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PROPOSTE DI LINEE GUIDA PER I GRUPPI APPARTAMENTO

 

INTRODUZIONE

 

 

L'interesse ed il desiderio di approfondimento e ricerca sui gruppiappartamento deriva sia da un più generale interesse per la psicologia e la psichiatria dovuto al percorso universitario che ho affrontato, sia dal lavoro  che svolgo come educatore ormai da 5 anni presso i Gruppi Appartamento del Dipartimento interaziendale ASL5 Collegno/ASO S.Luigi Gonzaga Universitario di Salute Mentale, diretto dal Prof. Pier Maria Furlan.

La scelta di questo argomento è divenuta per me naturale proprio perché conciliava due tipi di esigenze: da un lato quella della formazione universitaria dall’altra quella della formazione lavorativa.

L’esperienza dei Gruppi Appartamento è relativamente nuova, ma si trova a mio parere davanti ad una sorta di esame di maturità.

La scelta di provare a tracciare delle linee guida per i gruppi appartamento in psichiatria risponde proprio a questa esigenza, tentativo parziale per assunto, occasione per riflettere su una realtà nella quale la quotidianità spesso assume una dimensione più importante del pensato.

Nell’approccio che ho provato a seguire le linee guida, si configurano come dei punti in cui possono convergere diversi stimoli, diverse occasioni di pensiero, anziché cercare di codificare in un protocollo delle risposte per ogni situazione.

Occasione ulteriore è il particolare investimento su questo particolare tipo di struttura intermedia che il Dipartimento di Salute Mentale 5b ha sempre effettuato: a partire dalle prime esperienze di domicilazione supportata degli anni ‘80 sul territorio di Collegno e Grugliasco, che furono tra i primi segnali concreti del superamento dell’Ospedale Psichiatrico, processo che in qualche modo ebbe la sua conclusione nel 1999 con la costituzione dei Gruppi Appartamento di Collegno e che oggi prosegue, ovviamente con altri obiettivi rispondenti al cambiamento delle esigenze del territorio, con la recente costituzione dei Gruppi Appartamento sul territorio di Orbassano.

Attraverso tutti questi sforzi nell’arco di un ventennio i gruppi appartamento sul territorio del DSM 5b hanno assunto e assurgono una visibilità e una consistenza anche numerica che ha pochi eguali sul territorio nazionale.

Con questa tesi ci si ripropone, dunque, di contribuire a chiarire se i pazienti inseriti nei G.A. possano considerare tale struttura come una sistemazione definitiva o meno, cioè se i G.A. costituiscano un punto di arrivo nel percorso terapeutico-riabilitativo, oppure se costituiscano uno snodo terapeutico-riabilitativo che assume di volta in volta significato differente nei vari percorsi individuali.

Per affrontare l’argomento nella sua globalità si è dovuto considerare il percorso storico e socioculturale nel quale si è evoluta la malattia mentale.

Passo successivo è stato quello di provare a raccogliere diversi contributi in ambito psicosociale, tenendo al centro il concetto di riabilitazione, e quindi integrandoli con una visione più psicodinamica con al centro il concetto di cura.

Obiettivo primario nella proposta di stesura delle linee guida  è stato il  tenere insieme questi due orientamenti, a volte in contrasto tra loro,con la convinzione  che l’integrazione degli stessi sia l’unico approccio possibile.

 

 

CAPITOLO 1

 

GRUPPI APPARTAMENTO QUADRO STORICO E NORMATIVO

 

 

L'ospedale psichiatrico è un'istituzione nata e rafforzatasi nel corso dell'ottocento sulla base di due idee fondamentali: quella "umanitaria" della cura con mezzi medici e tecnici adeguati, e quella "di custodia", con un significato di protezione delle persone bisognose e allo stesso tempo di difesa dell'ordine sociale. E' evidente che l'idea di custodia comportava il rischio di reclusione e isolamento, senza vantaggi in termini di cura.

  Prima del 1904, in Italia non esisteva una legge che stabilisse ufficialmente il ruolo della psichiatria nei confronti dei cittadini.

Esistevano invece Manicomi provinciali, quelli delle Opere Pie, manicomi criminali e istituti dove venivano internati minorenni e ritardati mentali.

La Legge Giolitti, emanata nel 1904 ed avente per titolo “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati”, rimase in vigore fino al 1978 ed introdusse dunque profondi cambiamenti, riconfermati ed integrati dal relativo Regolamento del 1909.

L’articolo n. 1 prevedeva la custodia e la cura nei manicomi per le persone affette da alienazione mentale, pericolose per sé o per gli altri o il cui comportamento fosse di pubblico scandalo.

A lato della tutela dell’alienato, veniva posta in primo piano la tutela dell’ordine pubblico.

Infatti, questa non si poteva considerare una legge sanitaria, bensì di pubblica sicurezza,  in cui la psichiatria veniva posta al servizio del sistema giudiziario. Questo accadeva in mancanza di cure efficaci per le patologie psichiche.

D’altro canto serviva anche come tutela da eventuali abusi degli psichiatri che, sotto ricompensa, avrebbero avuto il potere di internare persone solo per favorire interessi patrimoniali.

In base alla teoria psichiatrica del tempo, inoltre, non veniva riconosciuta dignità di espressione alla volontà del malato: infatti, la stessa persona che avesse chiesto di essere curata, non avrebbe avuto ascolto se non in via eccezionale per poi essere rimesso al controllo giudiziario.

Di norma, chiunque avesse manifestato disturbi comportamentali sarebbe stato sottoposto a ricovero “coatto”.

Visto che il suddetto ricovero era per la maggior parte dei casi a tempo indeterminato, precludeva al malato ogni possibilità di reinserimento nella vita pubblica.

Era, per altro, anche prevista la possibilità di sostenere economicamente le famiglie che si prendevano la responsabilità di tenere il malato in casa; in alternativa si prevedeva l’inserimento presso case di privati, iniziativa da considerarsi all’avanguardia in quanto precorreva  i tempi che avrebbero maturato gli affidi familiari e gli assegni terapeutici.

Con il passare degli anni questa legge rafforzò sempre di più il potere dei medici direttori, che potevano decidere arbitrariamente ogni aspetto delle attività svolte all’interno del manicomio e quindi il destino dei pazienti ivi inseriti.

Il numero dei medici era scarso e spesso questi ultimi erano privi di specializzazione; chi sosteneva il rapporto tra la struttura ed il paziente erano gli infermieri, anch’essi privi di un’adeguata formazione professionale, assunti in base al “saper leggere e scrivere e in possesso di sana e robusta costituzione”.

Va da sé che la funzione del manicomio fosse di assistenza/sorveglianza e non certo terapeutica.

Spesso la vita degli internati non prevedeva alcuna attività tranne che per quelli che venivano adibiti a lavori interni (pulizie, giardinaggio, etc.).

La prima modificazione della legislazione psichiatrica si ebbe con la Legge n. 431 del 1968, “Legge Stralcio Mariotti”, con la quale la “cura” del malato mentale cominciò a prendere il sopravvento sulla “custodia”.

Detta legge introdusse alcune importanti innovazioni:

- possibilità del ricovero volontario nell’Ospedale psichiatrico (non più “manicomio”) senza limiti di tempo e la possibilità di trasformare il ricovero coatto in ricovero volontario;

- l’abolizione dell’iscrizione automatica dei ricoverati al casellario giudiziario: essere ricoverati non doveva più essere un marchio incancellabile.

Fu stabilito inoltre che l’O.P. dovesse essere organizzato in divisioni, come l’ospedale civile, e non potesse avere più di 625 posti letto.

Venne aumentato il personale sanitario, ma soprattutto vennero istituiti servizi di igiene mentale  extraospedalieri (C.I.M.), consistenti in piccoli nuclei di medici, infermieri, assistenti sociali che operavano in varie località del territorio, con il compito di assistere i dimessi dall’O.P. e le loro famiglie, cercando di ricostruire i rapporti tra il malato e il suo ambiente e di ridurre il più possibile i ricoveri coatti.

Va segnalato che, non tutte le Regioni seppero adattarsi alla nuova riforma, e che malgrado questa innovazione, la psichiatria rimaneva ancora isolata dalle altre attività socio-sanitarie.

Negli anni ’50 e ’60, intanto cominciarono a diffondersi anche in Italia le teorie psicoanalitiche che insieme a quelle sociologiche e antropologico-culturali avrebbero rivoluzionato la visione della follia e del manicomio.

Negli stessi anni l’introduzione degli psicofarmaci contribuì a far sì che medici ed infermieri assumessero un atteggiamento più terapeutico nei confronti dei pazienti ed iniziassero a considerare, accanto alla  sintomatologia clinicamente rilevante, anche gli aspetti socio-ambientali e relazionali, gettando le basi per una nuova forma di assistenza e organizzazione psichiatrica.

La vera svolta si ebbe tuttavia con la riforma psichiatrica del 1978, con l’emanazione della Legge n. 180 (legge Basaglia) inglobata in seguito nelle Legge n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (S.S.N.) che garantisce la difesa della salute e la sua promozione.

L’articolo n. 2 indica gli obiettivi del S.S.N. inerenti la psichiatria: la tutela della salute mentale deve privilegiare la prevenzione e i servizi psichiatrici vengono inseriti nei servizi sanitari generali per eliminare ogni forma di discriminazione che ostacoli ulteriormente  il recupero e il reinserimento sociale.

La grande innovazione consiste nel riconoscimento della possibilità di curare la sofferenza psichica senza far ricorso al ricovero del paziente ed evitando di conseguenza di separarlo dal suo ambiente di vita.

L’eventuale ricovero viene sancito come di norma volontario;

il Trattamento Sanitario Obbligatorio (T.S.O.) è  rigidamente normato e può essere effettuato solo in quei casi in cui:

- il bisogno di cura sia  urgente;

- le alterazioni psichiche non permettono l’accettazione da parte del paziente di interventi terapeutici;

- l’intervento terapeutico non sia adottabile in sede extraospedaliera.

Gli O.P. in Italia perdono la loro funzione, in quanto la legge vieta espressamente nuove ammissioni e la loro costruzione.

Si apre quindi la possibilità di una nuova forma di psichiatria finalmente attenta alla salute dei cittadini e aderente ai principi della Costituzione.

Nonostante tutto, la normativa ha presentato notevoli difficoltà di attuazione: le Regioni hanno tardato a mettere in pratica i principi legislativi; in particolare in Piemonte la Legge Regionale n. 61 è stata promulgata soltanto nel 1989 con l’istituzione del Servizio Dipartimentale Psichiatrico  (S.D.P.) che ha il compito di coordinare gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione delle malattie mentali sul suo territorio. La legge Finanziaria del 1994 ha stabilito il termine ultimo per la definitiva chiusura dei manicomi, ma a quel tempo vi erano ancora circa 20.000 pazienti in circa 67 ospedali psichiatrici italiani.

Occorre attendere il 1995 perché venga formulato il primo Progetto-Obiettivo (P.O.)  “Tutela della salute mentale per il triennio ’94 – ’96”, seguito da un secondo P.O. “Tutela della salute mentale per il triennio ’98 – 2000”.

I due P.O. si ispirano alla Legge n. 180 e prevedono un’assistenza psichiatrica articolata nei momenti di prevenzione delle patologie, la cura e la riabilitazione.

Nel primo P.O. vengono affrontate quattro questioni principali:

- l’organizzazione delle strutture;

- la formazione professionale degli operatori;

- l’organizzazione dipartimentale del lavoro;

- il definitivo superamento degli O.P..

Il successivo P.O., contiene obiettivi specifici di salute, il cui perseguimento va oltre il suo triennio di validità, viene riconfermata l’organizzazione dipartimentale, essendo il D.S.M. sede del coordinamento generale della rete dei servizi psichiatrici delle A.S.L.; vengono definiti con precisione gli ambiti di competenza, le strategie di intervento, la configurazione operativa e le modalità di gestione.

Nei D.S.M. trovano collocazione:

- il Centro di Salute Mentale (C.S.M.) che coordina gli interventi di prevenzione, cura, riabilitazione e reinserimento sociale; esamina la domanda di accoglienza e l’attività diagnostico-terapeutica svolta sul paziente; definisce le modalità di approccio integrato e gli eventuali inserimenti nella Comunità Terapeutica.

- Il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (S.P.D.C.), situato nel contesto di Aziende Ospedaliere o presidi ospedalieri di Aziende A.S.L., permette  trattamenti psichiatrici volontari ed obbligatori in condizioni di ricovero.

- Il Day Hospital (D.H.) è un’area di assistenza semiresidenziale per prestazioni diagnostiche  e terapeutico riabilitative a breve e medio termine. Può essere situato in strutture ospedaliere o esterne purché collegate con il C.S.M..

- Il Centro Diurno (C.D.) è una struttura semiresidenziale con funzioni terapeutico-riabilitative, aperto almeno otto ore al giorno per sei giorni la settimana. Dispone di locali idonei ed attrezzati e si avvale di una propria équipe ed eventualmente di operatori di Cooperative Sociali e delle Organizzazioni di Volontariato. I suoi compiti si svolgono nell’ambito dei progetti terapeutico-riabilitativi sviluppando l’abilità nella cura di sé e nelle quotidiane relazioni interpersonali.

- Le strutture residenziali quali Comunità Alloggio, Comunità protette,

Gruppi Appartamento, Alloggi Supportati etc., sono sedi dello svolgimento dei programmi terapeutico-riabilitativi per utenti di esclusiva competenza psichiatrica. Tali strutture sono da collocarsi in aree urbanizzate, facilmente accessibili evitando l’isolamento degli utenti: l’accesso e la dimissione dei pazienti avvengono in conformità a progetti personalizzati.

 

La Regione Piemonte risponde al P.O. con la delibera del Consiglio Regionale del 28/01/1997, n. 357-1370, che, tra le altre norme, stabilisce la possibilità di interventi alternativi al ricovero e all’inserimento in strutture residenziali protette attraverso i Gruppi Appartamento.

Questi sono intesi come soluzioni abitative per rispondere a specifiche esigenze di residenzialità assistita di tipo non asilare, rivolte a pazienti giunti ad una fase avanzata del loro reinserimento sociale.

I G.A. possono articolarsi in gruppi abitativi, ciascuno dei quali può accogliere al massimo cinque utenti.

Ogni G.A. non può avere più di due nuclei abitativi; è gestito direttamente dal D.S.M., che garantisce un sostegno domiciliare, con risorse proprie o del privato sociale, ovvero tramite associazioni giuridicamente riconosciute, associazioni di familiari e di volontariato.

I livelli di assistenza e protezione presso i G.A. variano in funzione della tipologia degli ospiti e del progetto terapeutico-riabilitativo gruppale e  individuale.

I pazienti dei G.A. contribuiscono economicamente alla gestione degli stessi; sono a carico del S.S.N. solo i costi della funzione sanitaria.

Le abitazioni da destinarsi a tale servizio sono messi a disposizione dei D.S.M. dalle A.S.L. o dagli enti locali, utilizzando alloggi anche di edilizia pubblica o convenzionata.

I requisiti strutturali e tecnologici sono quelli dell’edilizia residenziale pubblica e/o dell’edilizia convenzionata avendo cura che:

- ogni paziente possa usufruire di un suo spazio;

- gli appartamenti siano localizzati ai piani bassi per una facile accessibilità;

- ogni stanza non abbia più di due posti letto.

I G.A. rappresentano esclusivamente unità abitative e i pazienti rimangono in carico al D.S.M. competente per territorio, che è direttamente responsabile del progetto terapeutico-riabilitativo.

Il P.O. del 1998-2000 intende perseguire due obiettivi prioritari che non erano ancora stati focalizzati nei precedenti P.O.:

- migliorare la qualità della vita e l’integrazione sociale nei soggetti con malattie mentali;

- ridurre l’incidenza dei suicidi nella popolazione a rischio per problemi di salute mentale;

 - prevenire comportamenti a rischio in età preadolescenziale ed adolescenziale in cui casi di disagio psichico e sociale siano dovuti a problematiche scolastiche, familiari e relazionali.

Il P.O. del ’98-2000 ribadisce i concetti sviluppati in quello precedente introducendo in maniera innovativa la concezione di prevenzione, anche secondaria e terziaria.

Tale obiettivo è attualmente perseguibile soprattutto grazie all’ausilio degli psicofarmaci e delle nuove sperimentazioni nel campo della riabilitazione psichiatrica.

E’ necessario comunque sottolineare la difficoltà da parte delle Regioni ad ottemperare alle indicazioni del P.O. visto che quest’ultimo prevede un’organizzazione capillare e quindi cospicui investimenti.

Negli ultimi anni infatti le leggi finanziarie hanno imposto un forzato blocco della spesa pubblica.

 

1.1 LA STRATEGIA TERAPEUTICO-RIABILITATIVA CHE SOTTENDE AI GRUPPI APPARTAMENTO

 

Il G.A. rappresenta una forma di residenzialità sviluppatasi in questi ultimi anni che pone attenzione al “piccolo”, cioè a situazioni di convivenza tra poche persone, in contrapposizione  ai grandi numeri delle strutture protette, e che permette di prendere in esame  in modo analitico ed organizzato il problema della casa.

“Gruppo Appartamento” è una definizione che non solo connota e distingue un luogo in cui si realizza un particolare intervento o viene erogato un particolare servizio, ma implica anche un riferimento a:

- un contesto relazionale non occasionale e organizzato, vale a dire il  Gruppo;

- un luogo con una funzione abitativa che sembra più evocare la soddisfazione di un bisogno (ma anche un diritto) dell’ospite, piuttosto che lo svolgimento di un tipo di prestazioni professionali, garantite dagli operatori.

Ancora una volta viene esplicitata la coesistenza (non sempre scontata e priva di contraddizioni) di due aspetti che fondamentalmente sono sovrapponibili:

- l’importanza di garantire e promuovere lo sviluppo dell’autonomia e dell’autodeterminazione degli ospiti;

- l’importanza di garantire e promuovere lo sviluppo di forme di “gruppalità” organizzata (scambio, cooperazione, aiuto) tra gli ospiti, a vantaggio degli stessi.

 

“Abitare”

 

La riabilitazione psichiatrica passa anche attraverso i concetti di casa e di abitare, spesso intesi con il medesimo significato, ma in realtà possibili rappresentazioni di un diverso modo di vivere.

Se per casa si intende un luogo ove semplicemente vivere, non occorre manifestare particolari abilità, è sufficiente “stare” e questo è possibile in ogni luogo (dall’ospedale psichiatrico ad un alloggio) e a qualsiasi livello di riabilitazione raggiunta.

Abitare, invece,  può rappresentare qualcosa di più e di diverso: acquisire contrattualità, esercitare un potere, sia esso materiale o simbolico, essere protagonisti e partecipi di quanto si sta vivendo.

Il manicomio ha simboleggiato il luogo per eccellenza del “non abitare”, ma dello “stare”; per questo la svolta della psichiatria ha focalizzato gran parte del suo interesse sulla residenzialità; la storia di un paziente psichiatrico è anche un percorso di “case”, posti che come detto  non implicano necessariamente l’abitare.

Il lavoro che oggi è possibile effettuare consiste quindi nel definire l’uso della “casa” e la conquista dell’abitare; va inoltre ricordato che la casa non è l’unico spazio possibile da abitare: ogni luogo in cui si trascorre un tempo significativo ha la possibilità di essere vissuto; quindi ogni servizio in cui si viene a contatto con i pazienti è una possibile “palestra”  dell’abitare.

Abitare è una capacità interiore che si può acquisire, per questo vale la pena di lavorare sull’habitat ottenendo così il diritto di abitare e non solo quello di avere una casa, nella speranza che tale ottica rappresenti davvero il superamento della mutualità manicomiale.

Certamente bisognerebbe mirare a “costruire” abitazioni intese come luoghi di transizione verso l’abitare vero, concepire queste strutture come percorsi in cui si restituisca una parte di quelle specificità che caratterizzano una casa; fare in modo che la persona acquisisca competenze e capacità abitative vere, cioè discrezionalità, decisionalità, potere contrattuale.

 

“Gruppo”

 

Per Gruppo Galimberti intende:

Un insieme di individui che interagiscono fra di loro influenzandosi reciprocamente e che condividono più o meno consapevolmente interessi, scopi, caratteristiche e norme comportamentali. L’influenza reciproca tra i vari membri del gruppo è tanto più intensa quanto più il gruppo è ristretto e diminuisce via via che questo si allarga, per cui il gruppo si differenzia da altre forme di aggregazione sociale come le folle o le comunità in cui non esiste interazione diretta tra tutti gli individui”.

Secondo Minguzzi:

“…i gruppi sono sostanzialmente dei processi di interazione sociale quindi hanno come caratteristica fondamentale il dinamismo, che vuol dire anche storia”.

 Il gruppo è dunque una forma di socialità organizzata.

Applicando questa definizione al concetto di G.A. occorre tuttavia fare alcune precisazioni:

- distinguere  tra la nostra rappresentazione di gruppo e della sua funzionalità e quella degli ospiti;

- il gruppo può rappresentare un’opportunità per esprimere l’individualità di ognuno;

- il gruppo deve essere il più possibile fruibile per tutti i componenti di esso;

- il gruppo deve essere più uno strumento che una finalità: per questo va rispettata anche l’esigenza individuale di non usufruirne;

- vivere insieme porta inevitabilmente alla condivisione e allo scambio; questo avviene anche, ovviamente, nei G.A. senza che vi sia bisogno di insistere per ottenere dette dinamiche (il gruppo ha un suo valore intrinseco);

- non va dimenticata l’individualità di ognuno in nome della sopravvivenza del gruppo.

 

 

CAPITOLO 2

 

L’EVOLUZIONE DELL’APPROCCIO ALLA MALATTIA MENTALE: LA RIABILITAZIONE

                                             

                                    Sono proprio le numerose esperienze di                                             

                                       riabilitazione psichiatrica realizzate con    

                                       successo che minano alla radice i presupposti

                                       teorici e metodologici di chi continua a

                                       pretendere di poter curare la malattia                              

                                       mentale senza prendersi cura globalmente

                                       della  persona ammalata. ”

            

                                                                              C. Castelfranchi

         

La riabilitazione è un orientamento, relativamente giovane, che  nasce dai mutamenti socio-culturali di questi ultimi decenni, mutamenti che hanno influito sulla concezione della malattia mentale forse più di quanto abbiano fatto gli studi e le ricerche in campo psichiatrico.

Per molto tempo il termine “psichiatria” era identificabile come una disciplina che si limitava a descrivere condizioni psicopatologiche non influenzabili dalle risorse terapeutiche del tempo e ad isolare i      “mentecatti” dal resto del contesto sociale, poco potendo agire per evitare la disintegrazione dell’identità personale dell’individuo.

E’ solo con la scoperta di nuovi farmaci che la psichiatria inizia a curare anziché soltanto prendersi cura del paziente, considerandolo anche su un piano umano e sociale.

L’approccio attuale al malato non dimentica di trovarsi di fronte ad un uomo e non solo ad una malattia da rinchiudere in categorie di sintomi, diagnosi, rimedi.

Esso favorisce quindi un miglioramento sintomatologico e un miglior adattamento sociale attraverso interventi articolati, i cui punti nodali sono costituiti da approcci integrati farmacologici e  psicoterapeutici e dal sostegno offerto dalla rete sociale e familiare. 

L’impoverimento affettivo e cognitivo che sovente accompagna la persona con problemi psichiatrici è dovuto anche all’impoverimento di stimoli e di risposte provenienti dal suo contesto sociale.

Per contrastare tali dinamiche sono state sviluppate molteplici teorie e metodi d’intervento di tipo riabilitativo.

-  MORRIS, per  esempio, definisce la riabilitazione come il processo per prevenire o ridurre le cause della “disabilitazione” e nello stesso tempo per aiutare l’individuo a sviluppare le proprie doti o capacità al fine di acquisire fiducia e stima di sé attraverso successi conseguiti nei ruoli sociali;

- anche per HUME e PULLEN la riabilitazione passa attraverso l’adattamento dell’individuo ai limiti imposti dalla disabilità e il miglioramento della qualità della vita;

-  FARKAS ed ANTHONY intendono per riabilitazione l’aumento delle opportunità di vita in base alla libertà individuale che deve essere supportata da reali occasioni di crescita;

-  JONES propone il tentativo di occupare il miglior ruolo comunitario possibile per raggiungere la maggior gamma d’attività compatibile con personalità ed interessi personali;

-  WATTS e BENNET intendono per riabilitazione l’integrazione sociale e lavorativa;

-  CIOMPI intende un processo, il più possibile completo, di reinserimento nella vita sociale e lavorativa;

- BENIGNI intende incentivare e dare supporto ai bisogni e alle motivazioni della persona attraverso interventi specifici e integrati sia sull’individuo che sull’ambiente della sua vita quotidiana. L’obiettivo è di permettere una crescita armonica verso l’autonomia e non una compensazione delle capacità residuali o un’assunzione di nuove ed inutili abilità.

Una nuova possibile riabilitazione tende a non “forzare” il soggetto debole a diventare soggetto forte, ma piuttosto a modificare e ad aprire gli spazi della sua relazione con il mondo e quindi gli spazi d’interscambio.

Uno dei miti o, per meglio dire, mistificazioni della cultura riabilitativa è il riferimento all’autonomia come obiettivo primario della riabilitazione.

Il mito dell’autonomia è il maggior responsabile dell’iperselezione dei pazienti nei programmi di riabilitazione e del complementare abbandono dei pazienti non selezionati.

Secondo il modello dell’autonomia ovvero quello darwiniano, il singolo è stimolato a partecipare alla battaglia della sopravvivenza; la riabilitazione in questo caso equivale ad un miglioramento delle parti danneggiate (disabilità) affinchè il soggetto possa essere alla pari con gli altri.

Una concezione più “aperta” (e maggiormente realistica) di riabilitazione non pone al centro l’autonomia come obiettivo prioritario assoluto, bensì la partecipazione del soggetto alla scena, ove vi possa essere spazio sia per i deboli che per i forti, in uno scambio permanente di competenze ed interessi.

Anche il concetto di dipendenza in contrapposizione a quello di autonomia è spesso dibattuto: dipendenza ed autonomia non sono buone o cattive di per sé, non sempre l’una va necessariamente superata a favore dell’altra.

Il concetto secondo cui l’individuo sano è autonomo non fa parte, per esempio, delle culture arcaiche, ove l’individuo sano è una persona assolutamente integrata è subordinata al clan, ed alla tribù nei suoi valori e nei suoi comportamenti.

A prescindere dalla cultura di apparttenenza, è comunque  intrinseco alla natura dell’uomo il bisogno di non essere completamente autosufficiente in quanto si tende sovente a dipendere  dagli altri per scopi relazionali, per bisogno di affetto, di riconoscimento, oltre che per questioni pratiche: la nostra identità si costruisce socialmente, attraverso il riconoscimento altrui.

Gli obiettivi della riabilitazione possono dunque essere differenti a seconda delle varie scuole di pensiero; resta come scopo comune a tutti la tendenza alla autonomia, pur con significati e interpretazioni differenti.

Altro punto comune delle diverse teorie è costituito dalla centralità dell’utente, il quale assume un ruolo attivo nel suo percorso riabilitativo, grazie all’attenzione alle sue risorse e capacità e il riconoscimento delle  abilità presenti piuttosto che soffermarsi  sugli ostacoli e sui limiti posti dalla sua disabilità.

Vengono dunque riconosciuti i diritti sociali dell’individuo indipendentemente dalle sue abilità e dalla sua capacità di porsi come interlocutore in una rete di risorse e di servizi.

Secondo alcuni è possibile parlare di riabilitazione dal momento in cui si distoglie l’attenzione dal concetto di “restituito ad integrum” per focalizzarla sul mantenimento di un soddisfacente stile di vita.

Riabilitare, quindi, non si traduce nell’assunzione di una tecnica terapeutica specifica ma va inteso come sguardo sull’orizzonte delle possibili strategie che conducano il soggetto a ricoprire un ruolo sociale riconosciuto e riconoscibile.

Secondo Basaglia la riabilitazione dovrebbe comprendere tre livelli:

- livello individuale (il malato e la sua malattia);

- livello istituzionale o sovrastrutturale (in cui il malato è costretto);

- livello strutturale (cioè il significato strutturale e strategico dell’istituzione all’interno del sistema di cui è espressione).

Una complementarietà dei tre livelli consentirebbe alla persona che usufruisce dell’istituzione di trovare all’interno di essa una risposta ai suoi bisogni ed una spinta a fuoriuscire dalla stessa, con il risultato di un reale inserimento esterno.

Nella realtà però, sempre secondo Basaglia, spesso avviene che questi tre livelli siano antagonisti: la regola istituzionale tende a distruggere l’individuo per riperpetuare se stessa, assicurandosi la sopravvivenza.

L’istituzione tende così ad assumere un ruolo custodialistico confermando con il tempo la cronicità della malattia.

Basaglia continua affermando che “non possono essere i tecnici i soli protagonisti della riabilitazione e della cura del malato, ma soggetti di questa riabilitazione devono essere il malato e il sano che, solo diventando i protagonisti della trasformazione della società in cui vivono, possono diventare i protagonisti di una scienza le cui tecniche siano usate a loro difesa e non a loro danno.

Sé la società continuerà a fondarsi sulla sopraffazione, sul privilegio, sul sopruso della logica del capitale, ogni tecnica si tradurrà inevitabilmente in oppressione”.    

Al di là delle considerazioni fortemente  ideologiche espresse da Basaglia, occorre tuttavia ammettere la complessità dell’agire riabilitativo.

I modelli di intervento a cui si fa attualmente maggior riferimento sono i seguenti:

- Intrattenimento (ancora presente nelle strutture chiuse) . Esso utilizza strumenti definiti “riabilitativi”, quali occupazioni varie all’interno delle strutture (ergoterapia) o di intrattenimento (feste, gite, etc..), che hanno lo scopo di occupare il tempo del paziente e di rendere visibile l’intervento degli operatori; questo metodo però manca di progetto, non è mirato all’interesse o alle capacità del singolo e difficilmente incide sulla sua vita, quindi alla fine risulta essere più assistenziale che riabilitativo.

- Supporto. Esso è un modello più articolato, fornisce dei sostegni mirati all’individuo (o alla sua categoria di appartenenza, uomini, donne, giovani, anziani) finalizzati a valorizzare le sue parti sane.        I sostegni possono essere dati dai farmaci, operatori, familiari, strutture lavorative e non; il limite di questo modello è che non favorisce la realizzazione dell’utente, anzi ne rinforza la dipendenza.

- Mediazione. E’ questo un intervento che agisce sia sull’individuo sia sull’ambiente e che  vede l’operatore agire come mediatore tra malato e ambiente per combattere il pregiudizio sociale e per fornire agevolazioni, quali sussidi, casa, lavoro protetto, etc..

E’ certamente un modello attuale e  funzionale, anche perché proietta il malato all’interno della società chiamata a non isolarlo.

Questo modello, elaborato da Spivak sotto il nome di “Social Skill Training”, viene anche chiamato “superterapia”, in quanto non agisce unilateralmente ma si prefigge obiettivi di ampia portata quali la revisione dell’inserimento sociale del paziente.

Viene riconosciuta la possibilità di evoluzione del paziente i cui obiettivi ed interessi sono accuratamente definiti.

La malattia non è più individuata come una disabilità individuale, ma è determinata da una circolarità patologica di relazioni. Curare, quindi  significa ancora controllare i sintomi, ma anche le reazioni e le relazioni.

Riabilitare significa agire sulle relazioni, ricercare le giuste distanze emotive, influire sul comportamento del paziente, ma anche sul comportamento degli altri.

La cura riguarda, quindi, il malato, che è trattato con i farmaci e/o con la psicoterapia; ma anche il suo ambiente di vita è oggetto di un intervento riabilitativo che completa gli effetti della cura. In questo modello, fra cura e riabilitazione non c’è più distinzione rigida dei tempi e dei luoghi, mentre permane una differenziazione per quanto riguarda gli strumenti ed i livelli di intervento.

Infine, il modello che oggi appare maggiormente coerente e fruibile presuppone l’indeterminatezza evolutiva della storia della persona e la reversibilità dei ruoli, degli stili comportamentali ed affettivi dell’individuo, escludendo predeterminazioni del passato e nel futuro.

Avvenimenti esterni, risonanze emotive, vulnerabilità concorrono nel determinare quella particolare esperienza episodica che è definita malattia.

In questo tipo di modello non esiste più una distinzione tra curare e riabilitare, perché si assume che la malattia, menomazione e disabilità siano fatti potenzialmente reversibili.

La funzione della riabilitazione non è più normativa né di contenimento, ma risiede nell’affrontare un percorso reciproco di condivisione fra operatore, individuo sofferente e comunità; di conseguenza l’intervento non ha più un obiettivo rigidamente definito, ma tende ad incidere su ambiti più generali quali:

- il perseguimento del livello più alto possibile di autonomia e di libertà espressiva dell’individuo;

- il favorire il perseguimento dello sviluppo della persona, svincolandola da forme di comportamento e di relazioni rigide che la fanno soffrire e che provocano reazioni avverse e nocive da parte dell’ambiente, aiutandola a sviluppare modelli non solo tollerabili, ma anche condivisibili da parte del suo ambiente;

- sollecitare l’ambiente verso l’accoglienza all’individuo sofferente.

Questi obiettivi complessi devono essere collocati all’interno di un globale progetto di vita, che non può essere né predeterminato né deciso al di fuori della coscienza e dell’esistenza concreta dell’individuo.

 

 

2.1 ORIGINE DEI GRUPPI APPARTAMENTO

 

Il G.A. rappresenta, rappresenta nell’ambito dell’assistenza psichiatrica una struttura intermedia, come le comunità, i centri diurni, le strutture semiresidenziali, ecc.

Questi si configurano come luoghi idonei per lo sviluppo di relazioni terapeutiche improntate al recupero della dimensione del tempo, dello spazio e delle relazioni sul piano dei vissuti personali.

La riabilitazione in psichiatria viene così a coincidere con quel concetto che parla di “riabilitare il corpo, il tempo, lo spazio”.

Lavorare sulla quotidianità e sull’abitare un luogo implica necessariamente l’incontro con il luogo ove sono situate le strutture.

E’ evidente quindi la necessità di un intervento volto alla informazione e sensibilizzazione del territorio in cui le strutture sono allocate, per evitare intolleranze e processi espulsivi.

Bisogna far sì che un isolato, un quartiere, un paese, possano accettare la presenza di “matti” nelle proprie strade; risulta quindi importante fare una riflessione sul luogo dove avviene l’incontro tra paziente e servizio e si sviluppa l’azione riabilitativa.

I momenti e i luoghi dell’incontro hanno un’importanza rilevante ai fini del percorso e del risultato.

Come, infatti, afferma Saraceno “quanto più il luogo della riabilitazione ha a che fare con l’ospedale psichiatrico, più la nozione di riabilitazione viene connessa alle nozioni satelliti di umanizzazione-socializzazione,deistituzoinalizzazione-deospedalizzazione; invece più il luogo della riabilitazione è connesso al territorio più sembrano prevalere le interazioni con le nozioni di psicoterapia-supporto della rete sociale, progetto-limiti temporali del programma; infine quando il luogo della riabilitazione è una struttura residenziale intermedia si incontrano tutte le nozioni connesse alla gestione della quotidianità, del vivere, alla automatizzazione delle procedure quotidiane ”.

Saraceno afferma che le strutture (vale a dire  i luoghi) determinino in parte le procedure (vale a dire le pratiche) .

Purtroppo, non sempre in presenza di un bisogno viene attivato l’intervento riabilitativo; i motivi possono risiedere nel fatto che il servizio non ha le risorse necessarie per offrire risposte accettabili o che il bisogno stesso non viene riconosciuto dagli operatori dall’utente o da entrambe le parti.

Infine può accadere che il bisogno risulti essere ben evidente e le potenzialità di risposta siano presenti ma che comunque non riescano a realizzarsi

Da tutto ciò nasce la necessità di progettare modalità e luoghi di accesso molto articolati; soddisfatti questi presupposti, l’incontro può avvenire ovunque.

Vi sono posizioni, elaborate specialmente nella letteratura anglosassone, che sostengono il ruolo dell’ospedale per impostare il processo riabilitativo, anche sulla base di esperienze compiute in specifici reparti o unità di riabilitazione.

Al contrario, come affermano Ferrara, Germano e Archi, la funzione dell’ospedale, per quanto riguarda la riabilitazione, è fondamentale che sia limitata all’essere un’occasione di incontro quando il paziente è ricoverato, per avviare la relazione terapeutica e il programma da eseguire all’esterno.

Strutture di tipo ospedaliero da destinare specificatamente alla riabilitazione appaiono inadeguate ai bisogni dei pazienti ai quali devono essere offerte opportunità il più possibile vicine alla vita di tutti i giorni.

Nel nostro paese viene identificato un unico centro di responsabilità gestionale (le A.S.L.) ed un unico gruppo multiprofessionale, il Servizio Dipartimentale (D.S.M.), al quale è affidato il complesso degli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione.

Tutto ciò implica la pianificazione e la realizzazione di un sistema di competenze e di strutture, che assicurino la continuità operativa rispetto sia ai compiti del servizio sia ai bisogni del singolo utente.

Questo concetto trova oggi una notevole diffusione anche nella letteratura internazionale.

Si è parlato dei G.A. come strutture intermedie, contesti della riabilitazione, luoghi di frontiera e così via.

Per Ferrara, Germano e Archi il concetto di “intermedio non esprime soltanto la collocazione spaziale e temporale dell’intervento fra ospedale e la casa del paziente, ma soprattutto indica una funzione terapeutica complessa”.

La tentazione di identificare questa definizione di intermedio con strutture o spazi specifici come i centri residenziali, i centri diurni, gli atelier socioterapici e gli stessi centri di salute mentale, può far passare in secondo piano il fatto che l’intermedio deve rappresentare il movimento all’interno di uno spazio compreso tra i due poli di ciò che è malato e di ciò che è per tutti.

Napolitani delinea il concetto di intermedio “all’interno di una serie di polarità definendo le varie strutture come luoghi di frontiera dove spesso la pratica porta a rovesciare il pensiero e le prospettive teoriche che le hanno generate”.

Ciappi afferma invece che “le strutture intermedie ce le immaginiamo come spazi evolutivi, decostruibili e riciclabili capaci di risentire delle mutazioni quotidiane… spazi per una storia personale e collettiva da costruire”.

L’autore delinea il fatto che per strutture intermedie si intende quell’ insieme di interventi terapeutici che privilegiano la riscoperta di significati utilizzando un’attività e un gruppo come mediazione del rapporto; essi sono definibili intermedi in quanto riempiono il vuoto da sempre esistente tra interventi centrati sull’utilizzo del ricovero ospedaliero e interventi ambulatoriali o domiciliari, siano essi assistenziali, farmacologici, psicoterapici, ma che comunque necessitano da parte del paziente la capacità di verbalizzare, concettualizzare, di motivare una richiesta di aiuto.

Più in specifico intendiamo quell’insieme di interventi che il Servizio compie quando si rende conto della sua impotenza ad affrontare con i tradizionali strumenti sanitari e assistenziali l’espulsione del paziente dal suo ambiente come conseguenza della cronicizzazione dei rapporti tra sé stesso, il paziente, la famiglia e il contesto sociale.

Asioli sostiene che per definire i luoghi della riabilitazione non c’è bisogno di una elencazione astratta dei loro compiti, ma una                 “delimitazione”, ossia una chiarificazione degli scopi e una precisazione degli obiettivi.

In base alle finalità elencate da Asioli possiamo distinguere tre tipi di strutture residenziali:

- strutture con finalità alloggiativa, si tratta di case, appartamenti, piccole comunità la cui funzione è quella di provvedere all’alloggio, all’alimentazione dei pazienti e talvolta anche alla somministrazione dei farmaci. In tale struttura quasi sempre è prevista la presenza di qualche operatore psichiatrico;

- strutture con finalità prevalente deistituzionalizzazione e di riabilitazione. In queste strutture si opera prevalentemente per raggiungere e sviluppare l’autonomizzazione del paziente più che occuparsi di strategie assistenziali e terapeutiche in senso stretto. La tipologia dei pazienti e di solito quella dei manicomializzati per un lungo periodo;

- strutture con prevalenti finalità terapeutiche. Sono piccole comunità di pazienti con presenza continua di personale infermieristico e almeno per una parte della giornata di medici, i quali garantiscono continuità nella cura, realizzazione del trattamento in comunità senza ospedalizzazione, protezione a pazienti che sono portatori di gravi problemi clinici, di seri problemi familiari e di consistenti e gravi disabilità.

 

Da un punto di vista operativo il G.A. è improntato sulle caratteristiche e sull’impostazione del D.S.M. in cui si trova.

Infatti, a seconda delle linee progettuali attuate dai dipartimenti, il G.A. è stato definito come “tappa”, come “casa possibile” e come “rete di superamento delle comunità protette”:

- il G.A. tappa, come step, come luogo di passaggio all’interno del percorso del progetto riabilitativo;

- il G.A. come casa possibile, come comune abitazione per chi non ha più la casa o come gruppo alternativo alla famiglia, dove l’operatore deve cercare il più possibile di rimanere sullo sfondo;

- il G.A. come rete, in sostituzione, in superamento delle comunità e in alternativa al ricovero.

I G.A. hanno infatti differenti gradi di protezione, per cercare di trovare risposte adeguate ai bisogni dell’utente e far fronte al fenomeno della cosiddetta “porta girevole”.

 

La Letteratura Sui G.A.[1]

 

Un’esperienza in Svezia con pazienti schizofrenici ha verificato che la vita in “home like setting” ha incrementato nei pazienti competenze ed autostima.

Meissner ha evidenziato, in un’altra esperienza, che l’ottanta per cento dei pazienti inseriti nelle “case di transizione” avevano un miglioramento nel settore lavorativo e sociale.

Lo studio effettuato da Middelboe su pazienti affetti da patologie mentali croniche, inseriti nelle “supported houses” ha valutato che  dopo circa un anno l’83% dei pazienti mostrava un significativo miglioramento del:

- livello della qualità di vita;

- dell’integrazione sociale e relativo funzionamento sociale;

- delle capacità di auto-aiuto;

- della patologia.

Una ricerca effettuata nel 1999 da Rossler e collaboratori su pazienti schizofrenici lungodegenti, ha concluso che non è il luogo che influenza la qualità di vita, bensì le attività in esso svolte come per esempio il supporto sociale, ed altri fattori, quali la gravità della patologia ed il livello di scolarità.

L’esperienza statunitense del “supported housing”, pur partendo da un’impostazione pragmatica, è arrivata a conclusioni molto simili concettualmente a quelle della “pedagogia del potere” illustrate da Basaglia.

Quando il modello del “continuum lineare” è andato in crisi, è stato sostituito dal modello del “supported housing” (utilità di patologie disomogenee).

Nel primo modello il paziente era collocato in un punto preciso del continuum, in base alla diagnosi del suo disagio psichico, creando così gruppi omogenei per disabilità.

La modalità all’interno del continuum è a due sensi: il soggetto può percorrerlo in direzione di una maggior autonomia oppure verso una condizione di vita più restrittiva, in base ai suoi progressi o regressi nel programma terapeutico.

La gamma di strutture residenziali offerte comprende solitamente l’ospedale psichiatrico tradizionale, la comunità terapeutica, l’appartamento supervisionato, fino ad arrivare alla vita indipendente ed alla fuoriuscita dall’iter terapeutico.

Gli interventi possono essere più o meno diversificati, ma la sostanza consiste sempre in una mobilità del cliente all’interno di uno spectrum residenziale.

Tale modello è entrato in crisi quando i pazienti hanno iniziato a chiedere un’abitazione più stabile e hanno segnalato disagi dovuti alla carenza di risposte adeguate ai loro bisogni da parte delle strutture esistenti.

Le domande riguardo ai bisogni di una casa hanno messo in crisi il modello prevalente ed hanno posto le basi del cambiamento paradigmatico, il quale si articola secondo alcuni specifici nodi di aree problematiche, di seguito elencate:

a) Una casa o un setting di trattamento residenziale?

Secondo il modello del supporter housing avere una casa è un diritto di tutti, anche di chi soffre di disturbi psichici. Viene sottolineata l’importanza di avere un’abitazione stabile e di avere la possibilità di gestirla ai fini di un reale progresso. Viene, in sostanza, capovolto il concetto per cui prima si acquisiscono le abilità in un setting specifico per poi affrontare l’ambiente. Con il nuovo modello è l’ambiente stesso che si presta come strumento terapeutico;

b) Scelta o piazzamento?

Nel vecchio paradigma la decisione sul setting residenziale spetta unicamente allo staff curante, mentre nel modello del supporter housing, hanno un ruolo fondamentale le valutazioni e le scelte del cliente. Un posto non scelto non può essere concepito come abitazione propria, mentre la percezione del soggetto riguardo ai suoi poteri decisionali all’interno del programma riabilitativo costituisce un’elemento fondamentale per la sua riuscita;

c) Ruolo normale di membro di una comunità, proprietario di un’abitazione e quindi cittadino o ruolo di paziente di un trattamento terapeutico?

Il vecchio paradigma non affronta il problema dell’attribuzione di ruolo inerente al soggetto con disagio psichico. La proposta di un ruolo di cittadino “normale” diventa il focus per il supporto. Le aspettative dell’ambiente assumono un ruolo fondamentale nell’iter riabilitativo come rinforzo dei comportamento normali rispetto quelli devianti. Il soggetto è facilitato a rientrare nel tessuto sociale normale proprio perché si percepisce come proprietario di una casa, elemento fondamentale che segnala la propria appartenenza ad una comunità, piuttosto che come paziente ospite di una struttura terapeutica;

d) Controllo da parte del cliente o dello staff curante?

Secondo il modello tradizionale lo staff ha il potere di definire le attività e lo stile di vita del cliente. Nel nuovo paradigma la relazione di potere viene riformulata nel senso di riattivare una contrattualità reale tra il cliente ed il servizio. L’obiettivo di entrambi consiste nel trovare una alleanza basata su di una mutua accettazione degli obiettivi e delle attività dell’iter terapeutico;

e) Integrazione sociale o raggruppamento per disabilità affini?

Nel modello tradizionale i pazienti erano raggruppati per disabilità affini. Con tale modalità i comportamenti devianti vengono rinforzati e si accentuano i fenomeni di stigma sociale e di isolamento. Inserito nei contesti normali il soggetto è facilitato nel trovare modelli di riferimento non devianti, misurandosi quotidianamente con i ritmi e le aspettative che lo portano a valorizzare le sue potenzialità;

f) Apprendimento in ambienti di vita reali e con supporto permanente o setting preparatori transitori?

Il progressivo spostamento dai contesti residenziali differenti in funzione dei progressi nell’iter terapeutico si è rivelato una semplificazione teorica piuttosto che un obiettivo realistico. Le persone non cambiano in modo lineare secondo passi stabiliti, tale concetto rispecchia un’idea del cambiamento che non tiene conto della complessità della persona e dell’ambiente in cui è inserito. Inoltre l’apprendimento di abilità in setting artificiali non favorisce il livello motivazionale del soggetto, in quanto egli non capisce perché deve apprendere determinate abilità non potendone sperimentare direttamente il loro scopo. I clienti hanno bisogno di un ambiente sicuro, di loro possesso, che offra una stabilità e permetta di apprendere con serenità le abilità richieste.

g) Servizi e supporto individualizzati e flessibili o livelli standard di servizi?

Il modello del continuum seleziona i bisogni in funzione delle proprie risorse e capacità di risposta, non correlando i vari aspetti della personalità del cliente. I bisogni del cliente spesso variano lungo dimensioni non previste e non prevedibili del modello come non è prevedibile la direzione del cambiamento. Di conseguenza devono essere i bisogni stessi del cliente piuttosto che i criteri del programma riabilitativo a dettare il programma stesso.

h) Ambiente facilitante e richiesta del setting migliore possibile o ambiente non restrittivo ed indipendenza?

Secondo il vecchio paradigma l’ambiente si esprime in negativo, evidenziando i limiti di autonomia piuttosto che le sue potenzialità. Tutto questo influisce negativamente sulle aspettative di successo e di “guarigione” sia del cliente che dell’operatore, i quali si ritrovano a confrontarsi quotidianamente con una realtà molto distante dagli obiettivi che ci si è prefissati.

Il modello del supported housing esprime invece in positivo il concetto di ambiente, ponendosi l’obiettivo di strutturare una relazione tra il cliente e il suo ambiente che faciliti e potenzi al massimo le sue abilità.

L’obiettivo del programma riabilitativo non è quello di perseguire un’indipendenza totale, quanto quello di individuare una relazione di interdipendenza ottimale tra il cliente, il suo ambiente di vita e il servizio stesso, attraverso il supporto personalizzato e a lungo termine.        

Il processo valutativo è di fondamentale importanza per l’approccio del supported housing perché concorre direttamente alla sua definizione operativa e di conseguenza alla sua applicazione concreta, in modo che non si crei una nuova etichetta attraverso la quale si giustifica qualsiasi intervento.

Carling ha individuato una serie di parametri oggettivi di valutazione dei servizi che si ispirano a questo nuovo approccio:

1.     Definire gli scopi della valutazione. I principi generali che regolano il processo valutativo devono essere resi operativi e funzionali alla realtà concreta che si vuole prendere in esame. Il processo di cambiamento necessita di periodiche verifiche allo scopo di esaminare quali obiettivi sono stati raggiunti e quali sono stati i principali fattori intervenuti.

2.     Operazionalizzare i concetti. Occorre dare una definizione operativa della casa supportata al fine di avere un riscontro obiettivo. Tale definizione si articola in base ad alcune caratteristiche concrete che rappresentano gli indicatori del fenomeno che si vuole osservare. Tali indicatori sono il tipo di utenza, il tipo di appartamento, la scelta dell’appartamento, l’assistenza e la durata della permanenza.

3.     Formulare domande rilevanti riguardo ai concetti chiave del modello. I costrutti fondamentali del modello sono l’individuo, la sua abitazione e il supporto. Il modello della casa supportata si basa sul fatto che il cliente dispone di un potere sufficiente a influire in modo determinante sulle scelte riguardo il suo iter riabilitativo. I processi decisionali rappresentano quindi una dimensione fondante del modello. Importanti sono anche il livello di soddisfazione delle aspettative del cliente e il livello di integrazione nel territorio. Il potere sullo spazio abitativo rappresenta un valido indicatore perché attraverso le sue possibilità di azione il cliente costruisce la rappresentazione del suo spazio di vita e l’immagine di sé. Il livello di integrazione nel territorio può essere valutato attraverso un’analisi delle reti sociali che attraversano la convivenza. Un’altra questione fondamentale riguarda il tipo di supporto richiesto dal cliente e la valutazione degli strumenti che l’équipe usa per verificare il proprio operato (supervisione, formazione personale e di gruppo, etc..).

4.     Guardare oltre il risultato della salute mentale. E’ di fondamentale importanza affiancare agli indicatori tradizionali della psichiatria anche indicatori propri della qualità della vita di ogni cittadino. Solo in questo modo non si corre il rischio di “medicalizzare” l’intervento concentrandosi unicamente sulla sintomatologia della patologia e non tenendo conto della complessità della persona.

5.     Evoluzione e caratteristiche del programma. Tipo di utenza. Il modello del supported housing così definito rappresenta un obiettivo reale verso cui tendere.E’ fondamentale monitorare quotidianamente la distanza tra il modello ideale e quanto si è potuto realizzare in concreto. Inoltre va tenuto presente in maniera continuativa l’evoluzione dell’utenza di riferimento e i cambiamenti delle domande rivolte. Solo una verifica continua permette al servizio di non istituzionalizzarsi bensì di evolvere in base alle esigenze ed ai bisogni dei clienti.

6.     Studiare i processi di sviluppo del modello.Si tratta di studiare come far sì che tale approccio abbia possibilità di espandersi e di trovare un’area di applicazione sempre più estesa.

 

Castelfranchi ha invece elaborato un modello psicologico utile per analizzare gli obiettivi e i modelli di intervento nella riabilitazione psichiatrica.

Secondo l’autore il possesso dell’abitazione e la possibilità di esercitare liberamente i propri scopi costituiscono la base fondamentale per avviare un corretto processo di riabilitazione psicosociale.

“Abitare” in un luogo di proprio possesso cioè avere il poter di usare un oggetto (abitazione e sue risorse) e di impedirne l’uso agli altri, piuttosto che “vivere in” una struttura adibita alla riabilitazione rappresenta una differenza di fondamentale importanza per l’assetto di poteri dell’individuo.

“Vivere in” comporta in ogni caso una limitazione dei propri poteri sullo spazio abitativo, una rinuncia che rischia di inficiare l’intero processo riabilitativo.

La mancanza di possesso implica la mancanza di autoregolazione cioè la mancanza di potere, di perseguire i propri scopi nelle forme e nei tempi stabiliti autonomamente.

Per la nozione di abitare vi sono, secondo Conte-Castelfranchi, degli scopi abitativi specifici il cui soddisfacimento è prioritario; si tratta di obiettivi di evitamento (scopi volti a far fronte ai pericoli provenienti dall’esterno), reintegrativi, affettivi, estetici, di aumento di potere (acquisizione di conoscenze e esercizio di abilità).

Vi sono poi anche degli scopi che non determinano specifiche attività, ma piuttosto il modo di eseguirle; questi sono gli scopi modali che gli individui sembrano voler soddisfare prioritariamente nello svolgimento delle attività abitative:il possesso e l’ autoregolazione.

Il possesso della casa e delle sue risorse è condizione necessaria per l’autoregolazione delle attività abitative; a sua volta avere la possibilità di scegliere le attività da svolgere, i tempi e i modi che si ritengono opportuni, significa avere il potere di soddisfare tutti gli scopi abitativi nel modo migliore possibile.

Il G.A. unisce la condizione dell’abitare e contemporaneamente permette di instaurare una relazione tra gli operatori e l’utente tale da non limitare i poteri di quest’ultimo.

Le azioni dell’utente e dell’operatore sono regolate da un medesimo scopo: l’autoregolazione degli scopi del cliente. Il processo riabilitativo ha come fine ultimo l’aumento dell’assetto di poteri  dell’individuo e lo sviluppo della sua autonomia. La relazione è caratterizzata dal fatto che l’operatore mette a disposizione dell’utente i suoi poteri e le sue conoscenze al fine di perseguire gli scopi di quest’ultimo. Non si tratta di sostituirsi alla persona, quanto di agire sulle condizioni che abilitano e disabilitano una persona.

 L’abitare, lo stare insieme, il vivere con, il crescere con, rappresenta un potenziale terapeutico che risponde insieme alle caratteristiche di struttura di ridotte dimensioni, al bisogno di sicurezza di integrazione e di calore che è proprio di una casa, un oggetto stabile, un punto certo pronto ad accogliere l’individuo e a collocarlo in uno spazio fisico.

La casa è anche uno spazio legato al “io-qui-ora”, alla dimensione esistenziale dell’uomo: il suo essere davanti al mondo e quindi un punto di partenza per l’esplorazione e la crescita.

Se la casa tende a rappresentare il nostro rapporto con il mondo, dove esercitiamo una familiarità di gesti e una ripetibilità di abitudini, non può essere solamente uno spazio fisico con dei confini, ma ripete l’archetipo della casa natale dove lo spazio attiene al tempo: in altre parole un’area psichica dove le emozioni, i pensieri, gli automatismi vanno avanti ed indietro nel tempo.

I pazienti spesso manifestano l’impossibilità di vivere in questa dimensione psichica della casa, perché abituati o a vivere nei luoghi che hanno impedito la personalizzazione dello spazio o a dare un significato non convenzionale alle cose che sono al centro rapporto con l’abitare.

La vita quotidiana, la condivisione di un luogo, lo spazio, il tempo è centrato non sul dire ma sul fare; si condividono le esperienze di tutti i giorni in un rapporto emozionale e fisico molto stretto, ogni gesto è condiviso e valorizzato.

Gli operatori con la loro presenza stabile possono aiutare il paziente a riconoscersi come soggetto entrando nel suo mondo e far riconoscere gli aspetti positivi del sé per poi seguirlo nel processo di simbolizzazione  della realtà.

Occorre far emergere il mondo interno delle persone, legandola con la realtà quotidiana.

Inoltre è possibile sostenere il paziente rispetto l’accettazione delle proprie responsabilità nei confronti della comunità e delle angosce di separazione e di crescita che la relazione con gli altri comporta.

Le funzioni terapeutiche finora esposte rappresentano una grande opportunità di creazione e di condivisione di uno spazio vissuto ordinato e progettuale, il che significa condividere esperienze, problemi, attese e speranze.     

 

 

2.2 I GRUPPI APPARTAMENTO DEL DIPARTIMENTO DI SALUTE MENTALE 5B

 

I gruppi appartamento sono dei servizi del Dipartimento di Salute Mentale. Essi per funzionare devono integrarsi a rete con gli altri servizi del dipartimento quali: Centro Diurno, SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura), CSM (Centro di Salute Mentale), Centro Crisi e le tre strutture residenziali Comunità Terapeutiche Protette di tipo B (Il Barocchio, Tirelli, Bonacossa).

Solo in quest’ottica i gruppi appartamento possono svolgere una funzione realmente terapeutica e non esclusivamente residenziale.

Le  prime esperienze di domicilazione supportata sul territorio di Collegno e Grugliasco risalgono agli anni 80 e furono tra i primi segnali concreti del superamento dell’Ospedale Psichiatrico, processo che in qualche modo ebbe la sua conclusione nel 1999 con la costituzione dei Gruppi Appartamento Collegno e che oggi prosegue ovviamente con altri obiettivi rispondenti al cambiamento delle esigenze del territorio con la recente costituzione dei Gruppi Appartamento sul territorio di Orbassano.

I G.A. possono articolarsi in gruppi abitativi ciascuno dei quali può accogliere fino ad un massimo di cinque utenti.

Ciascuno di essi non può avere più di due nuclei abitativi e sono gestiti direttamente dal DSM che garantisce un sostegno domiciliare, con risorse proprie o con risorse del privato sociale ovvero con Associazioni giuridicamente riconosciute, Associazioni di famigliari e Associazioni di volontariato.

I livelli di assistenza e protezione presso i G.A. variano in funzione della tipologia degli ospiti e del progetto terapeutico-riabilitativo anche individuale.

I pazienti dei G.A. contribuiscono economicamente alla gestione degli stessi; sono a carico del SSN solo i costi della funzione sanitaria.

Tutti gli appartamenti utilizzati sono alloggi di civile abitazione.

Tali alloggi possono essere locati direttamente dall’ASL, dagli utenti o dalle Cooperative che hanno in appalto il progetto.

Coloro che danno in affitto gli appartamenti possono essere enti locali o privati.

I requisiti strutturali e tecnologici sono quelli dell’edilizia residenziale pubblica e /o dell’edilizia convenzionata avendo cura che:

§        ogni paziente possa usufruire di un suo spazio;

§        gli appartamenti siano localizzati ai piani bassi per una facile accessibilità;

§        ogni stanza non abbia più di due posti letto.

§        ogni scala non abbia più di due G.A:

I G.A. rappresentano esclusivamente unità abitative ed i pazienti rimangono in carico al D.S.M. competente per territorio, che è direttamente responsabile del progetto terapeutico/riabilitativo.

La vigilanza sul progetto terapeutico è esercitata direttamente dal DSM.

Vorrei a questo punto presentare più nel dettaglio e a titolo esemplificativo uno dei tre servizi di residenzialità supportata del dipartimento di salute mentale 5b: i gruppi appartamento Collegno.

 

 

 

2.2.1 I Gruppi Appartamento Collegno

 

Il Servizio “Gruppi Appartamento” Collegno attualmente attivo nacque dal passaggio di un gruppo di utenti dalla situazione abitativa delle Comunità residenziali “interne” all’area dell’Ex Ospedale Psichiatrico” a quella rappresentata da alcuni alloggi in un quartiere popolare del territorio di Collegno, assegnati dall’A.T.C. all’A.S.L. 5.

Questi progetti sono stati effettuati durante il  Superamento degli ex O.O.P.P. di Collegno e Grugliasco dall’equipe del Professor Pier Maria Furlan.

Questo trasferimento avvenne intorno al mese di luglio 1999 e venne seguito e sostenuto congiuntamente da operatori dell’A.S.L. e del privato sociale.

Il modello d’intervento proposto era quello psico-riabilitativo: a sostegno della restituzione dei poteri di scelta e di autodeterminazione sottostanti ai processi di empowerment necessari a tale strategia, nasceva un’associazione di utenti che proponeva agli “ex degenti” una nuova identità di “soci”, attraverso la quale poter assumere ruoli e scopi per lo più negati dall’istituzionalità della vita di “reparto”. La gestione degli spazi, la scelta del vitto, le gestione del tempo libero e delle modalità di fruizione di alcuni servizi sociali (banca, posta, negozi, ecc.) erano il terreno in cui venivano sperimentate nuove forme di rapporto con il potere, istituzionale e personale, attraverso la definizione comune degli ambiti di decisione e gestione del conflitto secondo criteri democratico partecipativi.

Gli interventi attuati ebbero, come risultato più evidente, il cambiamento nella gestione quotidiana delle “comunità interne” (così definite perché facenti parte delle strutture abitative un tempo dell’Ospedale Psichiatrico).

Gli “operatori dell’Associazione” coadiuvavano i soci / ex degenti O.P. nella gestione delle attività definite di “riproduzione quotidiana” legate all’alimentazione, alla cura degli spazi abitativi, al lavoro (per lo più in relazione con cooperative sociali di tipo B), ai rapporti con il territorio, alla cosidetta “risocializzazione” sia sul territorio della città che nelle iniziative estemporanee (soggiorni, gite).

Organizzativamente era possibile osservare una chiara suddivisione dei compiti tra “personale ASL” e “operatori dell’associazione”, i primi con approcci di tipo clinico e competenze riferite alle cure igienico-sanitarie, alla gestione delle piccole spese quotidiane, alla somministrazione dei farmaci, alla cura dell’abbigliamento; i secondi si caratterizzavano per il ruolo apparentemente non-istituzionale, l’attenzione agli aspetti di relazione e risocializzazione, il sostegno all’empowerment nella quotidianità dei soci.

A modificare tale quadro venne non già una spinta “interna” da parte degli utenti  - i quali avevano raggiunto un equilibrio oramai consolidato nelle dinamiche organizzative e relazionali nella vita di “Comunità” (vissuta dai più come “casa” in contrapposizione con situazioni abitative alternative sconosciute perché non esperite e/o “rifiutanti”), quanto la realizzazione di un obiettivo istituzionale legato al definitivo superamento dell’ ospedale psichiatrico.

I Gruppi Appartamento Collegno nascevano così, nel luglio del 1999, come una delle destinazioni abitative “extra moenia” delle ultime tappe del trasferimento dell’utenza psichiatrica fuori dei luoghi identificati come dell’Ex Ospedale Psichiatrico di Collegno nell’ambito del definitivo superamento degli ex O.O.P.P. gestito dal Professor Pier Maria Furlan.

Fondamentale in questo processo è stata l’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, con incontri con la popolazione locale, gli amministratori, gli esercenti effettuati dagli operatori . Questo lavoro preliminare è servito a ridurre i pregiudizi della popolazione e eventuali episodi di stigmatizzazione.

Dalla fine del 1999 ad oggi sono avvenute sostanziali modifiche delle modalità d’erogazione del servizio. Innanzitutto la maggior parte dei compiti svolti dagli operatori (infermieri) dell’ASL sono passati ad operatori del privato sociale (Educatori ed Infermieri Professionali).

Inoltre è stata formalizzata l’integrazione tra operatori dall’ASL e della cooperativa anche grazie ad esperienze di formazione e supervisione comune alle due equipe.

Dal 2001 a oggi è stata presa in carico nuova utenza inviata dal CSM di riferimento e  il servizio si è progressivamente ampliato fino a contare allo stato attuale 34 utenti in 12 gruppi appartamento.

 

2.2.2 Gli Utenti

 

I primi utenti avevano come caratteristica comune: sia la disabilità psichica - con frequente compromissione delle abilità sociali dovuta ad internamento in Manicomio per lunghi periodi – sia l’età media elevata con le problematiche associate.

Nonostante l’esperienza pregressa e le valutazioni effettuate circa il possesso di un livello di autonomia sufficiente per dimorare in un G.A., gli operatori erano consapevoli che avrebbero potuto verificarsi degli eventi critici associati al trasferimento ed al cambiamento di residenza/territorio/abitudini.

L'uscire dalle mura ha rappresentato una grande conquista ma ha determinato, per il paziente, una perdita della propria identità e del suo status, perdite sia reali che immaginarie. Si è resa necessaria l'elaborazione di questi lutti che in alcuni casi hanno fatto emergere sentimenti d’inadeguatezza.[2]

Un risultato evidente è rappresentato dal fatto che nessuno dei primi utenti, coinvolti sin da questa prima fase, abbia dovuto ricorrere a cure psichiatriche negli S.P.D.C. o in servizi residenziali più “protetti” nel corso primo biennio e che ancora attualmente il numero di giornate di ricovero  è molto ridotto.

 

 

Citiamo ad esempio l’andamento del numero di giornate di ricovero nell’ultimo biennio in cui il numero di utenti inseriti è stato stabile (34), pur essendoci state dimissioni e nuovi ingressi.

 

PERIODO

GIORNATE DI RICOVERO

GIORNATE COMPLESSIVE

(GIORNI X N° UTENTI)

PERCENTUA-LE GIORNATE DI RICOVERO

1° TRIMESTRE 2004

55

3060

1.79%

2° TRIMESTRE 2004

124

3094

4%

3° TRIMESTRE 2004

108

3094

3.4%

4° TRIMESTRE 2004

22

3094

0.7%

1° TRIMESTRE 2005

66

3060

2.1%

2° TRIMESTRE 2006

31

3094

1.01%

 

 

 

Occorre aggiungere che non è stato possibile scorporare le giornate di ricovero per motivi legati a problemi non strettamente psichiatrici,  per altro significativi data  l’alta età media degli utenti, in questa chiave l’indice assume contorni ancor più positivi.

2.2.3 L’equipe integrata

 

Attraverso una minima ricerca storica si può osservare come il contesto socio-politico Torinese abbia influenzato i gruppi di lavoro che hanno operato in questo polo. “Nel recente passato come controaltare all'istituzione, si inseriscono nuove figure provenienti dal territorio, dal privato sociale, dal volontariato, cittadini che inducono un cambiamento della stessa, alcuni operatori sanitari a loro volta si schierano con il privato sociale e nasce la possibilità per i pazienti di avere un'identità non solo riconosciuta dall'istituzione ma anche dal territorio. Le associazioni fungono da tramite tra l'istituzione e il paziente[3]”.

Al momento della riorganizzazione delle “Comunità interne” con finalità riabilitative gli operatori del privato sociale – pur collaborando con l’istituzione pubblica – assumevano un’identità di “soci” dell’Associazione di auto aiuto che li portava a non infrequenti contrapposizioni con operatori dell’A.S.L. (infermieri, medici) che maggiormente impersonavano l’approccio “istituzionale” oggetto del “superamento”. A volte la contrapposizione dialettica si rivolgeva contro la stessa “cooperativa – madre”, quando si valutava uno scollamento degli agiti di questa dagli interessi precipui dei soci/utenti/pazienti.

Esisteva “de facto” un’attiva collaborazione sulle strategie e gli obiettivi globali degli interventi tra dirigenti, medici ed operatori – a vario titolo – del pubblico e del privato sociale.

La fase successiva, rappresentata dal trasferimento degli utenti dalle “case – Comunità” alle “Case – Appartamento”, evidenziò un’evidente trasformazione di ruoli, funzioni, obiettivi tra un modello precedente definibile di tipo  “associativo” ed uno successivo di “équipe integrata”.

Le differenze non erano solo di definizione: Il modello “associativo” presupponeva un supporto/sostegno fornito ai pazienti/utenti da parte di operatori (non “educatori”) appartenenti ad una cooperativa sociale che interveniva – su mandato dell’ASL – per supportare la nascita e l’operato di associazioni di auto-mutuo aiuto. Tali associazioni si proponevano di sostenere il percorso riabilitativo di ex internati dell’Ospedale Psichiatrico a partire dalla gestione di momenti quotidiani (riproduzione quotidiana) nella gestione delle comunità interne all’Ex O.P..

In questa fase gli operatori del privato sociale operarono congiuntamente ai medici, infermieri, e al personale educativo dell’ASL nel sostenere la creazione dei gruppi di conviventi, l’approccio con il contesto sociale dei quartieri interessati, l’organizzazione dei supporti necessari e l’inizio della convivenza nel nuovo contesto “come se fosse casa propria”.

Questo processo è proseguito fino ad oggi attraverso esperienze di formazione, confronto, supervisione comune alle due equipe portando allo stato attuale in cui pur distinguendo ruoli, responsabilità, istituzioni e conseguentemente culture di appartenenza, si è giunti alla formazione di un’equipe realmente integrata che condivide e continuamente ridefinisce un  progetto terapeutico riabilitativo-comune.

 

2.2.4 Uno sguardo d’insieme

 

Vorrei in conclusione presentare alcuni dati riassuntivi riguardanti I tre servizi Gruppi Appartamento del Dipartimento di Salute Mentale 5B.

G.A./ Alloggi Supportati Grugliasco 22 utenti in 10 appartamenti

Gli utenti sono tutti di razza caucasica, l’età minima è di 26 anni quella massima 75, l’età media e di 45.3 anni. Nei due seguenti grafici la popolazione del servizio viene divisa per provenienza e genere.

 

 

 

 

G.A. Collegno 34 utenti in 12 appartamenti.

Gli utenti sono tutti di razza caucasica, l’età minima è di 31 anni quella massima 82, l’età media e di 55.3 anni. Nei due seguenti grafici la popolazione del servizio viene divisa per provenienza e genere.

 

 

G.A./ Alloggi Supportati Orbassano 12 utenti in un gruppo appartamento che ospita tre di loro e 9 alloggi supportati. Gli utenti sono tutti di razza caucasica, l’età minima è di 21 anni quella massima 47, l’età media e di 32.6 anni. Nei due seguenti grafici la popolazione del servizio viene divisa per provenienza e genere.

 

 

Attraverso tutti questi sforzi nell’ultimo lustro i gruppi appartamento sul territorio del DSM 5b hanno assunto e assurgono una visibilità e una consistenza anche numerica che ha pochi eguali sul territorio nazionale.

 

 

CAPITOLO 3

 

L’APPROCCIO TERAPEUTICO: PER UNA FUNZIONE CURANTE IN PSICHIATRIA

 

“ Mi sembra più fruttuoso considerare le turbe psicotiche come l’espressione di un sistema difensivo particolare, piuttosto che una patologia.., come una modalità di funzionamento psichico originale, una maniera di essere, un tentativo per vivere- anche se all’occorrenza si tratta di vivere fuori di sé…”

M.Sassolas

La psicoterapia delle psicosi è rimasta una via piena di spine. La nostra società attuale è troppo preoccupata di efficienza, produttività, e consumo per potersi permettere di finanziare magnanimamente un lavoro che si rende visibile non con i numeri impressionanti, ma in silenziose trasformazioni dell'interiorità e che non conduce a un rapido successo, ma può diventare addirittura una condivisione della sofferenza."

G.Benedetti

 

 

Il punto di partenza è stato l’ospedale, la comunità per “cronici”:Sassolas propone due alternative per lasciare questi luoghi che permettono al paziente di realizzare i sui desideri di fusione narcisistica: o una costrizione esterna (le leggi, l’imposizione di un progetto) o per effetto di una necessità interiore, poiché non si sopporta più la modalità di funzionamento che la relazione medica psichiatrizzata impone.

La psichiatria classica, interessandosi solo ai sintomi, lascia in realtà che il processo psicotico segua il suo corso; ma il prezzo psicotico non si trova nei sintomi, ma nell’impresa sistematica e insidiosa di spodestamento di sé, di esilio dalla propria vita psichica, di erosione dell’identità, di dissoluzione progressiva verso l’anonimato, l’impersonale, l’atemporale.  

Il terapeuta pensa, in assoluta buona fede, di provare a cambiare il destino psicotico; in realtà il vero motore del suo impegno professionale è il rifiuto del proprio destino irriducibile di essere separato e mortale. Il suo mestiere rappresenta il suo proprio sistema difensivo, così come la psicosi è il sistema difensivo del paziente che la vive, se non c’è consapevolezza di questo, tutto si ridurrà al semplice scontro tra questi due sistemi.

Il motivo per cui i pazienti psicotici “investono” le strutture terapeutiche è perché la relazione simbiotica con un familiare non si è potuta instaurare in maniera sufficientemente stabile ed è per questo che sono alla ricerca di una relazione dello stesso tipo capace di proteggerli dall’angoscia psicotica di viversi separati. Se questa dimensione non viene tenuta in considerazione, il rischio di fallimenti, delusioni o di riprodurre lo stesso meccanismo patogeno è molto alto.

Per rispondere a questa angoscia di separazione emergono due tipi possibili di risposta: una riabilitativa (o come la chiama Sassolas “ortopedica”), l’altra terapeutica. Entrambe sono valide e anzi debbono essere coesistenti per aumentare le possibilità di un intervento efficace, ma non devono essere confuse.

L’approccio socio-riabilitativo  colma questa angoscia permettendo al paziente di investire in un gruppo strutturato, sia esso religioso, politico o culturale. Il lavoro dell’operatore psichiatrico non sta ovviamente nel diventare sostitutivo del corpo sociale, ma nel favorire nel paziente l’integrazione con esso.  Non è sufficiente porsi come obiettivo il miglioramento della qualità della vita o l’aumento delle abilità sociali: il compito primario rimane la cura.

La risposta terapeutica deve tener conto dei desideri fusionali del paziente; di conseguenza la struttura proposta dovrà essere vista si come affidabile e rassicurante; ma per contrastare il suo desiderio simbiotico, dovrà allo stesso tempo essere vissuta come insufficiente, come incapace di rispondere immediatamente a tutti i suoi bisogni. Una struttura che comprende al suo interno ogni risposta, ogni funzione, non fa che  riprodurre le vecchie logiche asilari, diviene  un’istituzione totale. Dice Goffman: “Uno degli assetti fondamentali nella società moderna è che l’uomo tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità… Caratteristica principale delle istituzioni totali può essere appunto ritenuta la rottura delle barriere che abitualmente separano queste tre sfere di vita”

Creare una situazione di cura, che intrinsecamente supplisca ai limiti del paziente, rappresenterebbe quindi l’errore più grave: lo scopo della cura infatti non è questo bensì di condurlo a poco a poco alla capacità di sentire questi limiti, di esprimerli senza essere distrutto dalla rabbia che questo riconoscimento comporta, di non negarli come ha fatto sino ad ora nel suo delirio o nella sua relazione simbiotica.

La struttura di fronte all’impossibilità di rispondere al desiderio fusionale del paziente, dovrà essere solida e accogliere la rabbia e la frustrazione conseguente. Questo verrà favorito dalla situazione di piccolo gruppo presente nella  struttura, che costringerà il paziente  a confrontarsi con soggetti impegnati  in interazioni individuali e non con una collettività in cui parola e significati corrono il rischio di perdersi.

La dimensione temporale è altresì importante: occorre lasciare al paziente il tempo di vivere secondo il proprio ritmo il confronto con un altro modo di funzionamento mentale diverso dal suo, di concedergli tutta la libertà di oscillare più o meno frequentemente tra un funzionamento delirante proiettivo o autistico ed un altro più vicino al nostro. Sassolas dice: “ Non mi sembra affatto possibile valutare l’efficacia della presa in carico di un paziente psicotico prima di tre o quattro anni” .

Sembra quindi necessario che il processo psicoterapeutico non venga accomunato ai risultati spesso “folgoranti” della medicina somatica per evitare che le risposte siano altrettanto veloci quanto, in questo campo,  inefficaci.

 

 

3.1 QUALE PERCORSO TERAPEUTICO POSSIBILE ?

 

Un percorso è definito come lo spazio da percorrere per andare da un luogo all’altro. Per i pazienti può ridursi semplicemente a questo, il passaggio dall’ospedale, alla comunità, al gruppo appartamento. Sembra più importante concentrarci su un percorso che sottolinei il passaggio da un momento all’altro, da quello del primo incontro a quello della separazione. Questi due margini riassumono l’intera problematica psicotica poiché presuppongono:

·        che esistano effettivamente due esseri umani distinti e separati;

·        che ognuno di questi sia capace di riconoscere l’esistenza dell’altro e di entrare in relazione con lui;

·        che essi abbiano la capacità di accettare e sopportare che questa relazione finisca;

Si tratta quindi di far vivere al paziente una triplice prova: esistere, incontrare l’altro, separarsi da lui. Progetto che prende in contropiede il sistema difensivo psicotico, nel quale l’Io non esiste, l’altro neanche, ed entrambi sono inseparabili perché confusi.

Proporre quindi un tale progetto a colui che vive su questo registro rappresenta una difficile scommessa.

Questo progetto, inoltre, presuppone che proprio attraverso l’integrazione e l’elaborazione dei propri sentimenti reciproci i due soggetti possano dimostrare di esistere veramente, ciascuno distinto, separato, ognuno proprietario dei propri sentimenti, ognuno depositario della propria storia.

 

Le condizioni che Sassolas individua come necessarie per poter affrontare questa impresa sono:

·        non essere l’unico interlocutore del paziente;

·        disporre di alcuni riferimenti teorici che consentano di non sentirsi totalmente smarriti, di sopravvivere mentalmente, di poter continuare a pensare;

 

In questa maniera viene a delinearsi un quadro terapeutico che tiene conto che i pazienti hanno una relazione molto particolare con il reale.

Il reale per loro non è mai neutro: anzi nella sua inerzia, nella sua assoluta eterogeneità rispetto ai nostri paramentri il reale per questi pazienti non esiste.

Nel caso di pazienti nevrotici, il quadro terapeutico ed il protocollo nella loro stabilità, creano tra il terapeuta ed il paziente un contratto tacito che funziona come un terzo simbolico: é proprio questo terzo simbolico incarnato dall’immutabilità del protocollo che protegge ciascuno dei due protagonisti dall’arbitrio dell’altro.

Ma il funzionamento psicotico non si accontenta di riempire il reale di affetti proiettati fuori dal soggetto, ma ha anche la caratteristica di rifiutare ogni rappresentazione simbolica, nella misura in cui ogni simbolo è sempre l’equivalente di un’assenza: il suo significato è altrove.

Accettare che un simbolo esista e rappresenti qualche cosa significa accettare allo stesso tempo che ciò che rappresenta sia assente, ma è proprio l’assenza, la separazione che sono inaccettabili, inconcepibili per colui che funziona su un registro psicotico.

Ed è per questo che per tali pazienti il quadro ed il protocollo psicoterapeutico sono svuotati da quel valore simbolico di terzi che prima si è richiamato.

Da qui la necessità per il paziente e per il terapeuta che questo terzo simbolico sia incarnato in un terzo reale.

A questo punto ci viene in soccorso la nozione di équipe, intesa come insieme di persone legate le une alle altre da un progetto comune e da una rete di comunicazioni intellettive ed affettive. Ed è proprio l’équipe così intesa che incarna questo terzo reale.

In effetti, l’altro interlocutore che il paziente trova in questa équipe non viene solo a supplire con la sua presenza la carenza del terzo simbolico, ma costituisce anche, attraverso la realtà delle sue relazioni con lo psicoterapeuta, una smentita permanente nei fantasmi di esclusività fusionale del paziente, smentita dolorosa ma salutare.

Ognuno di noi, nel corso del tempo, ha improvvisato un aggiustamento temporale che lo aiuta a vivere.

Questo puzzle di ogni vita, questo complesso di investimenti multipli di persone, di luoghi, di attività, funziona come una rete invisibile, ma protettiva.

Lo psicotico che torna tra di noi deve abbandonarsi all’acrobazia di vivere senza il soccorso di questa rete, perché per lui il complesso di tali investimenti si è drammaticamente ritirato, in quanto nulla impoverisce e isola più della psicosi.

E’ allora che il terapeuta misura la necessità vitale che esista, per questo paziente, a fianco della relazione psicoterapeutica, una rete vivente fatta di curanti, altri pazienti, altre persone ancora che non sono ne terapeuti ne pazienti, che esista una struttura di accoglienza, un luogo per vivere suscettibile di essere investito da lui e capace di investirlo.

E’ una necessità vitale poiché, quando tali possibilità non esistono, il paziente corre il rischio di non poter gestire l’acrobazia di vivere senza rete, e quindi rischia di evadere definitivamente dalla propria vita nel delirio o nella morte.

Un altro concetto fondamentale del pensiero di Sassolas si riferisce al ruolo curante.

Esistere psichicamente in presenza del paziente è l’unica strada possibile affinchè possa emergere una potenzialità terapeutica in tali situazioni; altrimenti esse sprofondano disperatamente nell’occupazionale e nella ripetizione.

E’ soltanto accettando che i nostri pensieri, i nostri sentimenti, diventino l’oggetto dell’investimento dei pazienti che abbiamo qualche possibilità di vederli, prima o dopo, spostare questo interesse verso la propria attività mentale.

Due eccessi incombono senza tregua sui curanti in tali situazioni: il primo è un eccesso di discrezione che li conduce a non far trasparire niente del loro vissuto per rintanarsi nell’esercizio puramente funzionale del loro ruolo di medico, di educatore e di infermiere; la potenzialità terapeutica della situazione rischia allora di fallire, poiché, come già detto, in assenza di comunicazione con la vita psichica del curante, il paziente ha poche possibilità di entrare in comunicazione con la propria vita psichica.

Il secondo è una mancanza di discrezione, un eccesso di esibizionismo psichico del curante: non perdiamo di vista che la vita psichica, che il paziente psicotico “teme come la peste”, è allo stesso tempo vissuta da lui come un bene prezioso al quale non ha accesso.

Ostentare senza pudore la nostra facilità ed il nostro piacere di pensare, di provare, di immaginare può ravvivare in lui reazioni di invidia contro le quali avrà necessità di difendersi, sia attraverso la svalutazione, sia attraverso l’idealizzazione, i cui effetti verranno a complicare inestricabilmente la relazione di cura.

Solo un lavoro regolare di riflessione dei curanti sul loro atteggiamento, in équipe o con l’aiuto di un intervento esterno, può permettere loro di correggere questi eventuali eccessi.

Occorre inoltre sottolineare l’importanza degli stimoli esterni sorti dalla relazione di cura.

I pazienti psicotici fanno molta fatica ad alimentare l’incontro con noi attraverso l’evocazione della loro realtà attuale, poiché, per proteggersi dall’impatto psichico di questa realtà, hanno bisogno o di annullare la sua stessa esistenza o di “triturare” nel meccanismo psicotico gli stimoli psichici derivati da questa realtà: negati, allontanati o espulsi, di essi non resta che un vissuto di vuoto, nel quale galleggiano affetti e pensieri incomprensibili, inspiegabili e incongrui.

L’esperienza insegna velocemente che, più un paziente psicotico è stato stimolato psichicamente da un avvenimento, più questo viene espulso dalla situazione di cura ed il suo ego psichico viene banalizzato, falsificato e distrutto.

Tocca quindi ai curanti reintrodurre nella struttura di cura gli stimoli psichici esterni espulsi dal processo difensivo psicotico.

Per far ciò è necessario far emergere il quadro di cura nella realtà: gli stimoli psichici nati da questa nuova realtà diverranno quindi il materiale sul quale il lavoro psicoterapeutico potrà esercitarsi. All’interno di queste strutture definite, i curanti hanno un ruolo particolare: sono la cerniera tra la realtà esterna, nella quale sono nello stesso tempo attori e testimoni, e la realtà interna del paziente, sulla quale è centrato il loro interesse.

L’obiettivo è quindi di aiutare il paziente a vivere ciò che l’incontro con questa nuova realtà scatena in lui in termini di pensieri, di emozioni, di fantasmi: l’attenzione verso gli avvenimenti psichici vissuti dal paziente può essere pertinente solo se essa si fonda su un’eguale attenzione agli avvenimenti reali che vengono messi in moto.

Non si tratta soltanto di aiutarlo a vivere la realtà, attraverso interventi diretti nelle vicende della sua vita, ma di affrontare con lui gli avvenimenti della sua vita psichica suscitati dagli avvenimenti reali di cui siamo testimoni o attori.

La realtà esterna diventa, quindi, il cammino obbligato attraverso il quale passare per raggiungere la realtà interna del paziente.

Un altro concetto che Sassolas mette in evidenzia nell’approccio alla cura del paziente psicotico è quello di “deficit”; una definizione che sottolinea una assenza ma non una inesistenza.

L’autore sottolinea che nel funzionamento mentale dello psicotico molti “pezzi” mancano: i pensieri sono poveri, gli affetti spenti, gli investimenti rari, ma questo non esclude la loro capacità né di pensare né di provare sentimenti né di investire.

Il deficit del paziente viene definito come raramente stabile e permanente: piuttosto che farne un bilancio, è quindi più utile individuarne le fluttuazioni in funzione di ciò che il paziente vive.

Se la psichiatria prende per oro colato l’autosqualificazione del paziente psicotico attraverso la generosità e la globalità della sua presa in carico terapeutica, non fa altro che aggravarne il deficit narcisistico in un movimento riparatorio identico a quello dei suoi genitori quando dicono: “Abbiamo fatto tutto per lui”.

Finche qualcuno farà tutto per lui, il paziente psicotico sempre più indebitato narcisisticamente con i curanti, non potrà né migliorare la propria autostima né integrare le proprie pulsioni distruttive che sono il vero motore dei suoi comportamenti di autosqualificazione.

E’ quindi l’organizzazione stessa del sistema di cura che può limitare o aggravare i danni sociali di questi sintomi: così l’integrazione in un gruppo è l’occasione per il paziente di stabilire dei legami interumani e di integrarsi a poco a poco in una nuova rete sociale.

Il compito prioritario dei curanti diventa quindi quello di smentire permanentemente i fantasmi di pericolosità della vita psichica del paziente, attraverso il mantenimento della relazione con esso e la persistenza dell’interesse per la sua vita psichica, per i suoi pensieri e per le sue emozioni.

Nel percorso istituzionale con questi pazienti è fondamentale sottolineare che tutti i protagonisti del sistema di cura hanno una funzione psicoterapeutica da svolgere, mettendo la propria capacità di pensare al servizio del progetto terapeutico, cosa che suppone evidentemente che quest’ultimo sia loro familiare a prescindere dal ruolo che svolgono nel sistema.

Per far ciò è necessario che i protagonisti del sistema di cura si sentano in diritto di pensare a ciò che succede tra il paziente e se stessi quando si incontrano e che quindi tutti i protagonisti di questo sistema conoscano non solo le modalità ma anche le finalità del progetto di cura.

 

 

3.2 COSTRUIRE IL SISTEMA DI CURA

 

Curare uno psicotico, dice Sassolas, significa creare per lui un contesto nel quale abbia la possibilità di vivere con gli altri relazioni significative vale a dire relazioni affettivamente investite che possano favorire un’evoluzione psichica fino a quel momento paralizzata dai processi di difesa psicotici.

E’ un progetto che per quanto difficile, non deve essere percepito né come eroico né fuori dalla realtà, a condizione di dotarsi dei mezzi per portarlo a termine.

Rinunciare ad una simile prospettiva e accontentarsi di aiutare i pazienti a vivere la loro psicosi, significa abbandonare questi alla loro disperazione o alla rassegnazione e gli operatori al frustrante vissuto di essere inutili.

Prendere in carico, in una prospettiva simile, un paziente che soffre di disturbi psicotici, significa assumere il rischio di vederlo istallarsi per lungo tempo non solo nel nostro sistema di cura, ma anche nella nostra vita psichica.

Curare uno psicotico significa quindi, prima di tutto, resistere, ovvero continuare a preoccuparci di lui, del suo corpo, del suo vissuto affettivo, del suo divenire sociale.

Continuare a pensare a lui come a una persona vivente con un posto ed un avvenire futuro.

La nostra esistenza ed il nostro posto nella sua vita lo confrontano, in effetti senza sosta, ad una duplice realtà di cui non riesce a conciliare le esigenze, quella del mondo esterno di cui facciamo parte e che non smette di resistere duramente all’onnipotenza dei suoi desideri e dei suoi fantasmi, e quella della sua vita psichica di cui ha bisogno di neutralizzare la violenza con la negazione, la proiezione o l’annullamento.

Il nostro lavoro consiste non solo nel ricordargli senza sosta e non solo a parole che queste due realtà esistono, ma di aiutarlo a vivere la loro coesistenza, senza negare l’una e senza distruggere l’altra.

Il sistema di cura deve porsi quindi come cerniera tra queste due realtà, l’esterna e la psichica, senza che nessuna delle due venga negata, in quanto se la preoccupazione del sistema di cura è focalizzata solo alla realtà esterna, rischia di aver esclusiva funzione di riadattamento sociale.

 Questo approccio rischia di essere velocemente deludente, nella misura in cui i meccanismi mentali, che alterano la relazione del paziente con la realtà, scalzano questa nuova realtà costruita per lui, scambiando la conseguenza con la causa, tentando di porre rimedio alla miseria sociale e relazionale del paziente, escludendo però i meccanismi psichici che non cessano di generarla.

 D’altra parte negare la realtà esterna rappresenta un altro modo di cadere nei trabocchetti dei processi psicotici.

In questa maniera la situazione psicoterapeutica diventa un fine in sé, una relazione chiusa nella quale il paziente si guarda bene dal lasciar penetrare la minima eco significativa delle sue difficoltà esterne, anche se queste assumono un’intensità drammatica per lui o per i suoi prossimi.

Occorre così insistere sul valore terapeutico dell’attenzione rivolta dai curanti alla vita quotidiana del paziente per diverse ragioni:

·        comportamenti di autosvalutazione e di autoabbandono, che possono mettere in pericolo, in maniera definitiva, non solo il lavoro terapeutico, ma anche tutta la sua evoluzione personale e sociale. Questi processi sono in atto quotidianamente: non basta identificarli e metterli in relazione ai singoli avvenimenti della relazione che il  paziente ha con noi o con altre persone significative del suo ambiente; bisogna anche aiutarlo a limitarne o eliminarne le conseguenze.

·        comportamenti che sono nocivi per le persone che gli sono vicine, perché fanno loro provare, al posto dei pazienti, emozioni arcaiche come la rabbia, con intensità tale per cui è difficile sopportarle a lungo senza subire danni e quindi senza reazioni di rigetto. E’ prudente tener conto, nell’elaborazione di una strategia di cura, di questi disturbi prodotti dalla psicosi nella vita quotidiana, molto diversi da quelli spettacolari degli scompensi psicotici.

A questo punto occorre delineare quali possono essere le strategie del sistema di cura perché esso sia efficace.

Sassolas propone tra gli altri i seguenti spunti:

 

1.     Un utilizzo del reale come mezzo di comunicazione privilegiato con gli altri, una sorta di linguaggio agito, che completa o sostituisce il linguaggio parlato.

I disturbi della simbolizzazione, che caratterizzano il loro funzionamento mentale, fanno sì che per i pazienti la cosa rappresentata e ciò che la rappresenta siano equivalenti: quindi questa rappresentazione diviene altrettanto pericolosa o eccitante della cosa stessa.

Questa maniera che hanno i pazienti psicotici di cortocircuitare la tappa della rappresentazione per parlare spesso con gli atti, li conduce ad attribuire un valore maggiore ai nostri messaggi agiti rispetto a quelli parlati.

Le testimonianze del nostro interesse per la loro vita mentale devono quindi adottare il veicolo della realtà se vogliamo che siano comprensibili a loro.

Si utilizzano così quelli che Racamier chiama “atti parlanti”: dare la chiave della casa al paziente senza averla anche noi, suonare e aspettare alla porta che qualcuno venga ad aprire sono esempi di atti parlanti che esprimono con un efficacia estremamente maggiore del linguaggio parlato la convinzione dei curanti che il paziente è proprio a casa sua e prova, allo stesso tempo, la preoccupazione di rispettare il suo territorio privato.

 

2.     Riconciliare il paziente con le proprie emozioni riconoscendo l’esistenza e la validità di quelle che appaiono nella relazione curante.

Quando l’espressione di queste emozioni diviene possibile, queste hanno meno bisogno di essere scaricate nell’azione, negate, proiettate o mascherate nel delirio. Il funzionamento psicotico viene allora ammorbidito. Per fare ciò, ci troviamo nella necessità costante di non perdere di vista né gli avvenimenti della vita psichica del soggetto né quelli della sua vita quotidiana né i legami esistenti tra gli uni e gli altri, anche se i processi psicotici falsificano la natura di questi legami dando loro il falso volto dell’incoerenza, del non senso, della confusione o dell’indifferenza.

Harold Searles (1994) ci fa notare che i pazienti psicotici fanno spesso ricorso alle manifestazioni più intense della follia quali il delirio, il ripiegamento autistico, il suicidio solo per non provare le emozioni elementari della vita come la tristezza, la delusione, il desiderio, la collera e la gioia.

Si comprende quindi che questo apparentemente semplice obbiettivo, condurre il paziente a vivere emozioni come tutti noi, possa in realtà scatenare in lui molte resistenze.

 

3.     Trovare la giusta distanza istituzionale: occorre che i curanti siano in relazione con il paziente nella quotidianità della sua casa, senza però alterarne la natura privata.

Il funzionamento istituzionale di un luogo del genere non può che essere il compromesso tra queste due esigenze contraddittorie: gli operatori devono essere sufficientemente distanti, perché i pazienti si sentano veramente a casa propria, ma devono essere abbastanza vicini, per avere la possibilità di esercitare in questo luogo le loro capacità di cura.

In particolare nei gruppi appartamento, chi vi risiede è a casa propria anche se è ospite dell’ istituzione curante e tocca a lui occuparsi di sé malgrado la presenza degli operatori.

Inoltre la materialità della casa, il numero ridotto dei residenti, l’esistenza carica di simboli degli operatori costituiscono gli ingredienti di una situazione di tipo familiare, che mobilita affettivamente, in maniera intensa, tutti coloro che la vivono.

In ogni modo, il funzionamento di un tale luogo è difficile perché si  tratta di far convivere persone per le quali  il contatto con gli altri è lungi dall’essere naturale, in una situazione di relativa autonomia, quando esse funzionano per lo più sul registro della dipendenza e della simbiosi, e con un progetto di evoluzione psichica, quando hanno una vera e propria fobia del cambiamento.

Uno dei pericoli in cui si incorre più frequentemente in questa situazione è l’attivismo degli operatori, che risulta essere estremamente nocivo per i pazienti, poiché li priva della possibilità di sperimentarsi come soggetti della propria vita, di provare delusione, tristezza, ma anche di provare la soddisfazione narcisistica fondamentale di aver potuto vivere questi elementi costitutivi della condizione umana.

E’ sicuramente utile essere preoccupati del benessere fisico e psichico dei pazienti e dimostrarglielo, mentre è estremamente dannoso come detto, sostituirsi a loro nella vita quotidiana per evitare che provino queste preoccupazioni.

 

4.     Affermare la finalità curante della struttura. Non smettere mai di affermare la finalità curante nei confronti dei pazienti è essenziale anche se questa affermazione si scontra frontalmente i vissuti di onnipotenza di alcuni di loro e rischia di essere fonte di conflitto.

Affermare questa finalità di cura significa inoltre inserire il soggiorno del paziente sia nel tempo che in una prospettiva di cambiamento.

L’inserimento del soggiorno nel tempo non si traduce per Sassolas con la definizione di un contratto o con la limitazione a priori della durata del soggiorno, accorgimenti definiti dallo stesso autore un controsenso e un  errore tecnico.

Controsenso, perché come potrebbe uno psicotico “investire” un luogo e delle persone se questo processo è nel segno della precarietà?

L’investimento iniziale di questi pazienti è sicuramente su un registro simbiotico, narcisistico: l’altro o il luogo non hanno per lungo tempo altro status che quello di un prolungamento del sé.

Quando esso si stabilisce in una struttura, per forza di cose, nella sua mente questo vale per l’eternità, operando una negazione completa del contratto e dei suoi limiti, anche se in apparenza li ha accettati.

Quando la scadenza arriverà, essa sarà vissuta come una cattiveria gratuita, un rifiuto, un abbandono.

Si tratta anche di un errore tecnico perché la letteratura e l’esperienza dei terapeuti di pazienti psicotici concorda nell’affermare la necessità di una presa in carico lunga, 4-5 anni prima di vedere un possibile miglioramento.

Occorre quindi “prendersi il tempo necessario”, senza per altro negare il suo scorrere, così come fanno i pazienti, che lo vivono come immobile per evitare le immagini di separazione e di morte associate al passare del tempo.

Sta quindi ai curanti ricordare con segnali concreti, presenti nel sistema istituzionale (riunioni settimanali del gruppo appartamento, incontri trimestrali con il medico responsabile, ecc.) e con le parole, che i pazienti non staranno con loro in eterno e che il tempo non smette mai di scorrere.

 Per situare il soggiorno in una prospettiva di cambiamento occorre ricordare al paziente quali sono gli obiettivi dello stesso:

·        permettere a chi vi abita di vivere al di fuori della famiglia e di un istituzione più costrittiva (ospedale, comunità protetta, casa di cura);

·        aiutare chi vi abita ad evolvere psichicamente.

Per fare questo, occorre mostrare costantemente al paziente, non solo con le parole, ma anche con le azioni, che si è coscienti della loro difficoltà di abitare quel luogo e quale importante valore abbia il fatto di riuscirvi.

Il valore narcisistico che ognuno degli attori trae da questo è un elemento essenziale per il restauro della stima di sé compromessa dalla patologia.

Sentirsi inutile, e in  particolare, incapaci di aiutarsi da soli, induce un sentimento di svalutazione che contribuisce al vissuto depressivo di molti pazienti.

Attraverso la condivisione di queste difficoltà e la capacità di superarle l’intero gruppo aumenta la propria coesione interna e ognuno dei membri aumenta la propria stima di sé.

 

5.     Non lasciare la violenza agita o parlata senza risposta: il mantenimento di un clima di sicurezza in una residenza è indispensabile.

Anche in questo caso è la comparsa di una procedura eccezionale che deve essere il segno tangibile di questa risposta, e non solo un intervento verbale perduto nella routine del funzionamento abituale.

Un incontro immediato con il paziente e lo svolgimento di una riunione  che coinvolga tutto il gruppo, sia dei pazienti che dei curanti, sottolineano l’importanza che si attribuisce a ciò che mette in discussione il clima di sicurezza della struttura. 

 

6.     Creare un sistema di cura discontinuo: in opposizione alla presa in carico proposta in ambiente ospedaliero (o comunque più protetto), la cura in gruppo appartamento presenta delle discontinuità, delle fratture, delle assenze nella relazione del paziente con l’istituzione.

L’investimento da parte del paziente, dice ancora Sassolas, di una simile struttura di cura, lo confronta inevitabilmente con questi buchi nella realtà della sua relazione con i curanti, buchi che lo rinviano ad altre assenze, reali o immaginarie, che hanno segnato la sua vita affettiva.

 E così, proprio attraverso questa discontinuità, viene  sottolineata la funzione psicoterapeutica della relazione tra paziente e curante; cosa che non avviene certo senza dolori e conflitti, ma proprio la verbalizzazione di questi ultimi può condurre alla mentalizzazione dei primi.

Queste discontinuità nelle cure hanno inoltre un altro vantaggio: distinguere nettamente nella vita del paziente i momenti di trattamento dal resto della sua vita, evitando di ridurlo all’identità di malato, cercando di salvaguardare i suoi investimenti anteriori (relazionali, professionali, sociali) e favorirne di nuovi, in particolare attraverso il gruppo.

Oltre a ciò, questo tipo di approccio limita i rischi di investimento esclusivo del trattamento e di dipendenza nei confronti dei curanti.

 

3.3 PRECURSORI, TRAPPOLE E OSPEDALI

 

Possiamo individuare alcune figure che hanno sicuramente ispirato il lavoro di Sassolas: Paul Claude  Racamier, suo precursore in Francia, il primo a proporre a pazienti psichiatrici gravi un luogo di vita strutturato in una prospettiva terapeutica e Ronald Laing in Inghilterra con la fondazione della Kinsley Hall, luogo emblematico della psichiatria extramanicomiale.

Costoro definiti “antipsichiatri”, sono stati i primi ad aver assunto il rischio di investire sulle capacità di pazienti psicotici molto gravi, di gestire la loro vita relazionale e sociale, di partecipare attivamente al loro trattamento, purché venisse loro proposto un ambiente di vita adeguato di cui potessero essere i “coautori” insieme agli operatori psichiatrici.

L’impatto terapeutico essenziale di queste strutture può essere sintetizzato in una scommessa di questo tipo: riconoscere da parte dei curanti, non solo a parole, ma anche nel funzionamento quotidiano concreto, la capacità del paziente di venirsi in aiuto da solo; approccio che può essere traslato anche a strutture come i gruppi appartamento.

Come già accennato in precedenza, non esiste nulla di più disperante per un essere umano, di più peggiorativo per la sua autostima, che scoprirsi incapace di aiutarsi da solo, che essere spettatore passivo della propria incapacità e della sollecitudine altrui.

 Un altro autore che vale sicuramente la pena citare é Bruno Bettelheim che nell’opera  “La fortezza vuota” evidenzia come contesti di vita e di cura specifici possono permettere al funzionamento mentale psicotico di attenuarsi, di divenire meno invalidante e doloroso.

 Le suggestioni che questi autori hanno lasciato e che Sassolas riprende nella sua proposta possono essere così riassunte:

·        il paziente psicotico non è solo un malato, ma esistono in lui delle competenze;

·        il contesto terapeutico nel quale vive e si cura può inibire o favorire l’utilizzo di queste competenze;

·        il funzionamento mentale psicotico non è bloccato per sempre, ma è suscettibile di attenuarsi in funzione dell’impatto psichico della relazione del paziente con i curanti nel contesto terapeutico

Come già detto, riconoscere nel paziente queste competenze e queste possibilità di evoluzione non significa negare la patologia, trappola in cui è fin troppo facile cadere colludendo con le negazioni tipiche di questa patologia, e che finisce per ridurre il soggiorno del paziente stesso alla semplice dimensione di alloggio.

Solo ricordando costantemente la funzione terapeutica  della struttura, accogliendo e provando a rielaborare quegli elementi della vita istituzionale che sono fonte di angoscia e assumendosi quindi  il rischio di un potenziale scontro con il paziente, è possibile per gli operatori assumere una funzione realmente curante.

Un’altra negazione da cui occorre salvaguardarsi è quella del ruolo dell’ospedale, in Italia diremmo SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) piuttosto che Centro Crisi.

Queste strutture assolvono per Sassolas una funzione insostituibile: è proprio la possibilità di fare ricorso a strutture altre che consente un lavoro con pazienti psicotici gravi.

Come già detto il funzionamento mentale psicotico non viene soddisfatto dai simboli, ha bisogno di appoggiarsi sul loro equivalente reale; per cui in situazioni di crisi, è possibile che si attivino violenti bisogni regressivi di gratificazione ed è necessario che, per un certo tempo, le sue emozioni, la cui intensità supera le capacità di controllo, vengano contenute in un luogo rassicurante.

Una struttura di ricovero può essere il luogo ideale di accoglienza e di cura in questi momenti.

I gruppi appartamento come le  altre strutture terapeutiche intermedie, hanno bisogno della presenza complementare di luoghi di ospedalizzazione che possano essere concepiti con lo stesso spirito.

 Se l’ospedale dovesse diventare esclusivamente il luogo del trattamento biologico degli accessi psicotici acuti e le istituzioni extraospedaliere il luogo del trattamento sociale dei disturbi psicotici cronici, i pazienti non avrebbero molto da attendersi dalla psichiatria.

Sembrerebbe più razionale concepire l’approccio psicoterapeutico alla patologia psicotica come un percorso coerente, che articola in una prospettiva realmente trasformativa luoghi di vita terapeutici e luoghi ospedalieri.

In questa prospettiva l’ospedale assume il ruolo di terreno neutro, di terzo,  che, oltre alle ragioni precedentemente citate, serve a preservare il paziente e i curanti dal pericolo della fusionalità e, a lungo andare, dalla cronicità. Evitando, come ci ricorda Goffman, di divenire per quanto moderni e per quanto a contatto con il territorio, nuovamente istituzione totale.

Abbiamo quindi visto come Sassolas ci fa reincontrare figure centrali del movimento del superamento degli ospedali psichiatrici, quali Ronald Laing, Franco Basaglia, Paul Claude Racamier, David Cooper, e come contemporaneamente ci faccia riflettere sul pensiero di Bion, Klein, Segal, Bettelhheim, Searles, Rosenfeld, Kohut, Winnicot, Benedetti, e soprattutto ci permetta di incontrare i pazienti affetti da psicosi non attraverso la nosografia, la classificazione dei loro disturbi, ma l’avvicinamento alle loro storie, ai loro percorsi di cura, al loro incontro con un sistema terapeutico.

Sassolas ci accompagna nello sviluppo e nell’elaborazione continua di un pensiero che ha come obiettivo la ricerca del cambiamento psichico del paziente, quindi al rifiuto della cronicizzazione e che è consapevole del bisogno del paziente di essere sostenuto nella sua dimensione sociale. Anche per lui, come per Benedetto Saraceno, la funzione curante in psichiatria è contrapposta alla pratica dell’intrattenimento del paziente, alla collusione con i suoi sistemi difensivi, che lo bloccano in una condizione di dipendenza e di esclusione.

Solo tenendo conto di questi parametri mi sembra possibile proporre, per una struttura di cura quali i gruppi appartamento, delle linee guida che permettano di facilitare la loro funzione curante.

 

 

CAPITOLO 4

 

PROPOSTA DI LINEE GUIDA NEI GRUPPI APPARTAMENTO IN PSICHIATRIA

 

 

CARATTERISTICHE DELL’INTERVENTO

 

Il G.A. è un contesto gruppale in cui persone diverse condividono spazi, tempi, bisogni, decisioni.

L’adozione di modalità di intervento storicamente “nuove”, insieme alle trasformazioni dei contesti socio-economici, ha fatto emergere nuove richieste da parte degli stessi attori in tali processi.

Medici Psichiatri, Associazioni per la salute mentale, gli stessi “Clienti” hanno posto le basi per i cambiamenti oggi in atto nella progettazione e nella direzione dei Servizi di Salute Mentale.

Esperienze messe in atto  in ambito internazionale - con l’intento di non riprodurre le dinamiche istituzionali caratteristiche delle strutture tradizionali - confermano l’opportunità delle scelte volte a dare sostegno riabilitativo e/o cura a portatori di disagio psichico secondo modelli “domiciliari”.

 

 

REQUISITI STRUTTURALI DEL GRUPPO APPARTAMENTO

GRUPPO APPARTAMENTO COME LUOGO E STRUMENTO

 

Seguendo i riferimenti teorici esplicitati nei capitoli precedenti il Gruppo Appartamento può quindi definirsi sia come luogo che  come  strumento.

In quanto luogo rappresenta prioritariamente due dimensioni: quella di “Casa” e quella di luogo di cura.

Queste due dimensioni risultano essere potenzialmente in contraddizione tra loro. La dimensione strettamente privata e quella di gruppo devono necessariamente essere separatee da un insieme di norme.

Regole che devono servire ad organizzare tempo, spazio, relazioni in maniera coerente agli obiettivi della struttura.

Gli obiettivi più generali di Cura e Riabilitazione, nello specifico del Gruppo Appartamento si esplicano quindi nel:

·        Consentire alle persone che vi abitano di vivere insieme

·        Consentire alle persone che vi abitano di vivere insieme dando alla loro permanenza un senso terapeutico-riabilitativo che permetta loro di evolvere psichicamente.

·        Consentire alle persone che vi abitano di vivere al di fuori della famiglia e di un’istituzione più costrittiva.

 

Altri obiettivi non secondari riguardano:

·        L’integrazione del paziente nel tessuto sociale.

·        Il miglioramento della qualità della vita del paziente.

 

Il gruppo appartamento è quindi anche e forse primariamente strumento per il raggiungimento degli obiettivi espressi.

In quanto strumento deve aiutare il paziente non solo a vivere la realtà, ma ad affrontare gli avvenimenti della sua vita psichica suscitati dagli avvenimenti reali.

Il configurarsi del Gruppo Appartamento e le sue funzioni possono essere riassunte quindi nel seguente schema:

 

 

 

CLIENTI

 

Soggetti di questa convivenza sono pazienti sofferenti di patologie psichiche, seguiti a vario titolo dai servizi di salute mentale.

Questo tipo di residenza si configura come prioritariamente indicato per pazienti affetti da patologie psichiche sul versante psicotico; questo per diversi motivi:

·        La dimensione di piccolo gruppo che costringe il paziente a confrontarsi con soggetti impegnati in interazioni individuali e non in una collettività in cui parola e significati corrono il rischio di perdersi.

·        In quanto struttura intermedia può porsi come sufficientemente solida e accogliere in questo modo le angosce e le frustrazioni del paziente, ma non troppo rigida evitando potenzialmente i rischi di cronicizzazione.

·        Il gruppo appartamento e l’équipe curante si configurano come terzo reale, sostituiscono e incarnano quello che nel protocollo psicoterapeutico classico viene definito terzo simbolico vale a dire l’insieme del quadro terapeutico e la stabilità di tempi, di luoghi e di procedure dello stesso. Questa sostituzione è necessaria poiché per lo psicotico il valore simbolico di terzo è svuotato di significato.

 

SPAZIO

Il gruppo appartamento si deve configurare come luogo di civile abitazione; per favorire gli obiettivi di integrazione sociale ed autonomizzazione è fondamentale che sia situato in un luogo non isolato e da cui i servizi di base siano facilmente raggiungibili.

Il gruppo appartamento deve tenere conto dei desideri fusionali del paziente e per tanto proporsi come struttura affidabile e rassicurante ma allo stesso tempo essere vissuta dallo stesso come insufficiente.

Come già esplicitato in precedenza il Gruppo Appartamento si configura come luogo duplice: casa e luogo di cura.

Di conseguenza è assolutamente necessario che sia al paziente che all’equipe curante sia chiara la distinzione all’interno della struttura tra spazi privati e spazi comuni.

 

 

TEMPO

 

L’inserimento in gruppo appartamento nel tempo non si traduce con la definizione di un contratto o con la limitazione a priori della sua durata. Questo perché l’investimento iniziale dei pazienti avviene su un registro simbiotico: l’altro o il luogo non hanno per lungo tempo altro status che un prolungamento del sé. Quando il paziente  si stabilisce nel gruppo appartamento, nella sua mente questo vale per l’eternità operando una negazione completa del contratto e dei suoi limiti anche se in apparenza li ha accettati.

Inoltre la letteratura e l’esperienza dei terapeuti di pazienti psicotici concordano ad affermare la necessità di una presa in carico lunga di almeno quattro o cinque anni. Occorre quindi prendersi “il tempo necessario”, senza peraltro negare il suo scorrere così come fanno i pazienti che lo vivono come immobile. Sta quindi ai curanti ricordare lo scorrere del tempo con segnali concreti presenti nel sistema istituzionale, eventualmente anche ritualizzati per mezzo di :

·        Riunioni settimanali dei pazienti del gruppo appartamento.

·        Incontri trimestrali con il medico responsabile.

·        Verbalizzazione del fatto che i pazienti non staranno in eterno nel gruppo appartamento e che il tempo non smette mai di scorrere.

 

   Anche nella dimensione del quotidiano il gruppo appartamento deve presentare delle discontinuità, delle fratture temporali, delle assenze. Questi buchi nella realtà della relazione del paziente con i curanti rinviano ad altre assenze reali o immaginarie che hanno segnato la sua vita affettiva. E così, proprio attraverso questa discontinuità, viene sottolineata la funzione terapeutica della relazione tra terapeuta e curante. Inoltre queste discontinuità nelle cure hanno il vantaggio di distinguere nettamente nella quotidianità del paziente momenti di trattamento dal resto della sua vita, evitando di ridurlo all’identità di malato, cercando di salvaguardare i suoi investimenti anteriori e favorirne di nuovi.

 

 

 

L’EQUIPE CURANTE

 

L’équipe è intesa come insieme di persone legate le une alle altre da un progetto comune e da una rete di comunicazioni intellettive ed affettive. Tutti gli attori coinvolti nella presa in carico del paziente svolgono una funzione curante e devono esserne consapevoli.

L’équipe così intesa incarna il terzo reale. In effetti l’altro interlocutore che il paziente trova in questa équipe non viene solo a supplire con la sua presenza la carenza del terzo simbolico, ma costituisce anche attraverso la realtà delle sue relazioni con lo psicoterapeuta una smentita permanente dei fantasmi di esclusività fusionale del paziente.

E’ sottointesa quindi, per gli stessi motivi, l’importanza del fatto che la stessa équipe curante non rappresenti l’unico interlocutore del paziente.

Risulta altresì importante trovare la giusta distanza istituzionale; gli operatori devono essere sufficientemente distanti perché i pazienti si sentano veramente a casa propria, ma devono essere abbastanza vicini per avere la possibilità di esercitare in questo luogo le loro capacità di cura.

E’ bene sottolineare la necessità di evitare l’attivismo eccessivo che risulta essere stranamente nocivo per i pazienti, poiché li priva della necessità di sperimentarsi come soggetti della propria vita. Se qualcuno si sostituisce al paziente, esso sarà sempre più indebitato narcisisticamente con i curanti e non potrà migliorare la propria autostima.

Risulta quindi sicuramente utile per i curanti preoccuparsi del benessere fisico e psichico dei pazienti e mostrarglielo, mentre è estremamente dannoso sostituirsi ad essi nella vita quotidiana per evitare di provare queste preoccupazioni.

La funzione fondamentale dell’equipe curante diviene quella di cerniera tra realtà esterna nella quale sono nello stesso tempo attori e testimoni e la realtà interna del paziente sulla quale è centrato il loro interesse. L’obiettivo è quello di aiutare il paziente a vivere ciò che l’incontro con questa nuova realtà scatena in lui in termini di pensieri, emozioni e fantasmi.

La realtà esterna diventa quindi il cammino obbligato attraverso il quale passare per raggiungere la realtà interna del paziente.

 

 

IL PROGETTO TERAPEUTICO RIABILITATIVO

 

Nel progetto di riabilitazione diventa fondamentale parlare di coprogettazione, dimensione progettuale dove l’utente diviene il più possibile parte attiva nelle proprie scelte e nel proprio processo di cambiamento. Si configura come prassi, direttamente originata dal concetto di empowerment, a partire dalla valutazione delle sue risorse, capacità, modalità espressive, per divenire, con gradualità commisurata alla persona, assunzione di responsabilità, ripristino effettivo dei propri diritti di “cittadinanza”, percezione di sé come cliente.

Questo elemento integra in sé il duplice aspetto di obiettivo e metodo. Tale evocazione può aiutare a comprenderne la complessità e la difficoltà insita nel suo perseguimento nelle varie fasi del percorso riabilitativo.

Diventa esperienza comune, nella definizione delle competenze riabilitative dell’équipe, l’individuazione dei livelli nel compito riabilitativo:

·                          l’intrattenimento;

·                          la socializzazione;

·                          la riabilitazione propriamente detta

·                          il reinserimento sociale.

“L’obiettivo della riabilitazione è l’aumento della capacità negoziale” (O.M.S. 1996),  con strategie di “restituzione sociale” ad alta integrazione: “Il D.S.M., (…) sede di tutela e promozione della salute mentale, ha il ruolo maieutico di suscitare le competenze e moltiplicare le risorse, del paziente e della comunità, in un rinnovato e reciproco scambio; e nell’attivare opportunità esterne a sé che svolgano funzioni antiistituzionalizzanti.”

Il progetto terapeutico-riabilitativo dovrà necessariamente partire da una accurata ricostruzione “storica” della vita del paziente perché solo conoscendo quale sono state le sue esperienze passate i curanti potranno cercare di dare un significato a quelle del presente. Occorre altresì fare in modo che in esso venga data altrettanta importanza agli eventi della vita quotidiana del paziente, a quelli della sua vita psichica e soprattutto dei legami esistenti tra gli uni e gli altri.

Come già detto in precedenza gli obiettivi principali del progetto terapeutico- riabilitativo sono i seguenti:

·        Acquisizione o conservazione di abilità e autonomie

·        L’integrazione sociale

·        Lo sviluppo di capacità relazionali

·        L’aumento della qualità della vita

Diventa fondamentale sottolineare che tutti i protagonisti del sistema di cura (compreso il paziente stesso) hanno una funzione terapeutica da svolgere, mettendo la propria capacità di pensare al servizio del progetto terapeutico, cosa che presuppone che quest'ultimo sia loro familiare, a prescindere dal ruolo che svolgono nel sistema.

Il progetto dovrà essere quindi co-costruito da tutti gli attori del sistema e di conseguenza condiviso per essere realmente efficace.

 

 

 

 

IL PERCORSO TERAPEUTICO RIABILITATIVO

 

Alcune volte il percorso dei pazienti si può ridurre al passaggio da un luogo ad un altro, dalla comunità al gruppo appartamento ad una casa propria. Sembra più importante concentrarsi su un percorso che sottolinei il passaggio da un momento all’altro, da quello del primo incontro a quello della separazione. Questi due margini riassumono l’intera problematica psicotica, perché sottolineano che ci sono due esseri umani distinti in grado di relazionarsi e con la capacità di sopportare che questa relazione finisca.

Il percorso terapeutico fa vivere al paziente una triplice prova: esistere, incontrare l’altro e lasciarlo.

Durante questo percorso i curanti svolgono un ruolo particolare, in quanto costituiscono la cerniera tra la realtà esterna, nella quale sono nello stesso tempo attori e testimoni, e la realtà interna del paziente, sulla quale è centrato il loro interesse. La realtà esterna diventa quindi il cammino obbligato attraverso il quale passare per raggiungere la realtà interna del paziente.

E’ necessario tener conto che il percorso terapeutico in gruppo appartamento ha un andamento discontinuo, dove si alternano fasi di evoluzione, regressione e di crisi. Proprio per questo è necessario non negare l’importanza del ruolo di altre strutture quali il Centro Crisi e SPDC.

Tali luoghi possono svolgere una funzione fondamentale di accoglienza e di cura per rispondere ai bisogni di contenimento e di gratificazione regressiva del paziente, a patto che vi sia una reale integrazione e un approccio di cura condiviso tra essi e il gruppo appartamento. Questo perché il funzionamento mentale psicotico, come già detto, non viene soddisfatto dai simboli e ha bisogno di appoggiarsi sul loro equivalente reale.

L’Ospedale assume in questa maniera il ruolo di terreno neutro, di terzo che, oltre alle ragioni precedentemente citate, serve a preservare il paziente e l’equipe curante dal pericolo della fusionalità e, a lungo andare, dalla cronicità.

 

 

L’INSERIMENTO

 

L’inserimento del paziente deve essere coerente con il progetto terapeutico-riabilitativo della struttura.

In seguito alla segnalazione del medico inviante, che ha in cura il paziente, se ve ne è la necessità, viene spiegato dettagliatamente il tipo di intervento che viene attuato nel servizio.

Sarebbe opportuno che almeno 1 mese prima dell’inserimento siano esplicitati al paziente quelli che sono gli obiettivi e le motivazioni dell’eventuale inserimento, per poter permettere al paziente di “fantasticare” su questo nuovo luogo prima che esso lo veda,  consentendogli in questo modo di investire su di esso.

Le motivazioni dell’inserimento possono essere riassunte nel seguente modo.

1)    Il paziente viene nel gruppo appartamento per :

 

·        Vivere

·        Curarsi

 

2)    Segue a questo punto un secondo incontro in cui vengano esplicitate se possibile in maniera concreta, scritta, quali sono le regole e le condizioni necessarie alla sua permanenza in struttura, proponendo un primo confronto tra realtà immaginata e investita idealmente con la realtà concreta.

 

Le regole di massima devono da un lato  poter sottolineare che il gruppo appartamento non è un luogo al di fuori dalla realtà sociale,  dall’altro proteggere il paziente dai rischi di fusionalità esplicati in

precedenza e possono essere in sintesi:

·        La violenza non è ammessa e ha delle conseguenze che vanno dal ricovero alla dimissione dal servizio

·        Nel gruppo appartamento esistono spazi comuni e spazi privati che non devono essere violati

·        Il paziente dovrà mantenere la relazione con il terapeuta esterno inviante.

·        In questo processo, come detto è necessario che esso sia il più possibile un parte attiva, un soggetto più che un oggetto.

 

3)  Deve poi seguire un terzo momento in cui il medico responsabile si confronta con il paziente circa la bontà e la reale utilità dell’inserimento in gruppo appartamento e, al contempo, il paziente possa esprimere la sua volontà rispetto alla proposta.

 

4) A questo punto l’intera équipe curante, in sede di riunione, dovrebbe poter esprimere una valutazione sulla fattibilità e sull’utilità dell’inserimento del paziente.

 

5) Se la valutazione complessiva è positiva viene contattato il medico inviante accettando l’inserimento a condizione che esso continui a mantenere il rapporto terapeutico con il paziente e che partecipi alle riunioni dell’équipe curante almeno una volta ogni 3 mesi in modo che la continuità e la coerenza degli interventi venga mantenuta.

6) Seguirà per il paziente un periodo di prova  e di osservazione in cui sarà seguito con particolare attenzione  e aiutato a conoscere la nuova realtà abitativa, il gruppo degli utenti e l’équipe curante

A questo punto l’inserimento non ha ancora valore definitivo e dovrebbe essere possibile per l’équipe curante e per il paziente stesso interromperlo in caso di non idoneità.

 

7) Se al contrario il periodo di prova avrà esito positivo al paziente verrà sottolineato che da quel momento il suo inserimento ha carattere definitivo,  ed egli può sentirsi a casa propria, stimolando in esso la possibilità di appropriarsi dello spazio abitativo.

 

 

Riassumendo il processo di inserimento può essere suddiviso nelle seguenti fasi :

 

CONCLUSIONI

 

 

A conclusione del lavoro svolto mi preme sottolineare come inevitabilmente esso si configuri come parziale, incompleto, che rappresenti semplicemente nella migliore delle ipotesi un punto di partenza nel tentativo di analisi di una realtà così nuova e complessa come quella dei Gruppi Appartamento.

E’ stato difficile nella fase di ricerca bibliografica, trovare materiale che trattasse specificatamente questo argomento.

Punto di partenza è stato il tentativo di descrivere il percorso storico, legale e culturale che ha portato in Italia al superamento degli ospedali psichiatrici e alla nascita dei Gruppi Appartamento.

Molto del materiale preso in esame nella prima parte tratta il tema della riabilitazione in psichiatria, a partire dalle suggestioni dei fautori del superamento degli ospedali psichiatrici in Italia, Basaglia in Primis alle esperienze estere di Carling con il modello delle “Supported House” al modello di Spivak, alle analisi sulla qualità della vita di Huxley. Altrettanto utili in questa fase sono stati i lavori di analisi delle nuove istituzioni psichiatriche italiane  in particolare quelle effettuate da Saraceno, Ferrara e Castelfranchi.

In queste analisi, il concetto di riabilitazione assume sfumature diverse che ho cercato di sottolineare.

Anche l’oggetto principale della mia tesi il gruppo appartamento non viene definito in maniera univoca, sotto questa definizione si raccolgono diverse realtà a volte molto diverse tra loro, sia in termini di definizione strutturale, che concettuale.

Come esempio mi è sembrato opportuno citare la realtà che conosco meglio: i Gruppi Appartamento del Dipartimento di Salute Mentale 5B, provando a raccontarne la nascita, l’evoluzione e alcuni dati che potessero delinearne il profilo attuale.

Il tentativo di analisi è proseguito su un versante che mettesse al fianco del concetto di riabilitazione quello di cura. A tal proposito la scelta è per me naturalmente caduta su un modello che ben conoscevo non solo per averlo letto sui libri, ma anche per conoscenza diretta dell’autore in ambito formativo lavorativo. Il modello di M. Sassolas frutto di elaborazione e di traduzione operativa dell’opera di P.C. Racamier e più in generale di molti degli approcci psicoanalitici alla terapia delle psicosi, sembrava poter essere pur con le sue specificità un buon punto di partenza. La conciliazione nella sua opera di aspetti teorici e operativi, intorno ai concetti di équipe curante, sistema di cura e anche più semplicemente la convinzione che di fronte a un compito così difficile,come quello di curare le persone affette da disturbi psicotici, la resa, la frustrazione, il rifugio in categorie rassicuranti come quella di cronicità non siano gli unici approcci possibili.  La convinzione più forte suscitata dal confronto tra l’approccio centrato sulla riabilitazione e quello sul concetto di cura è che entrambi nel trattamento residenziale dei disturbi psicotici sono insufficienti se si riducono ai loro termini più rigidi e che solo la conciliazione non confusiva tra essi può portare a dei risultati apprezzabili.  La stesura delle linee guida, obiettivo principale di questo lavoro, è il tentativo come già detto parziale di sintetizzare questi due approcci, sottoponendoli al filtro del tutto personale dell’esperienza lavorativa che mi ha portato a lavorare sul servizio dei Gruppi Appartamento Collegno dal 1999 ad oggi, intorno ad alcuni temi operativi.

Di conseguenza i  temi dello spazio, del tempo, del progetto terapeutico riabilitativo ecc., sono andati a configurarsi come coagulo degli stimoli precedentemente citati, occasione per pensare ad essi, eventuale punto di partenza  di un lavoro a venire.

Vorrei ringraziare in conclusione tutte le persone che mi hanno consentito di poter svolgere questo lavoro, occasione importante per conciliare teoria e pratica, formazione lavorativa e formazione accademica.

 

 

 

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Winnicot D. W. , Gioco e realtà, Armando, Roma, 1995

 

 

 

INDICE

 

INTRODUZIONE…………………………………………………..1

CAPITOLO 1………………………………………………………3

GRUPPI APPARTAMENTO QUADRO STORICO

E NORMATIVO……………………………………………………3

1.1 LA STRATEGIA TERAPEUTICO-RIABILITATIVA CHE

SOTTENDE AI GRUPPI APPARTAMENTO…………………….12

CAPITOLO 2………………………………………………………16

L’EVOLUZIONE DELL’APPROCCIO ALLA MALATTIA MENTALE: LA RIABILITAZIONE………………………………16

2.1 ORIGINE DEI GRUPPI APPARTAMENTO….……………...24

2.2 I GRUPPI APPARTAMENTO DEL DIPARTIMENTO DI SALUTE MENTALE 5B …………………………………………..40

2.2.1 I GRUPPI APPARTAMENTO COLLEGNO………………...42

2.2.2 GLI UTENTI………………………………………………….44

2.2.3 L’EQUIPE INTEGRATA…………………………………….47

2.2.4 UNO SGUARDO D’INSIEME……………………………….49

CAPITOLO 3………………………………………………………53

L’APPROCCIO TERAPEUTICO: PER UNA FUNZIONE CURANTE IN PSICHIATRIA……………………………………..53

3.1 Quale percorso terapeutico possibile?..........................................57

3.2 Costruire il sistema di cura……………………………………...64

3.3 Precursori, trappole e ospedali…………………………………..73

CAPITOLO 4………………………………………………………77

PROPOSTA DI LINEE GUIDA NEI GRUPPI APPARTAMENTO IN PSICHIATRIA…………………………………………………..77

Caratteristiche dell’intervento………………………………………77

Requisiti Strutturali………………………………………………….78

Gruppo appartamento come luogo e strumento……………………..79

Clienti………………………………………………………………..81

Spazio………………………………………………………………..82

Tempo……………………………………………………………….83

L’equipe curante…………………………………………………….85

Il progetto terapeutico riabilitativo………………………………….87

Il percorso terapeutico riabilitativo…………………………………90

L’inserimento……………………………………………………….92

CONCLUSIONI…………………………………………………….96

BIBLIOGRAFIA…………………………………………………...99

 

 

[1] L’èquipe di lavoro dell’A.S.L. 5 di Collegno, composta da medici, infermieri ed educatori ha effettuato una ricerca bibliografica per valutare i dati, in letteratura, rispetto all’attivazione dei G.A, valutando solo articoli di rilevanza internazionale.

Pochi sono apparsi gli articoli a livello nazionale e pochi hanno permesso di capire la le metodologie di intervento.

Dopo una attenta analisi hanno vagliato quelli che ritenevano più rilevanti e significativi.

 

[2] “Analisi di un percorso di gruppo” di Furlan, Stanga, Cristina, Callegaro, Sorce, Pent, Pane, Naldi -Torino 2000, XLII Congresso Nazionale della S.I.P.

[3] “Analisi di un percorso di gruppo” di Furlan, Stanga, Cristina, Callegaro, Sorce, Pent, Pane, Naldi -Torino 2000, XLII Congresso Nazionale della S.I.P.