto di questo intervento e l'impossibilità di affrontare le cure in altro contesto che quello ospedaliero;

e) il T.S.O. ha validità 7 giorni e può essere cessato prima oppure rinnovato;

f) chiunque può rivolgersi al Sindaco per chiederne la revoca o la modifica;

g) chiunque può ricorrere al Tribunale.

 

II più elementare dei diritti di libertà solennemente garantiti dalla costituzione è il diritto alla libertà del proprio corpo, il diritto a non essere contenuti, a non essere legati, eppure basta una malattia o una dipendenza da droghe o da alcool, oppure semplicemente la vecchiaia, per mettere in discussione questo diritto.

E' necessario cercare di chiarire se sia lecito - e in caso affermativo entro quali (imiti ed a quali condizioni - che la libertà elementare del corpo possa essere in qualche misura compressa; bisogna chiarire (per quanto possibile data la difficoltà della materia) se la coercizione e la contenzione dell'infermo di mente o di altri soggetti siano o meno consentite.

La contenzione umilia chi la subisce, ma anche chi la fa. L'uso della contenzione trova risposta diversa a seconda dei contesti istituzionali e degli operatori: legare le persone e tenerle in isolamento, per ore e giorni, è una scelta che dipende dalle culture professionali locali, dalle caratteristiche personologiche dei medici e degli infermieri, dalle relazioni interpersonali e di potere all'interno delle squadre che si avvicendano nei turni di servizio, dai rapporti fra medici e non-medici negli staff. Contenzione e isolamento costituiscono un aspetto di particolare asprezza, di sensibilità e criticità della qualità dell'accoglienza e dei trattamenti nelle strutture di assistenza psichiatrica, una questione alla quale ritengo si debba portare grande attenzione.

Cosa sono i mezzi di contenzione? Possiamo definirli come un complesso di pratiche e strumenti che vengono utilizzati per limitare la possibilità di movimento di un soggetto.

"Maturavano, tra questi padiglíoni tutti uguali, lo scenario umano e l’armamentario di strumenti di contenimento di cui erano dotati;- strumenti che ovviamente si intensificavano quanto più ci si avvicinava all’ultimo livello, il Quinto, dove i malati erano immobilizzati in camicie di forza, legati e costretti su sedie fissati alle pareti tra urla ma soprattutto in una puzza terribile di feci e di orina

Il lavoro degli infermieri ero diviso in tre turni: il primo dovevo legare i pazienti, impresa non facile perché spesso si ribellavano, per questo compito si preferivano persone forti e robuste; il secondo, invece, dovevo slegarli, pulirli e legarli di nuovo,- il terzo si occupava di togliere ancora uno volto le camicie di forzo o le stringhe al malati per metterli o letto. Così, se uno venivo legato alle sei del mattino e se la faceva addosso alle sei e mezzo, non venivo pulito fino alle due del pomeriggio. Ma lo situazione più drammatico era nel Quinto femminile. Un abominio. Donne private di qualsiasi dignità, ammassi di carne nuda gettati sul freddo del pavimento, corpi legati alle pareti e lordi di escrementi: un girone dantesco. "

"Fino ai primi anni Cinquanta, infatti, il sistema più semplice per controllare i folli era quello di immobilizzarli, in modo da contenere lo pericolosità. Questo era possibile legandoli alla sedia o al lettino utilizzando stringhe, polsini e cavigliere, oppure imbrigliandoli nella camicia di forza, un indumento di tessuto molto resistente le cui maniche lunghe un metro e sessanta venivano incrociate sul petto e poi annodate dietro lo schiena, così da rendere impossibile qualsiasi movimento. Quando anche lacci e camicie risultavano però inefficaci contro la furia del malato, si procedeva al suo isolamento: l’uomo o la donna, completamente nudi per evitare che sí facessero del male con i vestiti venivano portati in minuscole stanzette spoglie con le pareti imbottite, vere e proprie celle con porte dotate di spioncino. E qui restavano a sfogare lo propria rabbia finché, stremati, non si tranquillizzavano"

(I miei Matti - Vittorino Andreoli)                                 

Matti da legare. Oltre che un modo di dire, rappresenta il problema che accompagna la risposta della società alla malattia mentale dalla notte dei tempi. La contenzione ha origine in psichiatria: un tempo era dato per scontato che gli infermi di mente potessero essere contenuti, anche se non vi era una norma esplicita che lo autorizzasse, ma la cosa appariva ovvia.

Fortunatamente i vecchi mezzi contenitivi quali catene, gabbie, sedie munite di cinghie per finire con lo strumento maggiormente evocato nell'immaginario collettivo, la camicia di forza, appartengono ormai alla archeologia psichiatrica e non sarebbero assolutamente riproponibili e giustificabili.

II momento di cambiamento fu il 1978, attraverso la riforma psichiatrica; così che attualmente nel nostro ordinamento non c'è nessuna disposizione di legge che autorizzi implicitamente o esplicitamente l'uso dei mezzi di contenzione. Nonostante questo, si scrivono ancora protocolli che disciplinano l'uso della contenzione e, a differenza di quello che sembra essere il pensiero comune, a tutt'oggi i mezzi di contenzione fisica sono ancora in uso nei reparti di psichiatria, anche se nel nostro Paese non esistono dati statistici noti o pubblicati che possano dare un'idea della vastità e della profondità del fenomeno. Si sta proponendo, al Ministero della Salute, di adottare un progetto nazionale di ricerca sullo stato della questione contenzioni nell'assistenza psichiatrica. II progetto dovrà raccogliere dati su tutto il territorio nazionale circa l'esistenza di regolamenti scritti adottati dai DSM, il numero, la durata, le motivazioni delle contenzioni, le ragioni degli infermieri e dei medici, il numero e la qualità degli incidenti a carico del paziente e del personale conseguenti alla gestione della contenzione, i vissuti di chi subisce i trattamenti.

Le percentuali americane variano molto secondo le strutture: la media degli ospedali civili parla del 26%. Un paziente su quattro tra quelli che sono ricoverati in ambito psichiatrico è contenuto.

Un'ampia revisione attuata da Fisher nel 1994, ha messo in evidenza come l'uso delle contenzioni e dell'isolamento non sia strettamente legato allo stato psichico del paziente, ma sia da ricondurre all'impronta culturale dei responsabili ospedalieri, che incide significativamente sul modus operandi del sevizio. Dallo studio citato si evidenzia inoltre, come in ospedali piccoli (400-500 letti!) con personale motivato e preparato l'uso dei mezzi coercitivi sia estremamente ridotto rispetto a strutture situate in zone metropolitane.

Vale la pena di riflettere su questo argomento poiché non va dimenticato che la pratica della contenzione rappresenta il paradosso dell'incontro tra la funzione custodialistica e di controllo sociale e la funzione di cura affidata alle istituzioni psichiatriche.

Occorre inoltre sottolineare che la grande maggioranza dei pazienti con disturbi psichiatrici non è aggressiva, come pure la grande maggioranza dei crimini violenti commessi nella comunità non è compiuta da pazienti psichiatrici. E' necessario sottolineare, quindi, che è ormai scientificamente provato la non esistenza di alcun nesso deterministico tra disturbo psichico e comportamenti violenti. Dietro tali comportamenti vi sono spesso, come per chiunque, fattori sociali, culturali, condizioni di dipendenza. Solo raramente si ravvisano patologie psichiatriche, quali deliri persecutori, deliri allucinatori, la fase maniacale del disturbo ciclico e, solo in modo estremamente marginale, poche altre sindromi. Non dobbiamo dimenticare che la malattia mentale non pregiudica necessariamente la capacità di intendere e volere e che la persona affetta da malattia mentale può avere comportamenti violenti in modo assolutamente non dissimile da chiunque altro.

Una psichiatria senza contenzione - va sottolineato - non solo è possibile, ma dopo la riforma del 1978 costituisce un obbligo giuridico e prima ancora deontologico. Ciò però non significa che, in alcune circostanze, non si renda necessaria una qualche forma di coercizione, di pressione sul paziente per indurlo alla cura. Vi sono situazioni in cui è "consentito" intervenire su una persona anche usando la forza fisica pur con tutti i limiti del caso. La coercizione fisica può essere esercitata nell'ambito di un rapporto di diretto confronto con il paziente, misurandosi con lui per fargli superare una situazione di crisi, ma - occorre precisare - riconoscendo la sua soggettività, i suoi diritti e i suoi bisogni, anche se espressi in modo convulso e violento. Ad esempio, un paziente ricoverato in SPDC è in preda a forti allucinazioni uditive. Una voce terribile gli annuncia che in quel momento i suoi figli stanno per essere uccisi da un malvivente e che anche lui è in pericolo di vita. Ovviamente è terrorizzato e tenta di fuggire dal reparto per difendere se stesso e i suoi cari.

In una situazione di questo tipo è difficile, anche se non impossibile, stabilire una comunicazione verbale utile, sia perché l'allucinazione uditiva sovrasta le voci dei curanti, sia perché il terrore è enorme.

A quel punto "abbracciare" il paziente, trattenerlo in modo fermo ma affettivo (vi è comunque il contatto tra corpi) con un comportamento di violenza minima teso solo ad evitare che si possa fare del male, accettare quindi la possibilità che possa colpire i curanti, che possa rompere qualche suppellettile, crea nei fatti una comunicazione extraverbale che associata alla somministrazione di una terapia farmacologica allucinolitica e ansiolitica, interrompe in pochissimo tempo la situazione di crisi, apre spesso la via alla comunicazione dell'angoscia, al pianto, costituisce un momento catartico utile all'istaurarsi o al confermare il rapporto terapeutico.

Deve trattarsi però soltanto di una forma di contenimento momentaneo, inserita in un trattamento terapeutico, non già un'iniziativa fine a se stessa, bensì la premessa di interventi propriamente sanitari immediatamente successivi.

II problema della contenzione si pone essenzialmente in tre situazioni. La prima corrisponde a una necessità di contenimento dell'aggressività agita ove ogni altro mezzo si sia dimostrato inefficace; la seconda all'obbligo ad atti "sanitari" (ricovero, assunzione di terapie ecc.) in assenza di consenso e con l'attiva opposizione del paziente; la terza ad un uso assistenziale (evitare cadute ecc...). Mentre in quest'ultimo caso il sanitario supplisce con un'importante assunzione di responsabilità etiche e giuridiche a una mancanza di risorse (quelle relative ad esempio al piantonamento sanitario di un anziano o di un soggetto fratturato e incosciente), vorrei concentrarmi sulle prime due.

II problema dell'aggressività agita e del rifiuto di terapie indispensabili si pongono in particolare nella fase di attuazione di un ricovero o nei momenti immediatamente successivi; se si ripropongono durante un ricovero, è possibile che non sia stato fatto tutto il possibile per prevenire il problema. Essi coinvolgono pertanto pesantemente, nel caso di pazienti conosciuti e in carico, il servizio territoriale, la qualità affettiva e tecnica della presa in carico precedente e quindi le modalità con le quali il paziente è stato accompagnato al reparto. Più difficile è immaginare di poter prevenire in misura assoluta questi problemi nel caso di pazienti prima sconosciuti, o di soggetti gravemente intossicati da sostanze psicoattive, che sono senzaltro, anche per le difficoltà di approccio farmacologico, tra i soggetti più frequentemente oggetto di contenzione.

Non legare deve ritornare ad essere un obiettivo centrale delle pratiche di salute mentale, sia di quelle che riguardano la gestione delle fasi acute, che di quelle che riguardano l'ordinaria presa in carico dei pazienti da parte di un DSM. Di fronte a una crisi che appare incontenibile, occorre sempre mettere prima di tutto tutti gli interventi di carattere ambientale (avvicinare o allontanare una persona che può recare sollievo o aumentare la tensione, spostare l'intervento in uno spazio più idoneo o più gradito), relazionale (il tono della propria voce, le cose che si dicono, la presenza o assenza di figure terapeutiche emotivamente significative) e farmacologico (compresa la scelta della via di somministrazione da parte del paziente) per consentire il suo superamento. Se alla contenzione nonostante tutto si arriva, occorre innanzitutto interrogarsi sul perché, e poi non rinunciare neppure in quella condizione estrema ed eccezionale al proprio obiettivo e concentrarsi sull'esigenza di realizzarla nel modo più rispettoso possibile, anche sotto il profilo tecnico, di farla durare il meno possibile, di registrare scrupolosamente quanto ad essa si riferisce come elemento di garanzia e di trasparenza, di farne in seguito oggetto di riflessione con il paziente, la famiglia e all'interno dell'équipe. Occorre poi considerare i vissuti di tutti i soggetti: il paziente (si poteva evitare? Poteva durare e pesare meno?); l'operatore (interrogativi intorno al proprio ruolo e rischi connessi al prevalere di angosce paranoici che portano a considerare il paziente come un nemico col quale competere e angosce depressive, che portano a viversi come soggetto sadico e cattivo); gli altri pazienti (problemi emotivi quali la soddisfazione di vedere "punita" la propria follia nell'altro, o il dolore legato a meccanismi di identificazione, e problemi pratici quali i) rischio che qualcuno precedentemente aggredito possa approfittare della situazione per regolare i conti, o quello che qualcuno per generosità possa dare al compagno legato da bere, da fumare, o tentare di bruciare i mezzi di contenzione); i familiari e i visitatori che pure si trovano a vivere questa situazione dolorosa per tutti.

Sostanzialmente i messaggi che arrivano alla persona sottoposta a provvedimenti di contenzione rinforzano i concetti di pericolosità, dipendenza e spersonalizzazione, incrinando di fatto, o per lo meno non facilitando, la possibilità di reazioni evolutive. Inoltre a seconda dei casi bisogna fare molta attenzione; prendiamo ad esempio al situazione di un paziente che soffra di un delirio di tipo persecutorio: è convinto che i suoi vicini di casa stiano complottando contro di lui per sfrattarlo e a questo fine mettono in atto ogni tipo di aggressioni.

II campanello rotto da un qualche monello, la spazzatura lasciata per incuria sulle scale o un televisore ad alto volume durante la notte che impedisca il sonno divengono prove certe di questa persecuzione da cui il paziente cercherà di difendersi.

Si recherà allora a fare denuncia alla polizia, ma non verrà preso in considerazione, scriverà alle autorità senza risultato e quindi, esasperato da quella che per lui è I' ennesima aggressione cercherà di "farsi giustizia da solo" minacciando o aggredendo quelli che lui reputa i suoi persecutori.

II servizio Psichiatrico contattato potrà muoversi in due modi: cercare di entrare in rapporto con il paziente e ridialettizzare la situazione relazionale ferita, anche tramite visite domiciliari, oppure limitarsi a produrre un trattamento sanitario obbligatorio.

Per il paziente il ricovero coatto tramite la forza pubblica diverrà una conferma del complotto contro del quale riterrà complice anche il servizio psichiatrico. Una volta giunto in reparto tenterà in ogni modo di difendersi dal personale e da quelli che "vogliono farlo passare per matto". Rifiuterà le terapie, tenterà la fuga.

A questo punto la contenzione meccanica convaliderà la sua convinzione persecutoria e renderà difficilissimo I'istaurarsi successivamente di un rapporto di cura, in quanto il paziente penserà al servizio come ad un persecutore da eludere o da ingannare.

Se invece il rapporto viene stabilito in modo corretto spesso il ricovero può essere evitato con un intervento di cura adeguato, oppure attuato in modo volontario o comunque in caso risulti impossibile evitare il TSO il percorso che ha portato alla scelta drammatica di limitare la libertà è comunque condiviso tra curanti e paziente e diviene "materiale del trattamento", costituisce base per quella difficilissima pratica di negoziazione con il paziente psicotico che gli consenta di riconoscere il suo stato di malattia e di accettare le cure.

In conclusione, l'obiettivo è che la contenzione nella pratica clinica, sia essa concretamente operata dal personale sanitario o dalle forze dell'ordine, non deve mai divenire un'esigenza irrinunciabile Quando ciò accade, essa rappresenta sempre insieme un'esigenza e un fallimento. E' il segno che si è sbagliato in qualcosa: insufficiente attività di prevenzione dei problemi di salute mentale nella comunità, che giungono così a esplicitarsi e richiamare l'attenzione soltanto una volta giunti a condizioni drammatiche, che hanno a che fare con i problemi della violenza o di impossibilità di dialogo tra paziente e servizi. Più grave, insufficiente presa in carico di pazienti noti da parte del servizio territoriale, che arrivano perciò a confrontarsi con condizioni di frustrazione disperante per un'insufficiente risposta alle proprie esigenze di natura sanitaria o sociale, o con la necessità di compatibilità sociale dei propri comportamenti o con quella dell'assunzione di terapie indispensabili in condizioni di grave crisi, senza che il servizio abbia operato in modo efficace per prevenire il fatto che questo accadesse e si trova ad imporre il ricovero o le terapie in assenza di un rapporto di fiducia che impedisca la contrapposizione violenta. Più grave ancora, insufficiente attenzione in reparto alla necessità di prevenire l'esplosione comportamentale violenta o condizioni nelle quali il dialogo e la ricerca del consenso intorno alle prescrizioni terapeutiche diventa impossibile.

Prima ancora che deprecabile deontologicamente la contenzione è quindi un atto di resa dell'Istituzione che la pratica, e che con essa svela la propria difficoltà nello stabilire un vero rapporto umano e dignitoso con i suoi pazienti. Inoltre credo che le pratiche contenitive, ordinarie o eccezionali che siano, non possono mai considerarsi atti sanitari, né tantomeno terapeutici. Nella quasi totalità dei casi, esse sono invece soltanto l'espressione di un fallimento del sapere e della pratica psichiatrica, di interventi tardivi, episodici, miopi, poveri di prospettive e non qualificabili come reali prese in carico.

Va infine fatto un accenno a quella che potrebbe essere definita "contenzione chimica", cioè il contenimento del paziente attraverso un uso improprio degli psicofarmaci. La chimica e ammissibile però solo quando l'iniziativa abbia natura di intervento sanitario e sia parte essenziale della terapia. Resta ovviamente illecita, invece, se praticata al di fuori di un trattamento di tipo terapeutico, ad esempio al solo scopo di riportare l'ordine in un reparto, ovvero con intenti punitivi nei confronti del paziente, ovvero infine per maggiore comodità del personale nella gestione dell'infermo.

In generale, sia la contenzione meccanica che quella chimica, in alcuni casi possono essere considerate una forma di violenza sull'infermo non circoscritta ai pochi momenti necessari per calmarlo o per somministrare il farmaco (prosegue nel tempo); quindi NO ad un semplice legare la persone al letto o imbottirla di farmaci per il solo scopo di impiegare meno personale e quindi impiegare meno denaro e ridurre il tempo di accudimento del paziente.

La contenzione si può superare con l’impegno forte. Certo che non legare è difficile. Ma non impossibile. Anzi, è possibile. E' possibilissimo. In 15 SPDC d'Italia non si lega e si gestiscono gli SPDC con la porta aperta. In altri SPDC la porta rimane ancora chiusa ma almeno non si lega. Certo che contenere semplifica molte cose sul lavoro in SPDC. Permette anche di ridurre più facilmente il personale, per esempio. Legare i pazienti è umiliante e pericoloso. Aumenta il livello della tensione in reparto e aumenta il rischio di colluttazioni. I pazienti si difendono. Non amano essere legati, e si capisce. Solo abbandonando la contenzione si potrà dire di superare la parte ancora più manicomiale del circuito dei Servizi di Salute Mentale.