STORIA DELL’EDIFICIO dell'Ospedale di via Giulio 22, in Torino
La storia dell'edificio è stata tratta da una ricerca svolta dal prof. arch. Enrichetto Martina docente nella Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino.
La città di Torino, con ordinato 30 aprile 1828 concedeva all'amministrazione del Regio Manicomio un largo quadrilatero di circa 6 giornate nei terreni a nord-ovest della Città, già occupati dalle fortificazioni, delimitato dalla via della Consolata, dalla via San Massimo (ora corso Regina Margherita), dalla via Valdocco e dalla via che scendeva alla piazzetta della Consolata.
Scrive il Presidente dei Regio Manicomio in occasione del II centenario di fondazione: «il luogo non poteva essere meglio scelto per trovarsi il medesimo sufficientemente appartato dalla Città per non riuscire d'incomodo al vicinato, ben esposto e ventilato, con prospetto di campagna, abbondanza d’acqua e soprattutto ampiezza di abitazione e di sito coperto cotanto necessario per la classificazione e separazione delle principali malattie intellettuali, nonché per assicurare in quantunque tempo e stagione il passeggio dei ricoverati».
Facciamo un passo indietro. «Nel 1824, il nuovo presidio della follia deve trovare la sua collocazione nella Città o forse un po' fuori per ragioni di decenza o di fastidio che la costruzione potrebbe arrecare ai normali e anche per altre ragioni oscure di contaminazione che potrebbe procurare all'urbanistica già fatta della capitale del Regno Sabaudo. Meglio allora tra l'incertezza del vicino e del lontano trovare un terreno libero, non importa anche se poco adatto o con una bella pendenza; sicché il Sovrano Carlo Felice e chi a lui doveva sottomissione o debito per l'amministrazione cittadina ricercarono accuratamente lungo il tracciato dei bastioni della Città, (spianati in seguito al decreto napoleonico) un appezzamento proponibile per la cosa. Lo trovarono tra lo spalto di San Solutore e di Santa Maria dove era libera una striscia di terreno di m. 268 per metri 88 circa con lato maggiore verso campagna esposto praticamente a nord pieno.».
Questo era il pezzo di terra dove doveva essere curata la follia di Torino e dove l'architetto doveva inventare una «scatola strutturale» che si adeguasse alla striscia di m. 268 per m. 88, con un bel dislivello di 5 m. sul lato breve dovuto a quella scarpata o ripida discesa che dir si voglia che aveva consigliato sovrani ed architetti di corte a facilitarsi la vita ed ad espandere Torino sempre altrove in pianura creando così subito una ipotesi qualitativa diversa tra Città bassa e Città alta come si è poi puntualmente avverato quando Torino è dilagato a nord accostandosi alla Dora. Ma per una migliore comprensione delle cose permettiamoci di retrocedere nel tempo.
Era l'anno 1824, quando il Sovrano cercò un architetto che fosse capace ad inventare la casa di cura della follia di Torino e, siccome già l'architetto Giuseppe Talucchi, giovane di 32, anni stava costruendo l'ospedale San Luigi pensò che sarebbe stato opportuno affidare anche il progetto dell'ospedale dei pazzi al medesimo Talucchi il quale mentre costruiva in via Piave avrebbe potuto curare anche l'altra fabbrica che era lì vicino. «E siccome poi coinvolgere un architetto non ci voleva molto e a quell'epoca tutti andavano a dire che sì l'ospedale San Luigi era bello e costava poco o nulla l'architetto, ma più ancora che al Talucchi sarebbe venuto merito se avesse lavorato ancora a titolo gratuito al nuovo manicomio di Torino, opera altamente benefica, che tutti avrebbero ricordato per qualche verso ancora dopo 150 anni, il Re Carlo Felice, percosso dalle necessità, aveva individuato la striscia di terreno da elargire ai poveretti che in allora soffrivano di follia e di altre non chiarissime malattie».
Quel terreno doveva essere uno dei peggiori residui recuperati dopo la distribuzione degli spalti ad ovest i quali dopo il terzo ampliamento della Città erano anche più fortificati degli altri.
L'incarico al prof. Talucchi era prevedibile in quanto l'architetto, da tempo, relazionava con la direzione amministrativa del manicomio di Torino. E’ bene altresì ricordare che il Talucchi era anche un uomo assai esperto, professore alla Regia Università', preparato a valutare le esigenze della committenza e anche dotato di polso e decisione. Entrare a trovarsi ben presto in un labirinto con il panico di uscirne toccato, fu la sorpresa sgradita che il Talucchi trovò, per la quale fu per lui gran sconcerto l'essere giudicato da un tribunale e il doversi difendere o discolparsi come professionista sospettato di inadempienze. Infatti non mancarono critiche e dicerie specie sul sistema adottato di condurre i lavori in economia, anziché darli in appalto; la stessa Direzione del Regio Manicomio ed il prof. Talucchi furono costretti ad invocare una inchiesta dal Governo affidata all'ing. cav. Mosca, autore del noto ponte sulla Dora, il quale nella sua relazione dimostrò insussistenti le accuse elevate al riguardo, elogiando anzi il Talucchi per l'opera disinteressata e pregievole compiuta.
L'opera del Talucchi sarebbe stata più apprezzata se tutto fosse filato liscio e la sua notorietà «sarebbe sconfinata ben oltre Santhià e Vigone» (dove quarant'anni dopo il prof. Talucchi avrebbe costruito le Chiese Parrocchiali); lui colto e anche un po' nobile, si sarebbe tolto dalla mediocrità torinese di allora, poco lungimirante: una borghesia ricca che amava ripetersi nelle lapidi e che aiutava chi soffriva di follia con un obolo tanto per leggere nel marmo il proprio nome.
Ma è meglio ritornare sui pensieri del Talucchi al quale le cose si presentavano abbastanza confuse nella fase progettuale e diagnostica. Certamente i luoghi dove erano state curate le follie dell'uomo e le malattie del corpo li conosceva bene, ma per lui ha inizio un penoso sfoltimento mentale: per esempio dovrà rinunciare ai progetti teorici che non avevano modo di essere sviluppati e così pure nella sua mente avranno dovuto turbinare tutte le scelte fatte nel 1772 dall'Académie Royale des Sciences che aveva esaminato almeno 200 memoriali e 50 progetti di architettura sulla nuova forma ospedaliera. Nel contempo il medico era sempre più importante in società e il suo prestigio, più che per le possibilità terapeutiche, era da ricercarsi nella sua funzione di igienista. Perciò furono giudicate ottimali le soluzioni tipologiche a padiglione che il Poyet nel 1778 elaborò secondo i programmi dei commissari dell'Accademia delle Scienze.
Però ad un certo punto le richieste di chi doveva occuparsi della salute del prossimo non ebbero più senso logico e il Talucchi dovette cedere non poco allo sconforto quando nel discutere con il dott. Bonacossa (futuro direttore sanitario del manicomio) venne a sapere che i degenti previsti erano ben superiori ai 75 o 150 come lui aveva immaginato. Questa grave esigenza per il Talucchi significava ripensare il suo progetto originario che prevedeva un padiglione nel verde ad un solo piano ben diviso per controllare uomini e donne.
I medici avevano ereditato il «potere della sovrintendenza del malato» dalle Confraternite religiose; infatti il passaggio dalla vecchia sede dell'ospedale dei pazzarelli al regio manicomio non fu soltanto un cambiamento di struttura, ma anche il trapasso dei poteri dalla Confraternita ai sanitari.
Il periodo assistenziale gestito dalla congregazione si era concluso e si apriva la fase clinica in cui era il medico il funzionario del nuovo ordinamento.
Ma chi erano i folli che avrebbero fruito dell'opera sua e quali esigenze e a quali terapie fossero sottoposti, il Talucchi dovette pur chiederlo a qualcuno. Bisognava altresì sapere quanto tempo i mentecatti dovevano abitare in quei luoghi, quanti letti in corsia, quante celle, gabinetti e servizi si dovessero provvedere non esclusi quelli per i sanitari o per il personale.
Ma siccome i medici nel 1828 avevano una vaga idea della pazzia, le risposte furono evasive, i consigli retorici e le spiegazioni sui trattamenti repressivi inutili perché secondo i sanitari la follia era generata di certo da cause fisiche e concomitanti cause morali e il suo trattamento doveva prevedere solo la segregazione o l'isolamento di pari passo seguiti da debite prediche ed influenze morali e da puerili svaghi o lavoretti . Inutilmente il Talucchi progettista cerca di venire a conoscenza dei rapporti fra la causa del male e cura del medesimo per poter pensare ad una architettura dove tipologia e funzione aiutassero lecitamente la terapia senza togliere nulla al prestigio del medico. Ma ben presto il Talucchi deve accettare un processo di adeguamento intellettuale perché, essendo oscure le cause del male, il Bonacossa non saprà indicare esigenze per la guarigione e non certo la necessità di adeguati locali di cura né saprà dare risposte sul trattamento della follia perché questo trattamento consiste nel segregare l'infelice e sottoporlo a torture le cui descrizioni hanno riempito i manuali dell'infelicità fino al 1975. Nella mente del Talucchi, il quale già si doveva preoccupare per l'esiguo finanziamento, la maturazione del progetto deve fare i conti solo con il numero dei ricoverati e con il denaro oppure con principi filosofici e non con la maturazione di libere tipologie. Gli interminabili elenchi di uomini e di donne divisi per anzianità, per lavoro, per sintomo, rivelano la ossessione della impotenza del medico al quale non restava che la voglia di catalogare, di spaccare la follia a metà, in quattro e poi ancora, fino ad arrivare ad una demenza singola, ad una pazzia individuale. Un sintomo, una malattia, un malato, un altro simbolo, un'altra malattia, un altro malato; cinquecento sintomi, cinquecento malattie, cinquecento malati.
Il Talucchi sollecita per saperne di più; il Bonacossa è un interlocutore che alla domanda non risponde con una spiegazione, ma con un numero senza considerare quel che si stava facendo altrove dove medici come l'Esquirole e altri miravano a vere scuole di terapia in Francia, in Inghilterra e in Germania con risultati peraltro ancora poco incoraggianti. Il Regio Manicomio di Torino per 400 degenti divisi fra uomini e donne formalmente diventò il trasferimento ripetitivo della follia e si configurò strutturalmente in uno scheletrato modulare ripetuto 240 volte come un suonatore di tamburo che altrettante volte ripetesse nel tempo la cupa percussione.
La struttura rifletterà la mentalità direttiva del medico e la ubbidienza del Talucchi, esecutore coinvolto in responsabilità gravi e impreviste, ma non disposto a lasciare rigide simmetrie di assi e piani che saranno poi le vere e proprie immagini inconsciamente create per esaltare la clausura. Nel 1828 gli schemi consolidati della ritualità delle confraternita che si occupavano del malato erano un nodo gordiano che durava da secoli ed il Talucchi architetto, professore a Torino nella Regia Università, sapeva benissimo che la distribuzione a padiglioni era il nuovo e che lo schema a croce del San Luigi e del vecchio San Giovanni era il passato; che il Petit proponeva da 50 anni nuove tipologie, che a Milano costruivano lazzaretti ed ospedali simili a carceri dove un guardiano controllava tutti i malati di corsia e ne sopportava il fastidio.
Il risultato progettuale è quello di un imponente manufatto, che verrà raddoppiato su due piani, sopraelevato per necessità, rigidamente imposto sull'asse dell'odierna via Piave dove saranno collocati i servizi amministrativi e religiosi con stanze per il personale, la chiesa per i religiosi e le camere per i medici e per la morte. La necessità di accogliere molti mentecatti obbligò il Talucchi a raddoppiare la fabbrica a distanza di 10 metri creando così un cavedio interminabile per affacciare 85 celle senza occupare troppo terreno.
Nella sua impostazione progettuale l'architetto Talucchi cerca di contenere al massimo le dimensioni delle celle e decide di collocare la costruzione il più vicino possibile all'odierno corso Valdocco per lasciare maggiore spazio disponibile verso la via della Consolata per coloro che successivamente dovranno ampliare l'edificio.
Dopo aver accettato questa decisione sarà necessario procedere ad una elementare risoluzione dei percorsi e poi dividere l'edificio con gli invalicabili cancelli per separare gli uomini dalle donne, i paganti dai non paganti, ma lasciando confusi i malati gravissimi e i melanconici semplici per i quali, in tutto, basteranno due bagni per ogni piano per contenere le spese di costruzione.
Il legame che esiste tra il Talucchi e il Bonacossa è l'appartenenza all'amministrazione del Regio Manicomio della quale i due sono membri influenti e che si configura come una medaglia sulle cui facce opposte stanno rispetto e subordinazione.
Si può supporre un rapporto difficile: talora di collaborazione e altre volte solo di procedimento esecutivo attuato dal Talucchi con diligente ubbidienza.
Derubricare, accettare, rinunciare, schematizzare, semplificare, ripetere, ridurre i costi, prevedere il possibile, prevedere l'impossibile sono gli esercizi che il Talucchi esegue per il Bonacossa il quale poi sarà primario del Regio manicomio per 36 anni e pubblicherà saggi, osservazioni, classificazioni, tavole di statistica in polemica frequente con l'Esquirole in particolare che era una autorità in materia e che sull'ospedale di Torino aveva detto la sua opinione.
Questa può essere considerata, in sintesi, una proposta per una stringata genesi della progettazione architettonica meditata dal Talucchi.
Il giudizio critico formale e costruttivo lo sapranno dare solo i malati: 400 anime per 141 anni in attesa di una parola di speranza e di una guarigione improbabile o impossibile. Solo loro hanno potuto valutare il valore estetico e funzionale, voluto da coloro che manipolavano il malato e la pazzia di Torino, considerando che il Talucchi era devoto al Sovrano e anche appartenente al comitato direttivo del Regio Manicomio. Solo i malati che hanno passato i loro anni di vita nell'edificio ed i centoquarantuno anni potranno rendere non ridicola qualunque frase che solo pensasse di entrare nel merito della ripetizione delle 340 finestre che hanno guardato l'affollarsi della Città o sentito il suo rumore e hanno udito il rintocco delle campane delle chiese di Torino, anche se adesso c'è il chiasso di corso Regina Margherita mentre prima fuori c'era il silenzio della libertà degli uomini diversi e cioè normali. C'era anche il muro di cinta, tanto per dire ai malati che lì era tutto finito, e raggiungerlo per scriverci sopra non era poi tanto facile e forse solo i più fortunati ed i paganti ci riuscivano anche perché erano i più vicini o avevano ancora la voglia di vivere tanto da uscire dalla cella se a loro era dato il permesso dal sorvegliante o dal medico: alla fine la libertà era solo più guardare fuori, senza muoversi o disturbare, o aggrapparsi alle inferriate di via Giulio ed allora era meglio non uscire più e scrivere sul muro della cella dove i melanconici stavano a sentire il respiro degli altri mentecatti. A nessuno era consentito il vedere sorgere e tra- montare il sole, ma solo i rumori dei calessi e dei carri che uscivano erano il contatto con l'esterno per chi aveva chiuso la sua esistenza con quella vita infelice non per sua volontà. Il tempo si misurava in cinque metri quadrati per ogni cella, con un guardiano per gli uomini e uno per le donne, nel locale collettivo per la visita medica.
Per la sorveglianza del matto le latrine erano aperte e i bagni erano giustamente sorvegliati, i malati controllavano i malati, i folli sorvegliavano i folli, mentre il medico era spettatore impegnato ad osservare, classificare anche, aiutare o incoraggiare, ma sempre precari erano gli sforzi perché nessuna cura dava risultato o qualche speranza di guarigione, tantomeno lì dentro e tanto più in quanto la cura consisteva nel privare della libertà e delle pietà, oppure nel disegnare il folle col «craniografo» o troncandogli il busto per studiarlo in seguito.
Qualche benefattore era finito sul saggio di statistica lasciando scritto il nome; qualche benefattore sarà citato anche nel saggio di statistica del Bonacossa dove potrà essere alleggerito il grande peso morale, grande per tutti coloro che si sono prodigati invano per sanare i malati di mente che hanno conosciuto la coercizione e l'idroterapia con doccia fredda e calda, a getto, a goccia, a pioggia, la cura fisica e la predica morale o il carrello degli psicofarmaci al mattino e al pomeriggio.
Tutto ciò dura sino al luglio 1975 quando il grande edificio si svuota ed inizia il dopo «via Giulio- Manicomio ».
Nel luglio 1975 l'edificio viene liberato completamente e destinato a diverso uso e ne inizia la sua ristrutturazione.