ritorno

 

LO SMEMORATO DI COLLEGNO

 

 un articolo di Francesco Macrì

 Non sapeva il suo nome né ricordava il suo paese d’origine e la sua professione. Settantacinque anni fa a Torino iniziava il più famoso caso italiano di perdita di memoria

 Tutti abbiamo un nome, nessuno nasce senza. È peculiarità della razza umana averne uno, almeno uno, quasi sempre uno solo. Ma la strada che ci conduce a poter dire «Io» e pronunciandolo intendere proprio quel nome che ci hanno dato, lunga e faticosa, e ognuno di noi l’ha fatta in quel tempo di cui non si ha memoria e oggi può dire «io sono», con certezza.

Il 6 febbraio 1927 in una rubrica della Domenica del Corriere che di solito si intitolava «Chi l’ha visto?» apparve il volto barbuto, di profilo, di un uomo. «Chi lo conosce?», era invece questa volta la domanda rivolta dal settimanale ai suoi lettori. «Ricoverato il giorno 10 marzo 1926 nel manicomio di Torino (casa Collegno). Nulla egli è in condizione di dire sul proprio nome, sul paese d’origine, sulla professione. Parla correntemente l’italiano. Si rileva persona colta e distinta dell’apparente età di anni 45». Così era descritto in calce all’immagine. Il suo nome che da circa un anno è 44170, il numero di matricola assegnatogli all’ingresso in manicomio, fu giudicato «pericoloso per sé e per gli altri» e affetto da «stato confusionale depressivo», sarà da quel momento causa e conseguenza di un lungo appassionante e a tratti inverosimile «teatro della memoria», come scriverà molti anni dopo Leonardo Sciascia, magistralmente. In manicomio è stato portato dalle guardie municipali perché – dopo esser stato arrestato per il furto di un’urna di bronzo al cimitero israelitico di Torino – fu colto da crisi di agitazione, comportamenti autolesivi, amnesia totale.

Questa è la vicenda che fu detta dello «smemorato di Collegno», coniando un’espressione rimasta nel lessico degli italiani, anche quando immemore del caso che l’ha generata.

All’appello della Domenica del Corriere risposero in molti (soprattutto donne); tutti coloro che credettero di riconoscere nel volto dello Sconosciuto un parente, un amico, marito disperso, l’immagine invecchiata e plausibile di quell’uomo scomparso dieci anni prima durante la Prima grande guerra mondiale.

Ancora conservate dal dottor Tribbioli negli archivi del manicomio di Collegno le numerose cartoline postali con le quali venivano annunciati i riconoscimenti: un uomo di Chiavazza, vicino Biella, scrive: «Sono quasi certo, 90 su 100, che è certo Nicovano Giovanni fu Antonio già ufficiale degli alpini»; un altro:«Se la memoria non mi falla, è quel farmacista che era sparito da qualche anno da Villavernia. Un infelice padre. Il quale aveva dato segni di squilibrio mentale…»; e poi un insegnante di Trieste scomparso «durante la passata guerra (…), chiamato il Maestrone».

Mosso dallo stesso desiderio lasciò Padova per recarsi a Collegno il professor Renzo Canella, sperando di scoprire nelle fattezze e tra il buio di quella memoria il fratello Giulio, professore universitario di Pedagogia, scomparso durante la battaglia combattuta il giorno di Natale del 1916 a Nitzopole, presso Monastir, in Macedonia. Questi trovò la suggestione della somiglianza, la disillusione del vuoto che emergeva dalle parole, nel discorso avaro di ricordi, nella mancanza di segni che appartenevano al corpo del fratello (un neo e una cicatrice al calcagno) e non a quello che aveva davanti. Se ne andò senza aver trovato chi cercava. Ma si sa, il desiderio è nebbia per la ragione e sotto quella coltre il paesaggio muta, confondendoci. Così avvenne: la triste certezza, nel lungo viaggio di ritorno, iniziò a vacillare. Quell’uomo di Collegno gli scrisse poi un’appassionata, dolorosa lettera che principiava con queste parole: «Addio, o anima bella che ti partisti da Padova con l’assillo dell’amor fraterno!», e nella quale lascia penetrare il dubbio di segni che ha sentito nell’animo, ascoltando il racconto che il professor Renzo gli faceva del fratello scomparso: «Suo fratello aveva i peli uguali ai miei sullo stomaco, la mia stessa carnagione, i miei denti (specie quelli dinanzi sopra), le mie mani, le mie dita, i miei occhi, il mio sguardo, i miei capelli, la mia calvizie, le mie labbra, il mio mento, la mia voce, la mia statura, il mio passo, il mio incedere.Gli piaceva la montagna, ma ansimava; ed io pure, io pure…», questo crescendo drammatico e – conosciuta quella che sarà poi la conclusione della vicenda – irritante si spegne nella firma, gesto teatrale e geniale: «L’Inconnu». La memoria si sta forse risvegliando, portando con sé anche l’identità perduta, a breve potrà passare da un discorso in terza persona su Giulio Canella a quello in prima «io sono».

Il 27 febbraio di quello stesso anno entra in scena quella che sarà la grande protagonista di tutta la vicenda: Giulia Canella, moglie del disperso professore. Organizzano un incontro nel cortile dell’ospedale psichiatrico; senza farsi annunciare la donna attraversa lo spiazzo proprio mentre lo sconosciuto le viene incontro. Lui non mostra di riconoscere la giovane, lei emozionata dall’intensa somiglianza crolla e non mantiene gli accordi, si volta e grida «Giulio! Giulio mio!» e corre a gettarsi tra le sue braccia. In lei la speranza, il desiderio sono già certezza. Quel giorno stesso, assumendo l’identità di Giulio Canella, il signor 44170 esce dal manicomio dimesso sull’onda emotiva prima che per motivi psicopatologici, dimentichi dell’ordinanza giudiziaria con la quale era stato ricoverato, e si reca con la donna all’Hotel Splendid di Desenzano del Garda. È il primo giorno del resto della sua vita.

Ma questa nuova luna di miele dura solo pochi giorni; come hanno fatto i medici a dimenticare che quell’uomo era stato ricoverato dopo esser stato giudicato colpevole e non imputabile per vizio totale di mente? Mancava l’approvazione del giudice, doveva tornare in manicomio. Tuttavia, quando i carabinieri vennero a prenderlo sul lago, qualcos’altro agitava magistrati e psichiatri: una donna, Rosa Negro, moglie di tal Mario Bruneri (ex tipografo, truffatore da strapazzo, latitante, fedifrago, ma astuto, intelligente, con sbandate velleità letterarie), ha scritto una lettera nella quale riconosce nel volto pubblicato sulla Domenica del Corriere proprio il marito, scappato da casa da anni, assumendo via via nuove identità (!), per sfuggire alla giustizia che lo attende per fargli scontare la pena di tre diversi reati. Da principio è stata zitta, in fondo parlando avrebbe arrecato al marito più danni che benefici, il manicomio era meglio della galera. Ma adesso, di fronte a quella che legge come l’ennesima truffa ai danni della famiglia e di donna Canella, ha deciso di parlare.

Canella-Bruneri torna sconosciuto, rientra in ospedale psichiatrico, si riprende abiti e matricola (ma in lui è ormai tornata viva la memoria, e il pronome «io» si lega inequivocabilmente al nome del professore di Verona), attende che la burocrazia faccia il proprio corso. Ma non sarà cosa semplice; cominciava allora un lungo periodo pieno di confronti all’americana, prove dattiloscopiche certe e confutate, prove di cultura generale, perizie psichiatriche, otoiatriche e analisi criminologiche e antropologiche.

Soprattutto inizia un periodo in cui la noia che regna nei giornali, dove tutto è così trionfalmente fascista da risultare piatto e vuoto, passa la mano a un appassionante scontro tra fazioni: Bruneriani e Canneliani, manovrati a uso e consumo del regime, lotteranno per restituire l’identità a quello sconosciuto uomo di Collegno sedicente Giulio Canella. Meglio che gli italiani si occupino di questa vicenda, non si accorgeranno dei disastrosi effetti del discorso di Pesaro, e della lira a quota novanta, pronunciato il 18 agosto del 1926 che aveva prostrato l’economia italiana e della mite condanna a Dumini per l’uccisione di Matteotti. Mussolini imponeva la tassa sui celibi e aumentava il dazio sul sale, ma gli italiani cantavano distratti: «Se cado in braccio alla vedova, sono Canella – se cado in braccio ai carabinieri, sono Bruneri». Meglio così, per ora.

Inizia il processo; Bruneri ha piedini, porta il 41, Canella aveva il 44, il primo è alto 1,73, Canella misurava 1,77; lo sconosciuto non sa nulla di musica, mentre il professore di Verona suonava – e con abilità – il pianoforte; la grafia è differente, ma molto simile a quella del ladruncolo Bruneri. Il sedicente Canella accusa colpi su colpi: alle prove di cultura generale non va molto bene, ha scritto «vermis sun», invece che «vermis sum», sostiene che Poliziano sia un pittore, confondendolo con Tiziano, ma riconosce a Verona l’aula dove ha insegnato Canella («io sono Canella»!) e piano piano riemerge nel suo discorso una memoria veronese ricca di particolari impressionanti. Ma non parla quel dialetto, anzi, al custode del cimitero che lo ha colto sul fatto chiede miserevole: «Mönsù, ch’am rùina nen?», in perfetto piemontese.

Dalla sentenza redatta dal Cav. Avv. Forneris emergono una bufera di prove, dimostrazioni, argomentazioni che inchiodano lo sconosciuto: è Bruneri. L’ingente materiale probatorio ha soprattutto nella prova dattiloscopia il suo punto di forza: le impronte digitali dello sconosciuto corrispondono perfettamente a quelle del latitante Bruneri, e in ben tre diverse rilevazioni. Oggi come oggi, la questione sarebbe chiusa senza appello, ma siamo nel 1927 e sebbene già in tutta Europa e in America numerosi studi affermino la sicurezza di tali prove scientifiche, stranamente non bastarono alla Prima sezione del Tribunale di Torino che, riunita in camera di consiglio, decise per dirla come Sciascia di «non decidere» dichiarando non ancora raggiunta l’identificazione.

Tutto rincominciava da capo. Certamente i canelliani ricevettero nuova linfa ed entusiasmo da questa prima tappa della lunga corsa all’assegnazione d’identità allo sconosciuto. Dovette passare ancora un anno prima che usciti da un intenso processo dibattimentale, e non senza fatica e dubbi, i giudici stabilirono che l’uomo rinchiuso nella foto della Domenica del Corriere altri non era che Mario Bruneri. Un anno intenso che lo sconosciuto passò per lo più con Giulia Canella, appropriandosi (o riappropriandosi) di un discorso che gli veniva donato con dovizia di particolari proprio dalla donna che oltre ogni ragionevole dubbio aveva scelto in quell’uomo il marito che aveva perduto. E come si fa con i figli (e una figlia la misero al mondo per davvero), la signora Canella ripartoriva il suo uomo consegnandogli memoria e identità, parole e cibo, per essere probabilmente non il Giulio Canella morto in guerra e mai più tornato, ma un nuovo Giulio Canella, il suo, appunto. E di questa scelta fece la propria determinazione, incrollabile davanti a qualsiasi sentenza.

I Canella fanno ricorso alla sentenza del 5 novembre del 1928, hanno architettato una nuova linea di difesa, e la Cassazione annulla i precedenti dibattimenti e decide che il processo si tenga presso la Corte d’appello di Firenze.

Di nuovo due parti si contendono l’identità dello sconosciuto. L’accusa ha dalla sua la forza delle impronte digitali, le diversità somatiche che gli esami antropometrici hanno dimostrato essere più numerose delle somiglianze: diversa è la forma della fronte, il processato ha quattro centimetri in più di capelli del professor Canella, è più basso, è privo di nei e cicatrici che aveva quell’altro, persino i denti e le cure otoiatriche corrispondono esattamente a quelle praticate sul Bruneri quando era militare. E poi la logica che dice che un tale, arrestato a Torino in flagranza di furto, debba essere anziché un noto delinquente torinese – del quale porta le caratteristiche fisiche, intellettuali e morali – un professore veronese scomparso in guerra più di dieci anni prima, e che amnesico abbia girato indisturbato l’Italia fino ad arrivare peregrino «nella capitale allobroga» dove stravolgendo la propria natura, ruba e finisce pazzo in manicomio.

La difesa allora si attacca a improbabili teorie scientifiche che dimostrerebbero come sia peculiarità degli alienati quella di mettere «capelli in una zona di fronte che prima era affatto calva e liscia»; o documenta numerose testimonianze di avvistamenti di un randagio con barba fluente e pastrano militare, avvenuti in alcune località dal 1922 al 1926, come se fosse cosa rara a quei tempi. Ma la forza della sua argomentazione fa leva su una complessa costruzione che merita di essere descritta: secondo la versione che si legge nei memoriali allegati agli atti, il 10 marzo 1926 non una ma due persone sarebbero state fermate a Torino e tradotte in Questura. Il ladro del cimitero, Bruneri, e il demente, Canella. In camera di sicurezza Bruneri avrebbe ordito un piano diabolico: spogliato Canella lo avrebbe rivestito dei propri indumenti, e poi sarebbe fuggito. Il demente, tradotto in manicomio sconterebbe ora il fio della fatale rassomiglianza e della diabolica macchinazione. Questa fantasiosa descrizione si basa sul fatto che esistono in Questura ben due fascicoli datati 10 marzo 1926, uno per l’arresto di un ladro sacrilego e l’altro per il ricovero di un folle. Ovviamente questa era la normale procedura, poiché i due momenti erano pertinenza di due diverse amministrazioni, la polizia giudiziaria e quella amministrativa, ma neanche queste spiegazioni fecero vacillare le certezze dei canelliani e soprattutto di lei, Giulia, che intanto aveva messo al mondo altri due figli, quando nel 1931 venne emessa la sentenza definitiva.

È primavera, i voti dei giudici sono sette per Bruneri, sette per Canella, la decisione spetta al presidente D’Ameglio: chiede tre giorni ancora per rivedere le carte. «Non le concedo nemmeno un’ora», gli grida al telefono il ministro Guardasigilli Rocco, «chiudiamo questa buffonata». Al fascismo il caso non serve più, nel 1931 la grande crisi è superata, Mussolini si sente saldo in sella. D’Ameglio entra in sala e dice: Bruneri.

Lo sconosciuto sconterà un anno di galera a Pallanza mentre Giulia come una paziente Penelope, lo attende. È ufficialmente tornata vedova, Canella non c’è; ma a lei non importa, quando lui esce, in qualche modo ottiene un passaporto (che se ne andasse era comodo a tutti, Chiesa e fascismo in primis), partono sul Conte Biancamano per il Brasile dove il padre di lei ha ammassato una ingente fortuna e dove Bruneri vivrà fino al 1941, scrivendo libri e saggi a firma Julio Canella. Almeno un nome se l’era dato da solo.

A Torino, mentre la guerra – quella sì – ha distratto la popolazione, un impiegato dell’anagrafe scrive vicino al nome Bruneri: «Deceduto».

Trent’anni dopo, il 10 giugno 1971 un documento a firma cardinal Giovanni Benelli, segretario di Stato di Città del Vaticano rivela che la Chiesa ha riconosciuto che lo smemorato di Collegno era Giulio Canella, marito legittimo della signora Giulia e padre di figli che adesso portano nome Bruneri

 

Da “Diario”, 25 gennaio 2002.

ritorno