Necrologio di Jean‑Martin Charcot, di Sigmund Freud
E’ il necrologio di Jean‑Martin Charcot (1825‑93), scritto nei giorni immediatamente successivi alla notizia della morte …..
Freud aveva frequentato la scuola dì Charcot a Parigi nell'inverno 1885‑86. Vedi anche, soprattutto per il modo di lavorare di Cbarcot qui descritto, la Relazione sui miei viaggi dì studio a Parigi e Berlìno (1886). Non soltanto fu indotto da questa esperienza a orientare in modo nuovo la sua attività scientifica, ma anche sul piano umano fu colpito in modo assai forte dalla personalità di Charcot.
Nel presente necrologio…., dopo una esposizione della importanza dell'opera di Charcot in campo neurologico, è esposta l'opera di lui per la comprensione dell'isteria, ed è vivacemente descritta la persona del medico, dello scienziato e del maestro.
Tratto da:
Sigmund Freud, Opere, 1892-1899, progetto di una psicologia e altri scritti, Boringhieri, Torino, 1980
Charcot
Con Jean‑Martin Charcot, che una morte repentina, sopraggiunta senza malattie o sofferenze, ha colto il 16 agosto di quest'anno al termine di una vita felice e gloriosa, la giovane scienza neurologica ha perduto prematuramente il suo maggior promotore, i neurologi di tutto il mondo il loro maestro, la Francia uno dei suoi uomini migliori. Aveva da poco compiuto i sessantotto anni e la sua energia fisica e la sua freschezza spirituale parevano assicurargli quella longevità che egli stesso non nascondeva di desiderare e di cui, d'altra parte, hanno potuto godere non pochi rappresentanti della scienza e della cultura nel nostro secolo. I nove importanti volumi delle sue Oeuvres complètes, nei quali i suoi allievi hanno raccolto i contributi da lui apportati alla medicina e alla neuropatologia, le Leçons du mardi, gli "Annali" della sua Clinica alla Salpétrière e tutte le pubblicazioni che continueranno a essere care alla scienza e ai suoi discepoli, non potranno sostituire quest'uomo che tanto aveva ancora da offrirci e da insegnarci, alla cui persona od opera nessuno mai si è avvicinato senza trarne insegnamento.
Charcot provava una gioia umana e giusta per i suoi successi, e gli piaceva parlare dei suoi inizi e del cammino percorso. La sua curiosità scientifica, raccontava, era stata sollecitata per tempo, quando cioè egli era soltanto un giovane medico interno (aiuto), da quel materiale neuropatologico la cui importanza era, allora, del tutto ignorata. Ogni qual volta passava la visita in uno dei reparti della Salpétrière (ospizio per donne) con il suo primario, osservando quella desolante ridda di paralisi, contratture e convulsioni a cui quarant'anni fa non si era ancora dato un nome né attribuito un preciso significato, Charcot soleva dire: "Faudrait y retourner et y rester" [Bisognerebbe tornarci e restarci]. E mantenne la parola. Non appena divenne médecin des hopitaux (primario), si diede subito da fare per essere destinato alla Salpétrière, a uno di quei reparti che ospitavano pazienti affette da malattie nervose, e invece di cambiare, a turni regolari, sia ospedale che reparto (e di conseguenza specialità), com'è appunto concesso ai primari francesi, vi rimase per sempre.
Così, quella sua prima impressione e il proposito da essa suscitato ebbero un'importanza decisiva per il suo sviluppo futuro. Potendo disporre di un ampio materiale di studio, costituito da numerose malate nervose croniche, egli riuscì a mettere a frutto le sue doti particolari. Non era un riflessivo né un pensatore, piuttosto una natura artisticamente dotata o, come diceva egli stesso, un visuel, un visivo. Quanto al suo metodo di lavoro, ecco quel che ci raccontava. Era solito osservare attentamente, più e più volte, le cose che non conosceva, rafforzando così l'impressione che ne aveva tratto: giorno per giorno, fino a che non gli si dischiudeva, all'improvviso, il loro intimo significato. Il caos apparente del continuo ritorno degli stessi sintomi gli si ordinava allora davanti agli occhi, ed ecco uscirne, caratterizzati dal nesso costante di determinati gruppi di sintomi, i nuovi quadri clinici; i casi‑limite, i "tipi", si lasciavano delineare in tutta la loro completezza con l'aiuto di una speciale schematizzazione, e partendo da questi tipi la visione si estendeva sulla lunga serie dei casi meno evidenti, le formes frustes che, iniziando da questo o da quel segno caratteristico di un dato tipo, sfumavano verso l'indeterminato. Questo genere di lavoro intellettuale, nel quale nessuno poteva essergli pari, Charcot lo chiamava "fare della nosografia" e ne era orgoglioso. Non di rado lo si udiva affermare che la maggior soddisfazione che un uomo possa provare consiste nel vedere qualcosa di nuovo, o meglio, nel riconoscerne la novità, e in molte sue osservazioni ritornava su tale punto e sulle difficoltà e sulla utilità di questo "vedere", chiedendosi come mai, in medicina, gli uomini vedano sempre e soltanto ciò che hanno, a suo tempo, imparato a vedere, e giudicando meraviglioso il fatto che si possano tutto a un tratto vedere come nuove (stati patologici nuovi) cose che, probabilmente, sono vecchie quanto l'umanità. E qui egli stesso si sentiva in dovere di confessare che vedeva, ora, nelle sue corsie, qualcosa che gli era passato inosservato per trent'anni. Qualsiasi medico sa quale ricchezza di forme Charcot abbia dato alla neuropatologia, e sa pure come le sue osservazioni abbiano permesso di formulare diagnosi finalmente precise e sicure. Ma all'allievo che con lui, per ore, passava la visita nelle corsie della Salpétrière, questo museo di fatti clinici che, per la maggior parte, a Charcot dovevano il proprio nome e la scoperta delle proprie caratteristiche, egli faceva venire in mente Cuvier, il grande conoscitore e descrittore del mondo degli animali, quale ce lo mostra un monumento al "Jardin des Plantes" attorniato da una folla di animali, oppure faceva pensare all'Adamo del mito, cioè colui che più di ogni altro, quando Dio gli affidò l'incarico di distinguere e dare un nome a ogni essere vivente nell'Eden, poté provare quel piacere intellettuale tanto esaltato da Charcot.
Charcot non si stancò mai di sostenere, contro gli abusi della medicina teorica, i diritti del lavoro puramente clinico, che consiste nel vedere e nel classificare. Una volta capitò che un piccolo gruppo di noi allievi tutti stranieri si trovasse riunito attorno a lui. Provenendo dalla scuola fisiologica tedesca, ci opponevamo alle sue novità cliniche, e ciò fini con l'irritarlo: «Ma non è possibile ‑obiettò a un certo punto uno di noi, ‑ ciò contrasta con la teoria di Young‑Helmholtz [sulla visione dei colori]." Charcot non replicò: "Tanto peggio per la teoria; i fatti clinici sono quelli che contano" o cose del genere; ma disse qualcosa che ci fece una grande impressione: «La théorie, c'est bon, mais ça n'ernpéche pas d'exister."
Per anni Charcot occupò, a Parigi, la cattedra di anatomia patologica, e le relazioni e i lavori di neuropatologia che lo resero rapidamente famoso anche all'estero furono svolti, senza alcun incarico ufficiale, come attività marginali. Per la neuropatologia fu però una vera fortuna che una stessa persona si addossasse lo studio di questi due campi, perché ciò permise a Charcot di creare, sulla base delle sue osservazioni cliniche, i quadri patologici da un lato, e di dimostrare, dall'altro, sia alla base del tipo che alla base della forme fruste, la presenza di un'uguale alterazione anatomica. L'importanza dei risultati raggiunti da Charcot con l'applicazione del metodo anatomo‑clinico alle malattie nervose di origine organica, alla tabe, alla sclerosi multipla, alla sclerosi laterale amiotrofica eccetera, è ormai universalmente nota. Prima di poter dimostrare la presenza di degenerazioni organiche in queste affezioni croniche non direttamente letali, occorrevano spesso lunghi anni di paziente attesa, e soltanto un ospizio per incurabili come la Salpétrière poteva offrire la possibilità di seguire costantemente, e per periodi così prolungati, pazienti colpite da tali affezioni. Per altro, la prima constatazione clinico‑anatomica fu fatta da Charcot quando ancora non disponeva di un reparto. Per caso, al tempo in cui era studente, prese in cura una domestica affetta da un singolare tremore che, rendendola maldestra, le impediva di trovare lavoro. Charcot riconobbe nel suo stato quella paralysie choréiforme che Duchenne aveva a suo tempo descritto, ma di cui era ancora ignota l'origine. Charcot assunse l'interessante domestica, anche se ciò gli costò, col passare degli anni, un piccolo patrimonio in piatti e scodelle, e quando alla fine ella mori, l'autopsia gli permise di dimostrare che la paralysie choréiforme era l'espressione clinica della sclerosi multipla cerebrospinale.
L'anatomia patologica va utilizzata, al servizio della neuropatologia, in due direzioni: per dimostrare la presenza di alterazioni patologiche, e per fissarne la localizzazione; e noi tutti sappiamo che, negli ultimi due decenni, questa seconda parte del compito ha suscitato il maggior interesse e ha compiuto i maggiori progressi. Pure a quest'opera Charcot ha collaborato in modo egregio, anche se le scoperte che hanno propriamente aperto queste vie non sono state effettuate da lui. In principio, Charcot segui le orme del nostro compatriota Tùrck che, a quanto si dice, visse e lavorò in modo piuttosto isolato fra noi; ma quando giunsero quelle due grandi novità che hanno aperto una nuova era per le nostre nozioni sulla “localizzazione delle malattie nervose” (cioè gli esperimenti di stimolazione eseguiti da Hitzig e Fritsch, e i reperti di Flechsig sullo sviluppo del midollo spinale), Charcot, nelle sue lezioni sulla localizzazione, fece quanto di più e quanto di meglio poteva per conciliare le nuove teorie con la clinica, affinché quest'ultima ne traesse vantaggio. Per quanto particolarmente riguarda la relazione tra muscolatura corporea e zona motoria del cervello umano, vorrei ricordare che l'esatta natura e topografia di questa relazione (proiezione comune delle due estremità nella stessa zona; proiezione dell'estremità superiore nella circonvoluzione centrale anteriore, proiezione dell'inferiore nella posteriore e quindi disposizione verticale) rimasero incerte per molto tempo, fino a quando cioè le continue osservazioni cliniche e gli esperimenti di stimolazione e di escissione, eseguiti nell'uomo vivo in occasione di interventi chirurgici, non decisero a favore di Charcot e Pitres, nel senso che il terzo medio delle circonvoluzioni cerebrali centrali è prevalentemente preposto alla proiezione delle braccia, mentre il terzo superiore e la zona mediale lo è alla proiezione delle gambe, per cui vi è una disposizione orizzontale nella regione motoria.
Non sarebbe possibile dimostrare, mediante l'enumerazione dei suoi singoli contributi, quale importanza Charcot abbia avuto per la neuropatologia, soprattutto perché negli ultimi due decenni non vi sono stati molti temi di qualche importanza alla cui enunciazione e discussione la scuola della Salpétrière non abbia preso parte in misura dominante. La "scuola della Salpétrière" era, naturalmente lo stesso Charcot che, per la ricchezza della sua esperienza, la trasparente chiarezza della sua esposizione e la plasticità delle sue descrizioni, era sempre facilmente riconoscibile in ogni opera dei suoi allievi. Nella cerchia dei giovani che egli attrasse intorno a sé e che fece partecipi delle sue ricerche, alcuni riuscirono a conseguire la coscienza della propria individualità e a farsi un nome famoso. E’ anche successo, a volte, che qualcuno di loro sia uscito in affermazioni che al maestro parvero più geniali che esatte e che egli avversò, non senza un certo sarcasmo, nei suoi discorsi e nelle sue lezioni, anche se, di questo, non ebbero mai a soffrire i suoi rapporti personali con l'allievo diletto. Infatti, Charcot lascia dietro di sé uno stuolo di allievi la cui qualità intellettuale e la cui opera garantiscono fin d'ora che la neuropatologia, a Parigi, non discenderà tanto presto da quel livello al quale Charcot l'ha portata.
A Vienna, abbiamo più volte avuto occasione di constatare che il valore spirituale di un professore universitario non comporta, necessariamente, quella diretta influenza della personalità del maestro sui suoi giovani allievi che si estrinseca nella formazione di una scuola importante e numerosa. Se Charcot fu, a questo proposito, molto più fortunato di altri, ciò deve essere attribuito alle personali qualità dell'uomo, al fascino che si sprigionava dalla sua figura e dalla sua voce, all'amabile franchezza che caratterizzava il suo modo di fare non appena i rapporti tra lui e il nuovo venuto avessero superato quel primo stadio durante il quale si è soltanto degli estranei, alla premura con cui metteva ogni cosa a disposizione dei suoi allievi e alla fedeltà che, per tutta la vita, dimostrò loro. Le ore che egli trascorreva in mezzo ai malati, erano ore di riunione e di reciproci scambi di idee tra Charcot e tutta la sua équipe medica; mai, in queste ore, si isolava, e anche il più giovane degli esterni aveva la possibilità di vederlo lavorare e persino di poterlo disturbare con una domanda. E di questa stessa libertà godevano anche gli stranieri che, anni dopo, non mancarono mai di essere presenti alle sue visite. Infine, le sere in cui Madame Charcot e sua figlia (giovane ragazza che, a somiglianza di suo padre, era spiritualmente assai dotata) aprivano la loro casa ospitale a una scelta società, gli allievi e gli aiuti, che non mancavano mai a queste riunioni, si presentavano agli occhi degli ospiti come altri membri della famiglia Charcot.
L'anno 1882, o 1883, diede una forma definitiva alla vita e al lavoro di Charcot. Si era finalmente capito che l'opera di quest'uomo costituiva parte del patrimonio della gloria della nazione, patrimonio tanto più gelosamente custodito dopo la sfortunata guerra del 1870‑71. Il governo, a capo del quale era un vecchio amico di Charcot, Gambetta, istituì per lui una cattedra di neuropatologia presso la facoltà di medicina (così che Charcot poté rinunciare a quella di anatomia patologica) e una clinica, completata dai relativi istituti scientifici, presso la Salpétrière. Le Service de M. Charcot comprendeva così, oltre agli ambienti già precedentemente destinati alle malate croniche, molte sale cliniche in cui potevano essere ricoverati anche gli uomini, un gigantesco ambulatorio (la consultation externe), un laboratorio istologico, un museo, un reparto oculistico, otoiatrico e di elettroterapia e infine uno studio fotografico. E tutte queste istituzioni rappresentavano altrettanti mezzi con i quali legare alla clinica, in modo duraturo e con incarichi precisi, gli ex assistenti e allievi. Quei vetusti edifici a due piani e i cortili che li circondano ricordavano molto agli stranieri il nostro Ospedale generale di Vienna: ma l'analogia finiva qui. Forse non è molto bello ‑ diceva Charcot al visitatore, mostrandogli la sua proprietà ‑ ma, volendo, si trova posto per tutti."
Charcot era al culmine della vita quando gli fu messa a disposizione questa pienezza di mezzi di insegnamento e di ricerca. Era un lavoratore infaticabile e, credo, il più diligente di tutta la Scuola. Il consultorio privato, in cui si affollavano malati provenienti da ogni dove (“da Samarcanda alle Antille” non gli fece mai trascurare le ricerche personali o l'attività di insegnante. Certamente, questo accorrere di persone non aveva come meta soltanto il famoso ricercatore, ma anche il grande medico e filantropo, che sapeva sempre trovare una risposta, o indovinarla, quando lo stato della scienza non gli permetteva di conoscerne una. Non poche volte gli è stata rimproverata la sua terapia, che non poteva non offendere, per l'abbondanza delle prescrizioni, le coscienze razionaliste. Ma Charcot seguiva semplicemente i metodi usati in Francia ai suoi tempi, senza troppo illudersi sulla loro efficacia. Il suo attendersi grandi cose dalla terapia futura dimostrava, del resto, come egli non fosse, a questo proposito, un pessimista; tant'è vero che diede sempre la possibilità di sperimentare nella sua clinica i nuovi metodi di terapia, il cui breve successo ha altrove la sua giustificazione.
Come insegnante, Charcot era addirittura avvincente; ogni sua lezione era un piccolo capolavoro di costruzione e composizione, di una tale perfezione formale ed efficacia, che per tutta la giornata non era possibile togliersi dalle orecchie le parole che si erano udite, né levarsi dagli occhi ciò che si era visto. Raramente Charcot presentava alle lezioni un malato solo; per lo più mostrava una serie di casi simili o contrastanti, che poi confrontava. La sala in cui teneva le sue lezioni era ornata da un quadro raffigurante il "cittadino» Pinel che libera dai ceppi gli infelici dementi della Salpétrière; e la Salpétrière, che a tanti orrori aveva assistito durante la Rivoluzione, divenne così anche la sede di questo atto rivoluzionario tra i più umani. Durante le lezioni, lo stesso Maitre Charcot faceva una singolare impressione: egli, che era in genere traboccante di vivacità e di serenità, e che aveva sempre una battuta pronta sulle labbra, appariva allora, sotto il tocco di velluto, serio e solenne, persino più vecchio; e la sua stessa voce ci pareva smorzata. Potevamo così capire come mai i malevoli stranieri rimproverassero a tutto l'insieme della lezione una pretesa teatralità. Naturalmente, si trattava di persone abituate al carattere privo di formalità delle lezioni cliniche tedesche, o che dimenticavano che Charcot, tenendo una sola lezione alla settimana, la preparava perciò con ogni cura.
Se con queste solenni lezioni, nelle quali ogni particolare corrispondeva a uno schema tracciato in precedenza, Charcot seguiva, verosimilmente, una tradizione consolidata, egli personalmente sentiva tuttavia il bisogno di offrire al suo uditorio anche un quadro meno artificioso della sua attività. A questo scopo utilizzava l'ambulatorio della clinica, prestandovi personalmente servizio nelle cosiddette Leçons du mardi. Durante queste lezioni esaminava casi che gli erano del tutto ignoti, esponendosi così a tutti i possibili errori di un esame sommario e a tutte le eventualità, e rimovendo da sé ogni autorevolezza per confessare, all'occasione, che questo o quel caso non si prestava ad alcuna diagnosi o che egli si era lasciato ingannare dalle apparenze. E mai egli sembrava tanto grande agli studenti come quando, rendendo conto nel più accessibile dei modi dei suoi procedimenti mentali, o svelando con la maggiore franchezza i suoi dubbi e le sue indecisioni, si sforzava di colmare l'abisso esistente tra maestro e scolaro. La pubblicazione di queste lezioni improvvisate degli anni 1887 e 1888 (pubblicazione apparsa in francese, ma ora tradotta anche in tedesco)' ha allargato enormemente la cerchia dei suoi ammiratori, tanto che nessuna opera di neuropatologia ha mai raggiunto, presso il pubblico medico, il successo riscosso da questa.
Quasi contemporaneamente alla fondazione della nuova clinica e al ritiro dalla cattedra di anatomia patologica, nella sfera degli interessi di Charcot si verificò un cambiamento al quale dobbiamo i suoi lavori più belli. Ritenendo infatti che la teoria delle malattie nervose organiche fosse, almeno per il momento, completa, cominciò a rivolgere il suo interesse quasi esclusivamente all'isteria, che si venne così a trovare, di colpo, al centro dell'attenzione generale. Questa malattia, la più enigmatica di tutte le malattie nervose, sulla quale nessun medico aveva ancora potuto avanzare ipotesi veramente valide, era caduta in un discredito che si estendeva tanto ai malati, quanto ai medici che se ne occupavano. Ritenendo che nell'isteria tutto è possibile, agli isterici non si voleva dare alcun credito. L'opera di Charcot restituì a questo problema la sua dignità; a poco a poco, si rinunciò a quei sorrisi di scherno sui quali i malati potevano, allora, contare con assoluta certezza. Non doveva infatti trattarsi di simulazione se Charcot, con la sua indiscussa autorità, si era pronunciato a favore dell'autenticità e dell'obiettività dei fenomeni isterici. Charcot aveva così ripetuto, in piccolo, quel gesto liberatore grazie al quale l'immagine di Pinel adornava l'aula della Salpétrière. Una volta rimosso dagli infelici malati il cieco timore di essere presi in giro, timore che fino ad allora aveva ostacolato ogni seria ricerca su questa nevrosi, era finalmente possibile chiedersi quale sistema offrisse la via più breve per giungere alla soluzione del problema. A un osservatore che non avesse avuto idee in proposito, un caso di isteria avrebbe offerto la possibilità di ragionare come segue. Se trovo una persona in uno stato che rivela tutti i segni di un affetto doloroso: lacrime, urla, agitazione violenta, posso senz'altro concludere che sia lecito sospettare, in questa persona, la presenza di un processo psichico che si manifesta, a buon diritto, mediante tali fenomeni somatici. A questo punto, un individuo sano sarebbe naturalmente in grado di dire qual è l'evento doloroso che lo ha così impressionato; l'isterico, invece, risponderebbe di non saperne nulla. Nascerebbe allora il problema di stabilire perché l'isterico soggiaccia a un affetto di cui afferma di ignorare la causa. Se ci si attiene alla conclusione cui si era pervenuti, che cioè debba esservi un processo psichico corrispondente, pur dando credito alle parole del malato il quale ne nega l'esistenza, e se contemporaneamente si riuniscono i molteplici segni dai quali risulta che il malato si comporta come se conoscesse il perché del suo comportamento; se, indagando nella vita del malato stesso, si ritrova una causa, un trauma, che possa giustificare il manifestarsi dell'affetto: se si fa tutto ciò, si è veramente costretti a dedurre che il malato si trova in uno stato psichico particolare, nel quale è andato perduto il filo che connette tutte le impressioni e i ricordi, uno stato in cui è possibile che l'affetto del ricordo si estrinsechi per mezzo di manifestazioni somatiche, senza che il gruppo degli altri processi psichici, l'Io, possa saperlo o possa intervenire per impedirlo. La ben nota differenza psicologica esistente tra sonno e veglia avrebbe potuto attenuare la singolarità di questa ipotesi. Né si potrebbe obiettare che la teoria di una dissociazione della coscienza come soluzione dell'enigma dell'isteria è troppo ardita per imporsi a un osservatore ignaro e impreparato. In realtà, già il medioevo aveva optato per questa soluzione spiegando la causa dei fenomeni isterici con la possessione da parte del demonio; sarebbe bastato dunque sostituire la terminologia religiosa di quell'epoca oscura e superstiziosa con quella scientifica dell'epoca attuale.'
Charcot non prese però questa via per spiegare l'isteria, benché avesse ampiamente attinto alle relazioni rimasteci su processi per stregoneria e su individui "posseduti", allo scopo di dimostrare che le manifestazioni della nevrosi erano, a quei tempi, le stesse di oggi. Trattò quindi dell'isteria come di un qualsiasi altro argomento della neuropatologia: diede perciò una completa descrizione dei fenomeni isterici, dimostrò che essi seguono determinate leggi e norme, e insegnò a individuare i sintomi mediante cui è possibile diagnosticare l'isteria. Le accurate ricerche condotte sull'isteria da Charcot e dai suoi allievi si estesero anche alle turbe isteriche della sensibilità della cute e dei tessuti più profondi, al comportamento degli organi di senso e alle caratteristiche delle contratture e paralisi isteriche, delle turbe trofiche e delle alterazioni del ricambio. Furono descritte le diverse forme dell'attacco isterico, tracciando uno schema che distingueva la tipica struttura del grande attacco isterico in quattro stadi e che permetteva di tipicizzare il "piccolo" attacco di comune osservazione. Si studiò pure la localizzazione e la frequenza delle cosiddette zone isterogene, i loro rapporti con gli attacchi isterici e così via. Con l'aiuto di tutte queste nozioni sul fenomeno dell'isteria si fecero in seguito tutta una serie di sorprendenti scoperte; si accertò che l'isteria colpisce anche il sesso maschile e specialmente, con frequenza addirittura insospettabile, gli uomini della classe operaia. Ci si convinse così che determinati casi, attribuiti ad alcolismo e a saturnismo, erano invece di natura isterica. Si era ormai in grado di far risalire all'isteria un gran numero di affezioni fino ad allora incomprese e isolate, e di stabilire quanta parte di isteria vi fosse nei casi in cui la nevrosi si era unita, formando complessi quadri patologici, ad altre affezioni. Di massima importanza furono le ricerche condotte sulle malattie nervose conseguenti a gravi traumi, le "nevrosi traumatiche", la cui natura è tuttora discussa, e per le quali Charcot rivendicò, con successo, i diritti dell'isteria.
Dato che questo allargamento del concetto di isteria portava tanto spesso a un rifiuto delle diagnosi etiologiche, sorse la necessità di risalire all'etiologia dell'isteria medesima. Charcot trovò una facile formula: l'unica causa dell'isterla è l'ereditarietà e, perciò, l'isteria è una forma di degenerazione organica e fa parte della famille névropathique; tutti gli altri fattori etiologici hanno solo il ruolo di motivi occasionali, di agents provocateurs.
La costruzione di questo grande edificio scientifico non avvenne, naturalmente, senza che sorgessero energiche opposizioni, ma si trattava comunque della sterile opposizione della vecchia generazione che non voleva veder modificate le proprie opinioni; al contrario i più giovani tra i neuropatologi, ivi compresi i tedeschi, accettarono, in misura più o meno ampia, la teoria di Charcot. Charcot stesso era assolutamente certo della vittoria delle teorie che aveva formulato a proposito dell'isteria, e se gli si obiettava che, tranne in Francia, in nessun altro paese era possibile osservare i quattro stadi dell'isteria, l'isteria maschile, eccetera, sottolineava che queste cose erano sfuggite a lui stesso per moltissimo tempo e ripeteva una volta di più che l'isteria è sempre stata la stessa dovunque e comunque. Era poi molto sensibile all'accusa rivolta al francesi di essere un popolo di gran lunga più nervoso di altri e si rallegrò quindi moltissimo il giorno in cui una pubblicazione "su di un caso di epilessia di riflesso" in un granatiere prussiano gli permise di fare, a distanza, una diagnosi di isteria.
In una fase del suo lavoro Charcot superò il suo trattamento comune dell'isteria e compì un passo che gli assicurò per sempre la fama di primo interprete dell'isteria. Occupandosi dello studio delle paralisi isteriche conseguenti a trauma, gli venne l'idea di riprodurre artificialmente queste paralisi, che egli stesso aveva, in precedenza, accuratamente differenziato da quelle organiche. A questo fine si servì di pazienti isterici che poneva, mediante ipnosi, in stato sonnambulico. Charcot riuscì a dimostrare, con una serie ininterrotta di deduzioni, che queste paralisi sono il risultato di rappresentazioni dominanti il cervello del paziente in momenti di speciale disposizione. Il meccanismo di un fenomeno isterico veniva cosi chiarito per la prima volta. A questo saggio, incomparabilmente bello, di ricerca clinica, si riallacciò più tardi Pierre Janet, suo allievo, così come si riallacciarono Breuer e altri, per tracciare una teoria della nevrosi che, una volta sostituito il "demonio" della fantasia ecclesiastica con una formula psicologica, coincide perfettamente con la concezione medievale.
Charcot, studiando i fenomeni dell'ipnosi nei soggetti isterici, attrasse l'interesse su questo importantissimo complesso di fatti fino a quel momento trascurati e disprezzati. Inoltre, il peso del suo nome ha posto fine, una volta per tutte, a qualsiasi dubbio sulla realtà dei fenomeni ipnotici. Questo argomento prettamente psicologico non si adattava però al trattamento esclusivamente nosografico della Salpétrière. La limitazione dello studio dell'ipnosi agli isterici, la differenziazione in grande e piccola ipnosi, la divisione della "grande ipnosi" in tre stadi e la sua caratterizzazione per mezzo di fenomeni somatici, tutto ciò non ha retto alla critica dei contemporanei, finché Bernheim, allievo di Liébeault, cominciò a costruire una teoria dell'ipnotismo su basi psicologiche più ampie, stabilendo quale nucleo centrale dell'ipnosi la suggestione. Solo quegli avversari dell'ipnotismo che si accontentano di celare la propria personale ignoranza col richiamo a un'autorità si abbarbicano ancora alle posizioni di Charcot, e preferiscono servirsi di un'opinione da lui espressa negli ultimi anni, per cui si dovrebbe escludere qualsiasi valore terapeutico all'ipnosi.
Anche le teorie etiologiche che Charcot espose a proposito della famille névropathique e che egli mise alla base della sua generale concezione delle malattie nervose richiedono una sollecita revisione e correzione. Charcot ha talmente sopravvalutato l'ereditarietà come fattore etiologico, che non è più rimasto alcuno spazio per le nevropatie acquisite; alla sifilide ha concesso solo un modesto posto tra gli agents provocateurs, ed egli non ha distinto né etiologicamente né in altro modo le malattie nervose organiche dalle nevrosi. E’ inevitabile che i progressi della nostra scienza, aumentando il nostro sapere, riducano in parte la validità di ciò che Charcot ci ha insegnato. Ma nessun mutare dei tempi o delle opinioni potrà mai diminuire la fama di quest'uomo per la cui morte, in Francia e altrove, siamo tutti oggi in lutto.
Vienna, agosto 1893