C a p i t o l o 1: BAMBINI ISTITUZIONALIZZATI
1: I bambini “diversi”
Nel 1957 Bowlby[1] pubblicò la sua teoria sulle conseguenze dell’istituzionalizzazione dei bambini, mettendo in evidenza la relazione esistente tra ricovero precoce e disturbi di personalità. L’autore aveva preso in considerazione bambini ricoverati nei primi anni di vita, e, grazie alle sue ricerche, giunse alla conclusione che le persone, che non avevano avuto un rapporto stabile e valido con la madre nella prima infanzia, dimostravano incapacità a stabilire rapporti adeguati con gli altri, erano anaffettivi e dissociali, erano in poche parole “diversi”.
Successivamente gli psicologi relazionali (Watzlawick e coll.)[2] sottolinearono l’importanza dei legami del bambino con l’ambiente familiare ed extrafamiliare, oltre che quello con la madre. Fu messo in evidenza che la persona, per svilupparsi adeguatamente, non aveva bisogno solo di cure materne, ma anche di un contesto ambientale che l’accettasse in ogni tappa del suo sviluppo. Il sentirsi parte di un gruppo era condizione indispensabile per l’evoluzione ed il mantenimento di un’immagine di sé tale da permettere un’effettiva realizzazione personale. Non era quindi possibile, per questi autori, considerare e trattare il singolo al di fuori del suo contesto, poiché la sua situazione era strettamente collegata con quella di coloro che lo circondavano e perché il suo bisogno si inseriva inevitabilmente in una situazione di bisogno di tutto il contesto.
Le proposte operative in campo psichiatrico da parte degli esponenti dell’“antipsichiatria” (Basaglia, Cooper)[3] trovarono un notevole consenso negli operatori socio sanitari e determinarono una pressione sull’opinione pubblica per porre termine ad ogni forma di diversificazione.
A tutto questo contribuirono infine anche gli studi di Goffman[4] sul danno che l’istituzione totale provocava sulla persona.
2: Istituzione e depersonalizzazione
l’istituzione totale non incide negativamente sul bambino solo perché gli toglie la possibilità di essere e di esprimersi come individuo, ma ha conseguenze nefaste anche sul suo sviluppo. È necessario che sia rafforzata l’immagine di se che si sta strutturando, per permettere al piccolo una crescita “sana”.
Lo steso Goffman[5] considera la situazione ricovero come motivo di deterioramento del “sé” e della stessa struttura psicologica. L’autore parla di due fasi: quella della “mortificazione del sé” e quella della “ricostruzione del sé”. Come fattori di “mortificazione del sé”, prende in considerazione la perdita di un ruolo sociale precedentemente svolto, la perdita di oggetti personali percepiti come “sostegno” del proprio ruolo, l’assunzione di uno stile di vita giornaliero standardizzato, la mancanza di tempi e spazi propri, la mancanza di autonomia non solo nell’azione ma anche nell’espressione dei sentimenti, ed in particolare l’impossibilità di manifestare reazioni che non vadano d’accordo con quelle ritenute più opportune dall’istituzione.
Come fattori di “ricostruzione del sé”, invece, l’autore indica l’induzione di un sistema di regole attraverso premi, punizioni e privilegi che portano la persona a cercare un adattamento a volte passivo, ma spesso ottenuto grazie a compromessi tra ciò che vorrebbe l’individuo e ciò che invece vuole l’istituzione. Questa ricostruzione avrebbe lo scopo di favorire una progressiva “autodeterminazione” del ricoverato secondo gli schemi etico normativi proposti dall’istituzione, e considerati “normali”; il progresso del ricoverato, quindi, è valutato in base alla sua capacità di adeguarsi agli schemi e quindi di “non autodeterminarsi”.
In definitiva sia la “mortificazione del sé”, sia la “ricostruzione” sono processi di alienazione.
Anche il piccolo ricoverato in istituto perde il suo ruolo nella famiglia e nell’ambiente in cui è fino ad allora vissuto, perde gli oggetti personali che erano segno della propria identità, perde spazi e tempi personali, viene limitato e costretto nell’espressione dei suoi sentimenti ed entra in un sistema a lui incomprensibile.
Il bambino inoltre perde anche un punto di riferimento importante per il suo sviluppo, cioè il contesto in cui viveva ed il nucleo famigliare. Questo concetto è molto importante per gli psicologi relazionali[6] che pongono come condizione dell’integrità psichica dell’uomo la sua “conferma” da parte degli altri componenti del gruppo a cui appartiene e la valorizzazione del proprio modo di essere e di esprimersi.
È chiaro dunque che, per il bambino, il sentirsi accettato dal gruppo a cui appartiene e il sentirsi parte di esso è fondamentale. In quest’ottica la famiglia rappresenta per lui un gruppo privilegiato, perché assume un doppio valore nel suo sviluppo: da una parte gli permette stadi progressivi di identificazione, dall’altra gli fornisce una “serie di immagini del sé sociale” che si andranno ad integrare con quelle fornite dall’ambiente extrafamiliare in modo da formare un’identità personale (Ackermann)[7].
In questa situazione l’allontanamento dal nucleo è percepito dal bambino come rifiuto e “disconferma”[8] .
È interessante anche prendere in considerazione gli studi di Spitz[9] per quanto riguarda le reazioni al ricovero del bambino istituzionalizzato nei primi anni di vita, e quelli di Robertson[10] sul bambino piccolo ospedalizzato. Questi bambini non riescono a superare la stato di frustrazione conseguente all’abbandono dei familiari e alla mancanza di un rapporto affettivamente coinvolgente con l’adulto e, ritirando ogni interesse per l’esterno, cadono in stati depressivi da cui escono difficilmente anche quando l’istituzionalizzazione è di breve durata.
Il bambino può attribuire l’allontanamento dai genitori, sviluppando tratti persecutori; oppure può attribuirlo a se stesso sviluppando tratti depressivi. Ad ogni modo riemergeranno in lui dinamiche tipiche di età precedenti che aveva superato nella verifica di una realtà meno angosciante delle sue fantasie primarie. L’io del bambino andrà così facilmente in contro a distorsioni o regressioni non transitorie se persisteranno, con l’istituzionalizzazione, gli impedimenti alla sua affermazione ed individualizzazione. Così il bambino non sarà solo allontanato dalla sua famiglia, ma anche allontanato dalla realtà e da se stesso. (Dell’Antonio)[11]
3: “L’adattamento” all’istituto
Secondo Dell’Antonio il trauma può apparire transitorio, in quanto il piccolo “si adatta all’istituto in un tempo più o meno breve, instaurando rapporti con il personale e con i coetanei, manifestando comportamenti ritenuti adeguati”[12]
È opportuno però chiarire cosa viene inteso per “adattamento”. Con riferimento alle dinamiche nell’ambito dell’istituzione totale descritte da Goffman[13], si evidenzia come, dopo un primo periodo di disadattamento, in cui prevalgono comportamenti di rifiuto e di protesta, il ricoverato si adegui alla situazione, alle volte passivamente ma più spesso cercando un compromesso tra i modelli di comportamento imposti dall’istituzione e certi comportamenti che permettono una limitata affermazione del sé.
Per fare ciò però è necessario che la persona conservi una certa autonomia nella percezione di sé, e riesca a vedere l’istituzione come un elemento di disturbo e sia in grado di mettere in atto difese contro di essa. Per il bambino questa operazione risulta però alquanto difficile; quindi se il piccolo si trova in situazione di conflitto con l’istituzione e deve mettere in atto meccanismi di difesa, è più probabile che questi siano rivolti verso se stesso e le proprie pulsioni che contro l’ambiente istituzionale. Questa ipotesi viene confermata da una ricerca di Gratton[14] sulle modalità della risposta aggressiva nei bambini istituzionalizzati in età prescolare. In questo studio la risposta aggressiva dei bambini istituzionalizzati appare più incontrollata rispetto a quella dei coetanei che vivono in famiglia. “Si presume pertanto che assai più dell’adulto il bambino strutturi forme passive di adattamento, in cui reprime le spinte all’affermazione piuttosto che cercare i modi per assecondarle …”[15]
Forse sarebbe più adatto parlare, piuttosto che di “adattamento”, di regressione ad una fase precedente di dipendenza totale, considerata l’unica possibile per sopravvivere e ottenere qualche vantaggio: una forma di regressione a difesa dell’io (Hartmann)[16].
È come se il bambino in istituto si “fermasse”. Il permanere del bambino di interazioni e dinamiche proprie di età precedenti appare evidente nella ricerca, già citata, di Gratton che si riferisce al vissuto e alle modalità di rapporto interpersonale di bambini di 4-5 anni.
La dipendenza e l’incapacità all’autodeterminazione diventano giustificazioni per l’adulto a continuare la gestione totale del bambino e questo atteggiamento accresce il senso di incapacità e frustrazione del piccolo e rinforza la sua dipendenza. Si viene così a creare un circolo vizioso che che dà un senso di apparente stabilità al rapporto tra istituzione e bambino che può essere interpretato come un buon rapporto reciproco (Dell’Antonio).
Così il bambino viene accettato, “confermato” non in un rapporto interpersonale individualizzato ma nell’adesione ad una regola. D’altra parte il piccolo non può trovare altre figure con cui stabilire una comunicazione diversa, perché l’istituto ha carattere totalizzante e non prevede che si abbia contatto con strutture esterne, in quanto si ritiene in grado di svolgere da solo l’azione di assistenza ed educazione.
Un interessante esperimento di deistituzionalizzazione compiuto in Emilia Romagna[17] dimostra come l’adeguamento alla vita di istituto si traduca paradossalmente in una incapacità di adattamento alle situazioni comuni esterne all’istituzione stessa. I bambini, abituati ad una schema di vita in cui i ruoli erano rigidamente definiti e tali da non permettere loro alcuna autonomia decisionale, posti in comunità alloggio a struttura familiare, con ruoli non predefiniti e non gerarchici, non riuscivano ad assumere altro ruolo oltre a quello assunto nell’istituto e la cosa era tanto più evidente quanto più a lungo era stato il periodo di ricovero. Il recupero di uno spazio individuale avvenne tramite comportamenti che potevano sembrare incongruenti per un adattamento alla situazione. In un primo momento erano presenti comportamenti aggressivi non collegabili alla situazione, o comunque sproporzionati allo stimolo che li determinava; l’incomprensione dell’adulto era un ulteriore fattore scatenante di aggressività. Di fronte ad una maggiore sicurezza e comprensione da parte degli educatori, i bambini facevano affiorare il bisogno di un affetto esclusivo, che creava però dinamiche di competizione ed esclusione tra i bambini e che non veniva accettato inizialmente dall’adulto. Il fenomeno era ancora più evidente nell’ambito della scuola del quartiere in cui i piccoli erano stati inseriti e nei rapporti con gli abitanti del quartiere stesso, con cui venivano a contatto frequentemente, visto il carattere familiare della comunità alloggio.
Questi comportamenti sono assimilabili a quelli dei bambini della ricerca, di Gratton. La scadente percezione della realtà, la persistenza di bisogni primari non soddisfatti, meccanismi di difesa ancora deboli e primitivi non permettevano ai bambini istituzionalizzati di prendere contatto in modo adeguato con situazioni nuove. Ciò accresce la difficoltà di comprendere l’incapacità del bambino e porta l’adulto ad assumere verso di lui atteggiamenti negativi e rifiuti. Il piccolo si sente, così, rifiutato e può sentire paradossalmente migliore l’istituto, o un rapporto che gli riproponga il ruolo che aveva in esso.
“I bambini diventano così dei “diversi” e se questa diversità è evidente alla loro uscita dall’istituto ciò non vuol dire che non lo siano anche prima, quando sono membri “adeguati” di una struttura diversificante”[18]
[1] Bowlby J., Cure materne e igiene mentale nel fanciullo, ed. Universitaria, Firenze, 1964.
[2] Watzlawick P., Beavin J. H., Jackson D. D., Pragmatica della comunicazione umana, ed. Astrolabio, Roma, 1997.
[3] Basaglia F., L’istituzione negata, ed Einaudi, Torino, 1967
Cooper D., Psichiatria e antipsichiatria, ed Armando, Roma, 1975.
[4] Goffman E., Asylum, ed Einaudi, Torino, 1968.
[5] Goffman, op. cit.
[6] Watzlawick op. cit.
[7] Ackermann N. W., Psicologia della vita familiare, ed. Boringhieri, Torino, 1968
[8] Secondo gli psicologi relazionali con il termine “disconferma” ci si vuole riferire a quel tipo di comunicazione interpersonale in cui un individuo non viene né accettato, né contraddetto nel suo modo di definirsi e rapportarsi agli altri, ma è semplicemente ignorato.
[9] Spitz R., Il primo anno di vita del bambino, ed Armando, Roma, 1973.
[10] Robertson J., Bambini in ospedale, ed. Feltrinelli, Milano, 1973.
[11] Dell’Antonio A. M., Bambini in istituto, ed. Bulzoni, Roma, 1977.
[12] Dell’Antonio op. cit. p. 38
[13] Goffman op. cit.
[14] Dell’Antonio op. cit.
[15] Dell’Antonio op. cit. p.39
[16] Hartmann H. , Psicologia dell’io e problemi dell’adattamento, ed. Boringhieri, Torino, 1966
[17] Carugati F., Emiliani F., Polmonari A., Il possibile esperimento, ed. A.A.I., Roma, 1975
[18] Dell’Antonio, op. cit. p.43