FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA
“LA PET THERAPY IN ITALIA.
Un Progetto di Ricerca di Terapia Assistita con gli Animali rivolto a Pazienti sofferenti di Psicosi.”
Relatore: Chiar.mo Prof Pier Maria FURLAN
Candidata: Dott.ssa Daniela MENNOIA
· INTRODUZIONE pag. 3
· PARTE PRIMA: La Pet Therapy in Italia pag.8
Alcune esperienze italiane: pag.10
-A.I.U.C.A. pag.11
-A.N.U.C.S.S. pag.11
-L’Ospedale pediatrico “Anna Meyer” di
Firenze pag.12
-L’Ospedale pediatrico di Padova pag.13
-L’Unità operativa di pediatria dell’Ospedale
Civile “S. Liberatore” pag.14
-L’Istituto Zooprofilattico dell’Abruzzo e del
Molise “ (IZSAM) pag.17
-La Fondazione “R.Hollman” ed il “metodo
Elide Del Negro” pag.18
Riferimenti in Italia. pag.20
L’Iter legislativo. pag.22
· PARTE SECONDA: Il co-terapeuta pag.27
Perché il cane come co-terapeuta? pag.28
L’Ippoterapia pag.32
-La storia pag.34
-Il terapista della Riabilitazione
Equestre pag.34
-A chi si rivolge la Riabilitazione
Equestre pag.36
-Finalità ed obiettivi della
Riabilitazione Equestre pag.38
-Il metodo di lavoro pag.40
-Quali cavalli pag.41
La Delfinoterapia pag.44
· PARTE TERZA: Progetto di ricerca pag.49
-Il paziente psicotico pag.50
-Il trattamento psicoterapico del
paziente psicotico pag.55
-Il trattamento del paziente psicotico
mediante il ricorso alla Pet Therapy pag.62
-Il luogo della sperimentazione:
caratteristiche pag.66
-La testistica pag.68
-LE MISURAZIONI PSICOMETRICHE. Le
ratings scales: la STAI e la DISS pag.69
-LE MISURAZIONI ELETTROFISIOLOGICHE. pag.73
-L’équipe multidisciplinare pag.82
-Le caratteristiche dei pazienti pag.85
-I passaggi preliminari pag.88
-Il Progetto. pag.90
· CONCLUSIONI. pag.92
· BIBLIOGRAFIA. pag.94
INTRODUZIONE
La Pet Therapy è giunta in Italia nel 1987 e da allora ha conosciuto una lenta ma progressiva diffusione. Forse nei primi tempi ha risentito di una sorta di diffidenza per l’intenzione manifestata di contribuire ad accrescere il benessere delle persone attraverso il contatto e la vicinanza ad animali di diverse taglie: dal pesciolino, al pappagallino, al gatto, al cane, fino ad arrivare al cavallo ed al delfino. E’ pensabile che i primi ad avvicinarsi alla Terapia Assistita con Animali Domestici (traduzione italiana della dicitura inglese Pet Therapy) siano stati coloro che già beneficiavano direttamente di un contatto con un animale domestico o ne conoscessero le potenzialità a seguito della pratica professionale (veterinari, addestratori, etologi, ecc.).
Successivamente le sperimentazioni ed i primi dati scientifici attestanti l’efficacia del metodo hanno contribuito alla sua diffusione.
Dal 1997 al 2003 ha corso in Italia un processo di progressivo riconoscimento della Pet Therapy a livello giuridico. Questo passa attraverso tre proposte di legge ed un Decreto del Presidente del Consiglio, che hanno il potere di conferire alla Pet Therapy ulteriore solidità, trasformandosi da una pratica gestita a livello “casalingo” ad un’attività condotta a fini esperienziali o terapeutici (AAA oppure TAA).
A livello personale l’interesse nasce da una innata passione per gli animali.
La prima esperienza di convivenza con un animale domestico fu con un coniglietto nano di pochi mesi, poi battezzato Gaspare.
L’esperienza durò circa un anno, a causa della fragilità di quest’ultimo. La perdita fu piuttosto dura da elaborare ed il vuoto lasciato enorme. Fu così che a distanza di pochi mesi arrivai a casa con un cucciolo di cane di razza meticcia, sfuggito all’esperienza del canile.
I miei genitori accolsero con una iniziale ostilità l’avvento di Romeo (così chiamai il piccolo di tre mesi circa), ma nel giro di poche ore era già riuscito ad accattivarsi la simpatia di tutti i componenti della famiglia.
Romeo è un incrocio tra un cane di razza bassotto ed un pincher, di taglia piccola e di grande astuzia ed intelligenza, dal mantello nero focato, con delle piccole chiazze bianche sul petto. Caratterialmente è piuttosto socievole, ma sulle prime, con chi non conosce, risulta parecchio diffidente. È molto curioso e possessivo.
Viste le sue qualità, prima tra tutte la forte vitalità ed esuberanza che spesso lo facevano sfuggire dal controllo, decisi di frequentare con lui un corso di addestramento base all’obbedienza presso il G.A.R.U. (Gruppo Amici Razze Utilità) di Rivoli, in provincia di Torino. Romeo imparò ad eseguire, dietro lauta ricompensa, tutti i comandi base dell’obbedienza (il “resta”, “terra”, “salta”, ecc.). L’esperienza ci coinvolse parecchio, anche perché avevamo stretto presso il campo dove ci allenavamo diverse amicizie a ” due e quattro zampe” e le lezioni settimanali, oltre alle gite in montagna della domenica, divennero importanti occasioni per condividere il tempo libero insieme ai propri cani.
Terminato l’anno del corso base, l’intera classe decise di proseguire l’esperienza in una delle due specializzazioni possibili: l’Agility Dog (l’altra era il corso di Obedience).
L’Agility Dog è una specialità che vede cane e padrone su un campo dove è stato allestito da un giudice di gara un percorso ad ostacoli, che il cane, su comando del padrone, deve eseguire nel minor tempo possibile, cercando di non accumulare penalità. In campo non è ammesso l’uso del collare o di alcuna forma di rinforzo alla condotta del cane, tipo palline sonore o deliziosi croccantini, ma solo i comandi vocali che il cane ha imparato ad associare agli ostacoli. Quindi tutto ciò che il cane fa è frutto di un apprendimento, di un piacere che nasce dal poter giocare col suo padrone, dal percepire lo stimolo della competizione che rende tutti un po’ frizzanti e non ultimo dall’intesa che si è creata tra il cane ed il suo padrone, per cui il percorso viene affrontato nella corretta successione degli ostacoli e non ognuno per conto suo! Il corretto svolgimento del percorso da parte del mio cane, o semplicemente vedere assecondato un comando su richiesta (ad esempio, un “seduto e resta”), è per il padrone fonte di gratificazione e di rinforzo di un legame forte e vivo, che il cane è in grado di esprimere e di rinnovare giorno per giorno.
Chi possiede un cane o chi ha modo di condividere con lui alcuni momenti della giornata, anche se temporalmente circoscritti, può beneficiare di una presenza calorosa, in grado di esprimere dell’affetto, un bisogno di attenzione e contatto fisico, un interesse e disponibilità illimitati, privati di ogni forma di pregiudizio.
L’effetto di questo contatto è molto gratificante ed in grado di fornire un senso di calma e pace. Questa capacità, unita a quella funzione del cane di “catalizzatore dei rapporti sociali”, cioè di agevolatore di una qualsivoglia forma di contatto sociale, rende il cane, come altri animali da compagnia, un potente strumento nel campo della riabilitazione.
All’epoca in cui mi dilettavo nell’Agility Dog, frequentavo la facoltà di Psicologia all’Università degli Studi di Torino.
L’idea di poter coniugare i due interessi è sempre stata per me una fantasia piuttosto allettante.
Nel maggio del 1996 presi parte ad un convegno tenutosi a Cremona dal titolo “Pet Therapy: quando l’animale assiste e cura”, del quale riporto alcuni contributi all’interno dell’elaborato. Rappresentò per me un’importante stimolo, nel quale non ho mai smesso di credere.
La conclusione, ad oggi, di un percorso di Specializzazione nell’ambito della Psicologia Clinica, mi offre la possibilità di tornare su questo argomento, conducendo un approfondimento di quanto in questi anni è stato sviluppato intorno a questo tema.
La tesi, nelle sue battute iniziali, riporta un panorama di quelle realtà sparse sul territorio nazionale che si stanno via via costituendo come poli di interesse nello sviluppo delle Attività Assistite con gli Animali. Alcune di esse rappresentano iniziative a carico di piccoli centri o associazioni, che si ispirano a modelli più “solidi” presenti sullo scenario nazionale ed internazionale.
Una descrizione dell’iter legislativo della Pet Therapy in Italia intende offrire una cornice giuridica a quanto viene condotto nella pratica.
In Italia, al fianco di esperienze di Pet Therapy condotte con animali domestici, per le quali approfondirò la scelta del cane come co-terapeuta, vi sono realtà piuttosto diffuse, dove l’animale che interagisce con l’uomo non può essere considerato propriamente “domestico”: l’Ippoterapia e la Delfinoterapia.
La seconda parte della tesi ha un carattere più pratico e specifico.
Lo scopo dell’approfondimento è comprendere se e come può la Pet Therapy essere uno strumento utile nei percorsi riabilitativi, di sostegno e cura di persone sofferenti di disturbi psichici, con diagnosi di schizofrenia.
Questa finalità viene sondata attraverso un approfondimento della patologia psichiatrica schizofrenica e del trattamento della stessa attraverso percorsi di psicoterapia psicoanalitica, con i contributi teorici del professor P.M.Furlan e del professor Marcel Sassolas.
A partire dagli spunti teorici e dalla descrizione delle poche esperienze attive in Italia che offrono uno strumento al trattamento delle psicosi attraverso programmi di Pet Therapy, arrivo alla formulazione di un Progetto di Ricerca.
Il progetto prevede il coinvolgimento di alcuni pazienti con diagnosi di psicosi in carico presso il Centro di Salute Mentale dell’ASL 5 – Regione Piemonte, in sedute di Pet Therapy, da condurre con regolare cadenza all’interno della realtà dipartimentale dell’ASL.
I primi accenni alla Pet Therapy in Italia sono piuttosto recenti.
Se ne inizia a parlare nel 1987, all’interno di un convegno interdisciplinare tenutosi a Milano il 06 Dicembre su “Il ruolo degli animali nella società odierna”.
Nel corso degli anni l’attenzione rivolta a questo tema è stata crescente e via via più specifica rispetto all’accresciuto benessere derivante dal rapporto tra l’uomo e l’animale.
Il 18 maggio del 1996 si teneva a Cremona un convegno organizzato dalla cooperativa sociale Orizzonte intitolato “Pet Therapy: quando l’animale assiste e cura”. In quell’occasione hanno dato il loro contributo diverse figure professionali. Hanno partecipato Eugenia Natoli, etologa, responsabile di un gruppo di lavoro sulla Pet Therapy presso il Centro di Collaborazione OMS/FAO per la Sanità Pubblica Veterinaria di Roma; il professor Giovanni Ballarini, ordinario della facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma e direttore dell’Istituto di Clinica Veterinaria dell’Università di Parma; Marina Verga, professore associato di Etologia Zootecnica presso la facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano; M. Virginia Volonté, aiuto psichiatra presso il Dipartimento di Psichiatria dell’Ospedale Riguarda Cà Granda di Milano; Silvia Ciandella, psicologa del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna; Marina Giuseppini, psicologa e presidente dell’associazione Arion, ed infine gli addestratori cinofili Cosimo Lentini, Aldo La Spina, Debra Buttram e Marcello Galimberti.
I relatori hanno riportato le esperienze condotte in nome delle realtà che rappresentavano, apportando un elevato numero di contributi pratici che descrivevano o mostravano il proprio operato attraverso supporti audio-visivi. Le esperienze coinvolgevano cani guida per non vedenti, cani da compagni per non udenti, le esperienze con i delfini e le caprette tibetane.
A distanza di poco meno di 10 anni, a metà strada tra l’avvio dell’esperienza italiana di Pet Therapy ed i giorni nostri, le esperienze riportate hanno subito notevole risonanza nel panorama culturale italiano e, a fianco delle personalità prima citate, molte delle quali ancora operano nel settore, se ne sono aggiunte delle altre a significare l’interesse crescente e le potenzialità di questo approccio alla disabilità ed alla patologia.
Alcune esperienze italiane
Nel corso del tempo anche in Italia l'interesse per le attività di Pet-Therapy è cresciuto, ed è aumentata la richiesta sul territorio.
Associazioni, centri di riabilitazione, scuole, case di riposo sono interessate a nuove terapie di supporto, a nuove modalità ricreative da inserire nei propri programmi per aumentare il livello qualitativo della vita all'interno delle proprie strutture.
Progetti di ricerca rivolti a chi può trarre beneficio dai programmi di Pet-Therapy sono stati condotti a livello scientifico da Istituti di rilievo, Università e Istituzioni locali che hanno consolidato le esperienze in questo campo, anche se la sperimentazione è aperta verso nuove possibilità.
A scopo puramente esemplificativo si citano alcuni Istituti scientifici italiani e strutture che sviluppano programmi in questo settore.
AIUCA- Associazione Italiana Uso Cani da Assistenza.
Fondata nell'aprile del 1990 per iniziativa di M.me Hélène Reynier, Debra Buttram e, Marcello Galimberti, l'AIUCA, Associazione Italiana Uso Cani d'Assistenza, associazione senza scopo di lucro, si è formata grazie ad esperienze maturate sia nel mondo dell'handicap sia nei diversi settori dell'addestramento e del comportamento del cane.
Al fine di perseguire tali scopi, l'AIUCA si occupa di affidare cani d'assistenza a disabili fisici psichici e sensoriali, promuovere e sostenere Attività Assistite dall’Animale e Terapie Assistite dall’Animale negli istituti geriatrici, ospedali, centri di riabilitazione, scuole, centri socio educativi, cooperative, penitenziari ecc. che credono nella potenzialità dell'animale come fonte di stimolo per migliorare le condizioni di vita dei propri assistiti.
L’associazione organizza inoltre delle dimostrazioni per le scuole, per centri culturali e per associazioni, al fine di divulgare le attività condotte con i cani ed i benefici ad esse legate.
Ha sede a Bosisio Parini, in provincia di Lecco.
ANUCSS- Associazione nazionale per l’utilizzo del cane per scopo sociale.
L’Associazione costituita nel 1998 e con sede a Roma non ha scopo di lucro e persegue esclusivamente finalità di solidarietà sociale nel campo della assistenza sociale e socio sanitaria; istruzione e formazione; tutela dei diritti civili; organizzazione di conferenze e mostre.
Per il raggiungimento dello scopo e nell’intento di fornire gli strumenti idonei, l’associazione si propone di realizzare programmi di attività e terapie assistite per persone portatrici di handicap o comunque per soggetti cosiddetti “deboli” come anziani e bambini avvalendosi dell’ausilio di animali, in modo da assicurare benessere e miglioramento della qualità della vita.
L’ospedale pediatrico “Anna Meyer” di Firenze.
Dall’estate 2002 “lavorano” all’interno del Meyer degli “operatori” piuttosto singolari: si tratta di alcuni cani, addestrati con particolare cura per realizzare momenti di incontro e di animazione con i bambini, e controllati con scrupolo sotto il profilo medico-veterinario.
La loro presenza in Ospedale si deve alla Fondazione Livia Benini, che ha proposto e che finanzia l’iniziativa, e al Servizio di Terapia del Dolore che la ha fatta propria.
Istruttrice e protagonista degli incontri con gli animali in Ospedale è la dottoressa Francesca Mugnai, dell’Associazione Antropozoa.
La sperimentazione ha dato in un primo momento ai bambini ricoverati o presenti in Ospedale per cure e accertamenti, la possibilità di incontrare i cani nello spazio attrezzato esterno, il giardino della magnolia. Poi, nei mesi invernali l’attività si è spostata nella stanza di attesa dei Codici bianchi del Pronto Soccorso ed infine gli animali hanno fatto il loro ingresso nei reparti.
I bambini giocano con i cani, li portano a spasso, li carezzano, realizzano disegni e poesie sugli animali. Ottima l’accoglienza da parte dei bambini, dei familiari e degli operatori dell’Ospedale.
L’Ospedale Pediatrico di Padova.
L'Ospedale Pediatrico di Padova, attraverso il Club Wigwam, ha realizzato nel 1996 un progetto dal titolo "Fattoria in ospedale".
Nei pressi del giardino della struttura, i bambini si recano a trovare i loro piccoli amici animali, spesso cuccioli, accudendoli e occupandosi di loro quotidianamente.
La proposta di effettuare degli incontri con gli animali in un ospedale pediatrico, nasce dall'idea che l'animale rappresenta in innumerevoli situazioni di difficoltà e disagio un efficace strumento terapeutico.
Questo progetto s'inserisce a pieno titolo nell'ambito più generale del programma "Ospedale Senza Dolore", in quanto persegue l'obiettivo di un progressivo miglioramento della qualità di vita del bambino in ospedale, sia ricoverato che non, e dei suoi genitori, ma soprattutto svolge una funzione importante nel ridurre l'ansia e la paura spesso protagoniste dell'esperienza legata all'ospedale.
Gli animali che intervengono sono Kato, una bellissima Labrador e Quelo un brillante Meticcio. Sono regolarmente vaccinati e controllati sotto il profilo medico-veterinario, e sono esenti quindi da zoonosi. Sono inoltre testati caratterialmente nelle loro attitudini comportamentali ed hanno molteplici esperienze in vari campi di applicazione.
Con la dott. Francesca Mugnai, i bambini imparano a riconoscere i sentimenti e le emozioni dei suoi 2 bravi collaboratori attraverso una interazione che si basa sull'osservazione e la vicinanza fisica con gli stessi. All'inizio il bambino cerca di stabilire un primo approccio con gli animali e successivamente si porterà il bambino all'interazione con l'animale, accompagnandolo in alcuni giochi come portare a passeggio l'animale spazzolarlo, massaggiarlo, raccontagli una storia, accudirlo, etc.
L’unità Operativa di Pediatria dell’Ospedale Civile “S. Liberatore”.
L'Unità Operativa di Pediatria dell'Ospedale Civile "S. Liberatore" di Atri, ha avviato dall'ottobre 2000 un innovativo progetto per la sperimentazione di Attività Assistite dagli Animali.
Al programma, gestito dall'Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell'Abruzzo e del Molise "G. Caporale" (IZSAM), partecipano alcuni conigli opportunamente selezionati ed educati.
Si tratta di una delle prime esperienze in Italia, in cui gli animali vengono condotti all'interno della corsia di un ospedale.
Il progetto dell'Istituto Zooprofilattico Sperimentale prevede la realizzazione di incontri, che hanno l'obiettivo di far svolgere attività ludiche e ricreative ai bambini e ragazzi ricoverati nell'ospedale, in compagnia e con lo stimolo degli animali. Tali attività sono anche utilizzate come metodo per riunire i bambini e farli socializzare tra loro, in modo che possano mantenere contatti anche durante il restante periodo di degenza.
Il progetto è stato avviato con un seminario informativo tenuto dal gruppo di lavoro dell'IZSAM e riservato a tutto il personale del reparto per discutere le modalità operative del programma e per verificare l'atteggiamento del personale rispetto all'introduzione degli animali in corsia. Il seminario ha affrontato anche le problematiche igienico-sanitarie ed ha permesso di verificare la presenza tra il personale di soggetti affetti da fobie o allergie. Le attività con gli animali si svolgono nella sala giochi del reparto, separata dal corridoio solo da un muretto e non accessibile direttamente dall'esterno. Per questo è stato deciso che la specie più adatta ad essere introdotta nel reparto è quella del coniglio, facilmente conducibile all'interno dell'ospedale utilizzando appositi trasportini che consentono di evitare il passaggio davanti agli ambulatori con l'animale in libertà.
Prima di iniziare le attività, i genitori dei bambini firmano una apposita autorizzazione e rispondono ad alcune domande di un breve questionario per venire a conoscenza di alcune importanti informazioni: se il bambino possiede un animale, se soffre di allergia verso il pelo degli animali, se il bambino ha mai manifestato episodi di fobia nei confronti degli animali, che tipo di comportamento e/o sentimento il bambino esprime in presenza degli animali.
Anche il personale medico collabora alla selezione dei bambini, escludendo in tal modo la possibilità che i portatori di patologie (allergie, particolari malattie respiratorie o altri disturbi) per le quali risulta controindicato il contatto con i conigli, partecipino alle attività.
Le visite si svolgono una volta a settimana in un orario stabilito, sulla base dei programmi routinari dell'ospedale (orario della visita medica quotidiana in reparto, del pranzo, delle visite dei parenti).
I genitori non partecipano alle attività ma, se qualcuno lo desidera, può assistere da una certa distanza.
Gli incontri sono organizzati e gestiti da professionisti (uno psicologo, un tirocinante in psicologia, un pedagogista, tre veterinari e un terapista della riabilitazione) e conduttori dell'IZSAM specificamente formati a questo lavoro.
Le attività sono varie, vengono programmate a seconda dell'età dei bambini presenti e sono gestite in piccoli gruppi. I limiti d'età per partecipare vanno dai due ai sedici anni. Accade spesso che i ricoverati siano molto piccoli (due/sei anni) e perciò quando sono presenti dei ragazzi più grandi, si affida loro il ruolo di "capogruppo e aiutante" degli operatori.
Il veterinario, sempre presente per vigilare sulle condizioni di salute e benessere dell'animale, illustra le caratteristiche morfologiche del coniglio, le sue abitudini alimentari, i suoi comportamenti. Si organizzano poi dei giochi con protagonista il coniglio o, semplicemente, i bambini danno da mangiare agli animali o si rilassano prendendoli in braccio, accarezzandoli e coccolandoli.
Questa esperienza, probabilmente, può essere la dimostrazione di come gli animali possano sostenere i bambini ricoverati, che spesso vivono sentimenti di ansia, paura, noia o dolore determinati dalle loro condizioni di salute e dall'incomprensione sul perché debbano essere costretti al ricovero e all'allontanamento dai loro familiari e amici, dalla loro casa, scuola, gioco, abitudini. La letteratura ha dimostrato con numerose ricerche come i bambini ricoverati in ospedale soffrano spesso di disturbi depressivi (manifestati con disturbi del comportamento, del sonno, dell'appetito, dell'enuresi) più o meno gravi che non sempre si risolvono con la fine della degenza in ospedale.
Le attività svolte con i conigli appaiono essere di supporto ai bambini/ragazzi, che vivono una esperienza divertente che allevia il sentimento di disagio dovuto alle condizioni di degenza.
Anche i genitori mostrano un certo entusiasmo. La maggior parte di essi, accetta di far partecipare i figli agli incontri osservandoli ed incoraggiandoli all'interazione con l'animale.
L’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise.
L'Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell'Abruzzo e del Molise "G. Caporale" con sede a Teramo ha cominciato ad occuparsi di Attività e Terapie Assistite dagli Animali dopo aver messo a punto e sperimentato metodologie didattiche attive da utilizzare in programmi di educazione sanitaria specificamente rivolti alla scuola elementare.
A partire dal 1995 ha avviato un’intensa attività che lo ha visto protagonista in occasione di numerosi convegni e programmi sperimentali di attività e terapie assistite dagli animali.
Nel settembre 1995 ha partecipato alla conferenza internazionale sulle "Interazioni tra uomo ed animale", che si è tenuta a Ginevra (Svizzera).
A giugno 1996 l'Istituto ha organizzato, a Teramo, un seminario sul tema "La Pet-Therapy: gli animali e la salute dell'uomo" tenuto dal Prof. Dennis Turner, considerato uno tra i maggiori esperti del campo in Europa.
Ad Aprile 1998 l'IZSAM ha organizzato, a Teramo, il corso di formazione “Delta Society International Consultants Program: introduzione alle attività e terapie assistite dagli animali”, tenuto da docenti certificati della Delta Society.
A Settembre 1998 ha partecipato, a Praga, all'ottava conferenza sulle "Interazioni uomo-animale" con un proprio stand nel quale erano anche ospitate la Delta Society, il Centro di Collaborazione OMS/FAO per la ricerca e la formazione in Sanità Pubblica Veterinaria, l'Associazione Italiana Uso Cani d'Assistenza (AIUCA) e la Società Italiana di Scienze Comportamentali (SISCA). In tale occasione è stato presentato un lavoro scientifico su "Programma sperimentale di terapie assistite dagli animali". Risultati relativi alla prima annualità (anno scolastico 1997-98)".
A settembre 1998 inoltre, l'Istituto è stato ammesso a far parte, come "affiliate member" della IAHAIO, l'Associazione internazionale che raccoglie le organizzazioni che si occupano di interazioni uomo/animale.
Nell'Aprile del 1999 l'IZSAM, in collaborazione con la Comunità di San Patrignano, ha realizzato un Convegno sul tema "Il cane in aiuto all'uomo. Alla scoperta della Pet Therapy".
A Gennaio 2000 l'IZSAM, con il patrocinio del Comune e della Provincia di Teramo, ha realizzato il Convegno "Animali amici, animali terapeuti". In tale occasione sono stati presentati alla cittadinanza i risultati del "Programma sperimentale di terapie assistite dagli animali"
La Fondazione “R.Hollman” ed il “metodo Elide Del Negro”.
La fondazione Hollman di Cannero Riviera, sul lago di Verbania, è un importante centro di cura dell’handicap sensoriale. Tra gli interventi riabilitativi rivolti ai piccoli pazienti, il programma di cura prevede sedute di Pet Therapy ricorrendo al metodo Elide Del Negro.
Il metodo è considerato un approccio naturale, non forzato alla Pet Therapy, dove le attività condotte devono avvenire nel rispetto della persona, dell’animale e dell’ambiente.
Per ogni persona che necessita di questo supporto terapeutico, viene stabilito un programma con obiettivi e tempi di applicazione diversificati a seconda della patologia, dell’età, della terapia farmacologica, ecc..
Il lavoro deve essere svolto nel pieno rispetto dei tempi e delle modalità di utenti e animali.
Il metodo Del Negro si distingue per prediligere un ambiente naturale e sereno, non medicalizzato, dove molta attenzione viene data anche all’uso del colore, agli odori, ai suoni.
L’abbinamento tra persona ed animale viene compiuto individuando le caratteristiche peculiari di ogni specie e di ogni soggetto.
Vengono utilizzati animali domestici provenienti spesso dall’abbandono, non appartenenti a razze particolari e assolutamente non addestrati.
Quest’ultima caratteristica rappresenta la vera peculiarità del metodo, che intende dare libero spazio ad una vera interazione spontanea tra animale ed individuo, diversamente non ritenuta possibile.
Riferimenti in Italia
Torino
Dipartimento di Patologia Animale, Università di Torino - Comune di Torino e Arcadia di Fiano per Pet-Therapy
Prof. Marzio Panichi e Dr.ssa Osella
Milano
Istituto di Zootecnia - Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano
Prof. C. Carenzi, Prof.ssa M. Verga e Prof.ssa E. Canali
Tel. 02-50318039 –37 -27 Fax 02-50318030
e-mail marina.verga@unimi.it
Padova
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Università di Padova
Prof. Stefano Romagnoli
Parma
Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Parma
Prof. Giovanni Ballerini
Bologna
Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Bologna
Prof. Stefano Cinotti
Messina
Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie, Università di Messina
Prof. Antonio Pugliese ( istituzione del primo centro di pet-therapy sul territorio nazionale)
Tel. 090-355650/356675 cell.328-9169536
e-mail AntonioPugliese@unime.it
Teramo
Istituto Zooprofilattico sperimentale dell’Abruzzo e del Molise “G.Caporale”
Dr.ssa Stefania Del Papa e Dr.ssa Lejla Valerii
tel. 0861-332305 e-mail l.valerii@izs.it
Roma
Canile Sanitario, Servizio Veterinario ASL Roma D
Dr. Claudio Fantini e Dr.ssa Eugenia Natoli
tel.0665004888 fax 0665001100 e-mail veterinaria@aslromad.it
L’ITER LEGISLATIVO
Il 26 Febbraio 1997 il parlamentare Piero Ruzzante presentò alla Camera dei Deputati una proposta di legge, firmata da ben 41 deputati.
Essa fu descritta in occasione del 1° Convegno Internazionale “Pet Therapy, curarsi con gli animali”, tenutosi a Padova il 2 Marzo 1997. L’Onorevole Ruzzante aveva presentato al Governo un Progetto di Legge a favore della promozione dell’utilizzo degli animali a fini terapeutici, in attesa di definire il campo d’azione e le modalità della stessa e i programmi di sperimentazione della Pet Therapy all’interno di Strutture Sanitarie Nazionali.
Ruzzante chiedeva , inoltre, lo stanziamento di 2 miliardi l’anno, per il ’97 e il ’98, da destinare all’applicazione della Pet Therapy in Italia. La proposta di legge, da lui formulata, si prefiggeva lo scopo di portare al riconoscimento, anche in Italia, della Pet Therapy quale strumento terapeutico di supporto ad una pluralità di patologie, attraverso un approccio multidisciplinare, in cui vengono impegnate diverse professionalità.
“E' stato dimostrato – si legge nella relazione che accompagna il progetto – che gli animali rappresentano un ‘importante fonte di supporto sociale capace di agire come modulatore dello stress quotidiano in difesa della salute (…). Tale metodica si definisce “terapia dolce”, in considerazione degli effetti benefici che si possono riscontrare sulla salute dei pazienti ai quali viene praticata, sotto il profilo psico-emozionale, con sintomi di attenuazione dell’ansia e di compensazione dei vuoti affettivi”.
La prospettiva futura che, a causa dell’invecchiamento costante della popolazione, la società dovrà farsi carico di un sempre maggior numero di interventi sanitari, fa meglio intendere l’opportunità che tale metodica si trasformi in un solido strumento in aiuto della collettività.
Il Progetto Normativo, costituito da un unico articolo, dopo aver illustrato le finalità della legge, assegna al Ministero della Sanità il compito di definire, con decreto, l’ambito e le modalità di applicazione dell’utilizzo degli animali a fini terapeutici, nonché i programmi di ricerca e sperimentazione, previa assegnazione di contributi ad hoc.
Nel 2003, con un decreto legislativo del 6 febbraio, è stata riconosciuta ufficialmente la cosiddetta ‘Pet Therapy’, all’interno del Servizio Sanitario Nazionale.
Tale decreto non rappresenta solo un importante riconoscimento del valore terapeutico dell’animale, peraltro già noto da tempo, all’interno di programmi ben definiti, ma abbatte anche numerosi vincoli pratici e pregiudizi, che impedivano il loro accesso in ospedali, istituti e case di riposo.
La seconda proposta legislativa per promuovere “il contatto” uomo-animale a fini terapeutici, presa in esame a Montecitorio il 3 Aprile 2003 è stata quella presentata da Alleanza Nazionale –prima firmataria Carla Castellani- sottoscritta anche da deputati di Forza Italia e Udc .
Secondo tale proposta la Pet Therapy dovrebbe essere riconosciuta come strumento terapeutico di supporto in una pluralità di patologie, attraverso un approccio multidisciplinare, con il coinvolgimento di diverse professionalità: il medico veterinario, lo psicologo, il medico clinico, il biologo, il geriatra, il pediatra.
Mentre la proposta di Ruzzante demanda al Ministro della Salute, sia la definizione dell'ambito e delle modalità di utilizzo degli animali a fini terapeutici, sia l'autorizzazione di programmi di ricerca e sperimentazione, la proposta della Castellani prevede l’istituzione di una Commissione Nazionale composta da diverse figure professionali- atta a provvedere e definire i criteri, le condizioni, i requisiti in base ai quali le esperienze di AAA e TAA realizzate possano essere ammesse ad essere valutate per l’individuazione di procedure standard, di un protocollo di intervento validato e standardizzato.
Tale proposta legislativa, inoltre, entra ancor più nel merito, distinguendo le Attività Assistite dagli Animali (AAA) dalle Terapie Assistite dagli animali (TAA):
Le AAA sono definite come interventi di tipo educativo/ricreativo e ludico, “aventi l’obiettivo di migliorare la qualità della vita delle persone e realizzate da professionisti o volontari opportunamente formati, con l’aiuto di animali in possesso di determinate caratteristiche (…).
“Le TAA sono interventi - di carattere sanitario/terapeutico - finalizzati al miglioramento di alterazioni e disturbi fisici, della sfera emotiva o cognitiva, conseguenze di patologie e di malesseri emozionali e psicologici, praticate esclusivamente da medici professionisti con comprovata esperienza, con l'aiuto di animali specificamente educati o addestrati, nell'ambito di sedute terapeutiche, individuali o di gruppo, di volta in volta documentate e valutate.”
Nella proposta di legge, infine, si prevede che le Attività e le Terapie Assistite dagli Animali possano essere praticate presso ospedali, centri di riabilitazione, case di riposo, asili nido e scuole di ogni ordine e grado, istituti di detenzione, comunità per il recupero di tossicodipendenti, o in altre strutture ritenute idonee.
Altra proposta di Legge è stata presentata il 12 Maggio 2003 ad opera del deputato Zanella.
Un ulteriore riconoscimento della Pet Therapy giunge con il Decreto del Presidente del Consiglio del 28 Febbraio 2003, che recepisce l’accordo tra il Ministero della Salute, le Regioni e le Province Autonome, in materia di benessere degli animali da compagnia e Pet Therapy. L’accordo inserisce gli animali da utilizzare per la Pet Therapy tra gli “animali da compagnia”; stabilisce che l’addestramento di animali da compagnia per disabili o per la Pet Therapy debba essere effettuato solo da parte di persone con competenze specifiche; prevede che le Regioni e le Province Autonome valutino l’adozione di iniziative, finalizzate ad agevolare il mantenimento del contatto delle persone con animali da compagnia, tanto di proprietà quanto utilizzabili per la Pet Therapy.
Da queste 3 proposte nasce il “Testo unificato” di Mancuso finalizzato alla “disciplina delle Attività e delle Terapie Assistite dagli animali”.
Nell’articolo 1 viene sottolineata l’utilità sociale della Pet Therapy nonché la “sua validità come possibile metodo di cura in sinergia con le terapie tradizionali, riconoscendo loro dignità scientifica e procedurale” e viene promossa la progettazione e la realizzazione presso strutture sanitarie di questo tipo di interventi, sempre tenendo presente il benessere dell’animale impiegato.
Nell’articolo 2 vengono definite le peculiarità e le differenze relative alle Attività e alle Terapie con gli animali.
Nell’articolo 3 oltre ad essere specificate le cure, i controlli e le selezioni a cui devono essere sottoposti gli animali impiegati in AAA/TAA, viene vietata l’uso, per la prima volta, di animali selvatici, esotici e di cuccioli.
Nell’articolo 4 viene definita in maniera molto dettagliata la composizione della Commissione Nazionale per le AAA/TAA che deve essere costituita da diverse figure professionali.
Nell’articolo 5, infine, vengono descritte le norme attuative per:
-la progettazione, valutazione, svolgimento delle AAA/TAA
- i programmi di ricerca e le modalità di divulgazione dei dati emersi da tutte le esperienze svolte a livello nazionale al fine di realizzare protocolli terapeutici ottimali relativi alle specifiche situazioni.
- la costituzione di corsi di formazione per operatori e per la preparazione degli animali da impiegare nelle AAA/TAA.
L’attenzione prestata a livello legislativo conferisce finalmente anche in Italia alla Pet Therapy dignità scientifica e procedurale.
Il tentativo di regolamentare a livello nazionale i programmi di AAA/TAA, inoltre, svincola l’erogazione di tale forma di Servizio dall’anonimato e dal “fai da te”, che per molto tempo ha caratterizzato la natura delle attività svolte, contribuendo spesso a sminuirne l’autentico valore.
PARTE SECONDA:
Il co-terapeuta
PERCHE’ IL CANE COME CO-TERAPEUTA?
La dicitura inglese “Pet Therapy” fa riferimento al benessere tratto da quanti possono condividere dei momenti di vicinanza e contatto con un animale da compagnia.
La parola “pet” fa esplicito riferimento ad animali domestici: cani, gatti, conigli, piccoli roditori come i criceti, le cavie ed i topolini, gli uccelli da voliera come canarini e pappagalli, pesci e tartarughe sono tra le specie più rappresentate.
Si parla genericamente di “Pet Therapy” anche nel caso di terapie condotte con delfini e cavalli, non propriamente considerabili “animali domestici” nel senso stretto dell’espressione, ma comunque ampiamente diffuse e dalla comprovata efficacia (vedi il paragrafo dedicato all’argomento).
Tra le specie sopra elencate è possibile individuare delle caratteristiche che differenziano gli animali tra loro, ad esempio il diverso livello di socievolezza (affettuosità, possibilità di interazione e scambio, affidabilità), i differenti costi di acquisto e gestione, la possibilità o meno di creare una vicinanza ed un contatto fisico, il diverso livello di rischio nel contatto, diverso grado di addestrabilità.
La scelta del co-terapeuta può quindi avvenire in funzione, oltre che per il grado di interesse che ognuno di loro è in grado di suscitare nelle persone, per gli obiettivi che ci si prefigge con le sedute. Dunque, quali sono le motivazioni che possono portare a scegliere un cane come co-terapeuta e quali sono le caratteristiche che il cane deve possedere?
Va innanzitutto detto che, grazie alla selezione e all’addomesticamento che l’uomo ha indotto nel cane, il comportamento relazionale di quest’ultimo è diventato sempre più compatibile con quello umano. E’ interessante a questo proposito la descrizione di questo progressivo avvicinamento fatta da Konrad Lorenz nel suo libro “E l’uomo incontrò il cane”.
Il cane vive sempre più a stretto contatto col nucleo familiare che lo ospita, essendo da molti riconosciuto a tutti gli effetti come un componente della famiglia.
Oltre a far parte di questo “gruppo primario”, è in grado di crearsi, proprio come gli uomini, un “gruppo secondario” o gruppo amicale, costituito da simili che incontra, ad esempio, presso il parco cittadino dove viene portato quotidianamente, o da altri uomini che orbitano intorno all’abitazione dei proprietari o altri luoghi solitamente frequentati.
Questa caratteristica è di fondamentale importanza all’interno delle terapie e delle attività assistite, poiché spiega il tipo di legame che può instaurarsi tra il cane e l’assistito. Nel caso in cui la frequenza tra il cane ed il paziente diventi regolare, il cane include la persona nel suo “gruppo secondario”, dimostrando ad ogni incontro di riconoscerlo e di essere contento di vederlo, rinforzando di volta in volta il legame creato.
E’ possibile immaginare il grande valore di questa risorsa spontanea e naturale per una persona particolarmente compromessa nella sfera relazionale, se viene oltrepassata la barriera creata dalla diffidenza e dalle paure.
Il cane è in grado di riconoscere nella persona la ricchezza interiore, la sensibilità, il desiderio di entrare nella relazione, stuzzicando queste risorse con la sua allegria e spensieratezza. In lui non vi sono barriere dettate dal riconoscere nell’altro una diversità.
La facilità con cui esprime emozioni, che sono facilmente codificabili, ed esorta l’altro a farlo, rappresenta un efficace strumento terapeutico per quelle persone che sono particolarmente inibite nel manifestare il sentimento provato in quel momento.
Nella vita di un cane, proprio come accade per le persone, sono fondamentali per il suo equilibrio le prime esperienze di vita.
Per il cucciolo che si intende quindi avviare all’esperienza di “Pet Therapy” è fondamentale che fin da piccolo (massimo tre mesi) venga curata la sua salute ed il suo equilibrio, nel senso di evitare traumi che potrebbero condizionare le sue risposte comportamentali e venga abituato all’interazione con l’uomo.
Il cane deve mantenersi stabile nelle sue reazioni alla presenza di uomini, donne e bambini, come anche nelle diverse condizioni ambientali (luoghi rumorosi, affollati, ricchi di stimoli sensoriali). Perché questo sia possibile non deve aver subito traumi nell’arco della sua crescita e potrà quindi sviluppare una personalità equilibrata con una spiccata sensibilità verso il prossimo.
Il buon cane da Pet Therapy deve possedere delle predisposizioni comportamentali che i coniugi Hart avevano descritto nel 1988 nel loro libro The perfect puppy. Esse sono riassumibili in tre condotte di massima:
· reattività: conteneva le variabili eccitabilità, livello di attività generale, latrato eccessivo, richiesta di affetto;
· aggressività: territorialità, latrato di avvertimento, dominanza, controdipendenza al padrone, mordacità verso i simili o umani;
· addestrabilità: facilità di sottomissione passiva, tendenza all’obbedienza, facilità di addestramento.
Incrociando questi tre fattori, con riferimento specifico alle razze canine note, sono stati individuati come cani prediletti alle finalità terapeutico-riabilitative, quelli con bassa reattività, bassa aggressività, alta addestrabilità, ovvero i Golden Retriever, Labrador Retriever, Chesapeak Retriever, Flat Coated Retriever, Visla, Spaniel Inglese, Kurzar, Terranova, Keeshound, Collie, Pastore Australiano.
Infine, è sempre bene tener presente che preparare un cane per lo svolgimento di attività con l’uomo a fine terapeutico, vuol anche dire tenere costantemente sotto controllo il suo benessere psico-fisico. Nel corso della sua vita, infatti, il cane può andare incontro a stress o vere e proprie patologie, che possono essere pericolose tanto per lui quanto per chi gli è accanto, poiché trasmissibili all’uomo o in grado di alterare l’equilibrio del cane, e quindi le sue risposte sul piano comportamentale.
DUE AMBITI A SE’: L’IPPOTERAPIA E LA DELFINOTERAPIA, esperienze in Italia.
L’Ippoterapia
L’Ippoterapia o Riabilitazione Equestre (R.E.) è un complesso metodo terapeutico, globale ed analitico, rivolto ai portatori di handicap sia fisici che mentali, che si prefigge di potenziare e sviluppare in essi attitudini e performances, tali da migliorare la condizione generale, per il raggiungimento di una sempre maggiore autonomia.
In quanto metodo globale, la Riabilitazione Equestre sollecita la partecipazione di tutto l’organismo, sia dal punto di vista neuro-motorio e sensoriale, sia da quello affettivo-relazionale e cognitivo.
La R.E., inoltre, è un metodo analitico poiché il terapista redige e svolge un programma riabilitativo individualizzato, a fronte dei diversi aspetti e problematiche rilevate che la patologia di ogni singolo individuo presenta.
Considerando le sue caratteristiche generali l’Ippoterapia è dunque simile alle più tradizionali tecniche riabilitative, ma la sua importanza è determinata principalmente da due ordini di fattori, che costituiscono altresì i suoi aspetti “distintivi”.
Il primo fattore è dettato dal fatto che la R.E. è un metodo terapeutico caratterizzato dall’interazione di ben tre soggetti: l’utente, il terapista ed il cavallo. Quest’ultimo, quindi, è il vero e proprio ”strumento terapeutico”, fulcro dell’attività, che ha la capacità di interagire in quanto essere vivente e che, per sua natura, rappresenta un “catalizzatore” dell’attenzione degli utenti, grazie al fascino e all’attrazione che le sue stesse caratteristiche corporee esercitano: l’imponenza, l’eleganza dei movimenti, la morbidezza del suo pelo, il calore che emana, l’espressività dei suoi occhi sono tutti elementi che trasmettono sensazioni spesso nuove e piacevoli per gli utenti. Il contatto diretto con il cavalo, inoltre, “obbliga” in genere ad un approccio attento, autentico, che accosta parti profonde ambivalenti, inespresse dell’essere umano e delle sue risorse adattive con una realtà naturale, a sua volta reattiva, complessa e viva.
In secondo luogo la R.E. si distingue per il fatto che non si svolge in un ambiente ospedalizzato, in presenza di “camici bianchi”, ma bensì in un contesto naturalistico, dove tutto è più accogliente, sereno, rassicurante e stimolante, dove l’avvicinamento all’animale è l’elemento primario.
L’effetto terapeutico della R.E., quindi, si basa soprattutto sul particolare rapporto dialettico che si instaura tra l’utente ed il cavallo, fondato su un linguaggio prettamente motorio, ricco di sensazioni piacevoli e rassicuranti estremamente coinvolgenti sotto il profilo emotivo.
E’ opportuno però che l’Ippoterapia sia programmata ed inserita all’interno di un più ampio progetto riabilitativo, in sintonia e collaborazione con tutte le altre agenzie educative e terapeutiche (famiglia, scuola, medici, operatori socio-assistenziali, ecc.), al fine di convogliare tutti gli interventi verso il raggiungimento di obiettivi comuni.
Il cavallo è stato impiegato in medicina sino dall’antichità, infatti la prima utilizzazione del cavallo a scopo terapeutico viene attribuita ad Ippocrate che, tra il IV e il V secolo a.C., pare lo consigliasse ai suoi pazienti per la cura dell’insonnia.
In tempi moderni, lo studio di questa particolare metodologia viene riproposta in termini scientifici negli anni ’60 ed attuata soprattutto nei paesi a più alta tradizione equestre, come Gran Bretagna, Belgio, Germania, Francia, Stati Uniti, e Nuova Zelanda.
Attualmente la R.E. è praticata in almeno 26 paesi del mondo.
In Italia si è diffusa negli anni ’70 ed oggi esistono diverse realtà operative con notevole impegno anche sotto il profilo metodologico e scientifico, anche se, escludendo il centro “Vittorio di Capua” di Milano, dove si opera all’interno di una struttura ospedaliera, la realtà in Italia è ancorea molto pionieristica.
L’attività, infatti, viene svolta da privati o da piccole equipe i quali, appoggiandosi a Centri Ippici dove, affittando cavalli e strutture sostengono costi di gestione molto onerosi, rinunciando oltretutto ad avere l’appoggio di idonei locali di accoglienza e alla possibilità di integrare la seduta a cavallo con laboratori di altro tipo come la rielaborazione verbale o grafica del vissuto, musicoterapia, psicomotricità, ecc.
Il terapista della riabilitazione equestre
Al contrario delle diverse realtà europee, dove la R.E. è da anni riconosciuta, normata ed applicata in strutture pubbliche e la formazione degli addetti affidata a scuole di specializzazione universitarie, in Italia non esiste una legge che inquadra la riabilitazione equestre e la figura del riabilitatore, né tanto meno è stato creato un albo professionale che tutela la figura professionale dell’ ”ippoterapista”.
L’assenza giuridica di tale figura si contraddice peraltro quando permette ad ogni professionista di impiegare nel proprio settore di competenza gli strumenti che identificano l’operatore come idoneo all’obiettivo terapeutico.
In altre parole in Italia può essere “terapista della riabilitazione equestre” solo chi è già in possesso di un titolo abilitante per legge ad operare con e per i disabili: medici, psicoterapeuti, terapisti della riabilitazione, psicomotricisti, psicologi, pedagogisti, educatori. Ognuno di loro è abilitato a progettare un intervento, proponendo gli obiettivi individuati tra quelli propri della professione, la metodologia con la quale intende perseguirlo e lo strumento adottato, ma solo un lavoro di èquipe è in grado di assicurare un intervento globale alla persona in difficoltà. Ovviamente sia l’èquipe medica chiamata a fare una diagnosi funzionale che gli operatori al lavoro direttamente sul campo dovranno avere anche una solida preparazione equestre da intendere non solo come pratica sportiva, ma una sicura manualità nel gestire l’animale così da essere in grado di sfruttare a pieno le potenzialità dello strumento “cavallo” e di dare la necessaria garanzia di lavorare in piena sicurezza.
Per chi è in possesso dei requisiti legali sopraccitati, esistono in Italia dei corsi che sono quindi da intendersi come “perfezionamento” alla pratica della riabilitazione equestre. In particolare sono tre le realtà strutturate esistenti sul territorio che operano nel settore della formazione:
· A.N.I.R.E. (Associazione Nazionale Italiana Rieducazione Equestre). Essa ha sede a Milano e vanta il merito di aver per prima promosso l’attività in Italia sin dagli anni ’70. Organizzano annualmente corsi teorico-pratici della durata di 4-5 settimane, in collaborazione con la Caserma Santa Barbara di Milano, che fornisce il supporto logistico per lo svolgimento della parte operativo-pratica del corso.
· Centro “Vittorio di Capua” presso l’Ospedale Niguarda di Milano: da anni la R.E. è applicata ai pazienti dell’ospedale in un padiglione interno alla struttura ospedaliera da personale specializzato e dipendente direttamente dall’ente. Ogni anno organizzano un corso teorico pratico di due settimane, al termine del quale si deve sostenere un esame finale che consiste in una tesi ed una prova teorico-pratica.
· Associazione “Lapo” e l’Università degli Studi di Firenze (Cattedra di Neuropsichiatria Infantile): fin dal 1995 hanno istituito il primo “Corso Universitario di Riabilitazione Equestre” della durata annuale, per complessive 700 ore, suddivise tra pratica e teoria.
A chi si rivolge la Riabilitazione Equestre
La Riabilitazione Equestre può essere utilizzata sia per soggetti con deficit motorio o neuromotorio, sia per coloro che presentano patologie di tipo psichico e psichiatrico.
Sul piano motorio e neuromotorio la R.E. è indicata ai portatori di:
-sintomi da lesioni cerebrali: paralisi cerebrali, centrali o periferiche (encefalopatia, emiplegia, poliomielite, ecc.) con disturbi del movimento e con carenze degli automatismi fondamentali;
-sindromi provocate da lesioni neuromuscolari congenite (es. spina bifida), traumatiche o post-operatorie, associate a dimorfismi;
-sclerosi a placche (nelle fasi di quiescenza);
-postumi articolari ed ossei o da amputazione;
-lesioni sensoriali, parziali o totali (non vedenti, sordomuti, con disturbi dell’equilibrio, ecc.);
-spastici;
-cardiopatici;
-affetti da insufficienza respiratoria.
Sul piano psichico e psichiatrico, invece, la R.E. è consigliata a:
-insufficienti mentali;
-soggetti affetti da disturbi psicomotori e della struttura temporo-spaziale;
-soggetti con problemi di inibizione e\o di apprensione;
-psicotici e schizofrenici;
-soggetti socialmente disadattati;
-soggetti affetti da sindrome di Down (con alcune eccezioni).
Per quanto riguarda le controindicazioni, la R.E. è assolutamente sconsigliata ai soggetti sofferenti di ernia del disco, scoliosi evolutive, di malattie midollari, con alterazioni della sensibilità agli arti inferiori ed alla regione gluteo-perineale. Inoltre si escludono dalla R.E. tutte le affezioni che riguardano la colonna vertebrale, in quanto verrebbero sollecitati eccessivamente i dischi della stessa. La R.E. è anche da evitare durante tutti i periodi acuti (sclerosi multipla, crisi reumatiche, lombalgie, ecc.) e in tutte quelle situazioni in cui la fatica fisica o psicologica e la paura siano preponderanti rispetto agli obiettivi che si vogliono raggiungere con il soggetto. E’ comunque sempre necessario valutare attentamente ogni singolo caso insieme ai medici di riferimento di ciascun soggetto, che forniranno una diagnosi precisa, un certificato medico specifico e delle opportune indicazioni personalizzate.
Finalità ed obiettivi della R.E.
Si è detto che l’Ippoterapia è un metodo terapeutico rivolto ai portatori di handicap sia fisici che mentali; analizziamo quindi quali effetti la R.E. può indurre sugli utenti, a seconda delle diverse patologie trattate, a livello neuro-motorio, neuro-psicologico, affettivo-relazionale e cognitivo.
A livello puramente fisico la R.E. esercita influenze e sollecitazioni notevoli sull’utente, per il ripristino delle diverse funzioni neuro-muscolari, quali:
- la motilità globale: l’esercizio muscolare che viene richiesto al cavaliere durante le sedute di Ippoterapia, per restare in sella, è notevole. Il movimento del cavallo sollecita il lavoro di molti muscoli, in maniera del tutto simmetrica, senza alcuna predominanza laterale, favorendo uno sviluppo globale ed armonioso; mediante esercizi svolti in sella si cercherà di favorire un rafforzamento di tutti i muscoli;
- l’equilibrio: nei soggetti in sella i gruppi muscolari del tronco sono costantemente oggetto di sollecitazioni, provocate dai cambiamenti di andatura e di direzione, dalle partenze e dalle fermate del cavallo; tali muscoli reagiscono in modo automatico, venendo a costituire un aiuto “antigravitario”, che consente al soggetto di mantenersi in equilibrio sul cavallo. Il senso dell’equilibrio che il cavaliere acquisisce gradualmente contribuisce a fargli prendere coscienza del proprio corpo e delle sue possibilità, contribuendo ad innalzare il proprio livello di autostima;
- la coordinazione: la R.E. porta ad una coordinazione dinamica globale, in quanto la conduzione autonoma di un cavallo esige l’uso coordinato di un insieme di movimenti;
- la dissociazione: ogni movimento che non sia essenziale e volontario per l’atto che si vuole compiere è un fattore di disturbo, controproducente rispetto all’efficacia del gesto desiderato e rappresenta solo una perdita superflua di energia. E’ consueto trovare nei portatori di handicap questo tipo di movimenti involontari e non finalizzati.
La R.E. può intervenire anche a questo livello, attraverso tutta una serie di esercizi mirati a far acquisire il dominio delle proprie capacità neuromuscolari e il loro uso volontario e separato.
- L’aggiustamento del tono: in R.E. l’aggiustamento del tono muscolare viene ad essere una spontanea e naturale risposta alle andature del cavallo e a tutti quegli esercizi che vengono svolti in sella, che concorrono allo sviluppo armonico e dissociato dei muscoli di tutto il corpo.
A livello neuro-psicologico la R.E. può essere utilizzata sfruttando le azioni del cavallo ed il comportamento intenzionale del soggetto per:
· attivare reazioni di orientamento,
· migliorare i tempi di reazione,
· aumentare la capacità di autocontrollo,
· diminuire gli atteggiamenti stereotipati.
Durante le sedute di Ippoterapia si stabiliscono relazioni significative tra i soggetti coinvolti, poiché la persona instaura dei rapporti sia con il cavallo, sia con il terapista, il quale, a livello affettivo-relazionale sollecita:
· reazioni affettive ed emotive,
· l’allargamento dell’ambito relazionale e sociale,
· il potenziamento dell’autostima,
· l’acquisizione del rispetto degli altri.
A livello cognitivo, il terapista della R.E. sollecita costantemente ed intensamente il soggetto affinché:
· aumenti la soglia di attenzione e concentrazione,
· sviluppi la capacità di memorizzazione,
· potenzi la comprensione delle conseguenze,
· migliori l’abilità esecutiva,
· acquisisca la discriminazione temporo-spaziale.
Il metodo di lavoro
Prima della presa in carico definitiva dell’utente si stabiliscono generalmente 2-3 sedute di osservazione, durante le quali si verificheranno una serie di parametri per individuare:
-l’area di intervento primaria,
-obiettivi a medio e lungo termine.
Sarà cura del terapista compilare la scheda di osservazione al fine di poter preparare un progetto che sarà discusso all’interno dell’équipe di appartenenza dell’utente. Il progetto deve infatti tener conto di quello educativo già in corso e di eventuali altri interventi già in essere (terapie psicomotorie, logopediche, fisioterapiche, ecc.) al fine di non interferire e di rendere il più omogeneo possibile il lavoro comune.
Prima dell’inizio del ciclo, sulla base della diagnosi e delle indicazioni medico-terapeutiche acquisite per ciascun soggetto, verranno stabiliti:
1. gli obiettivi, la metodologia e le tecniche da adottare;
2. i tempi di ciascuna seduta (normalmente di circa 30 minuti), la frequenza e la durata del ciclo (solitamente minimo un ciclo di 6 mesi);
3. il tipo di cavallo più idoneo da impiegare ed il tipo di selleria da utilizzare (sella, sella profonda, fascione, ecc.).
Durante il ciclo di sedute il terapista effettuerà verifiche periodiche sull’andamento della terapia, confrontando costantemente le reazioni del soggetto con gli obiettivi stabiliti inizialmente, e, nel caso, ricalibrando l’intervento. Al termine del ciclo, invece, il terapista compilerà una relazione finale, nella quale riporterà tutte le osservazioni, le considerazioni ed i risultati ottenuti.
Si è sottolineato il fatto che in Ippoterapia il cavallo svolge il ruolo di “strumento terapeutico”, ed è quindi considerato una “macchina cinetica” perfetta che serve, se correttamente modulata, a impartire stimoli corretti al cavaliere; ne consegue che occorre che il cavallo possegga determinate e specifiche caratteristiche che in sintesi verranno qui di seguito citate.
La scelta del cavallo idoneo alla R.E. viene fatta oltre che sulle caratteristiche morfologiche, anche su quelle comportamentali.
Le caratteristiche generali che un cavallo deve possedere per essere considerato idoneo allo svolgimento della R.E. sono le seguenti.
A livello morfologico:
· età tra gli otto ed i quindici anni;
· meglio maschi castroni perché sono immuni da influenze ormonali che nelle femmine, nella stagione della riproduzione, inducono comportamenti poco auspicabili;
· altezza al garrese consigliabile sui 150 cm;
· non è necessario che si tratti di una razza particolare, poiché non esiste la razza ideale per questa finalità;
· assenza di patologie deficitarie, poiché occorre che il cavallo sia sano e che non presenti alcun problema cardiaco, polmonare, articolare, e muscolare;
· andature simmetriche, toniche e regolari.
A livello comportamentale:
· è preferibile un cavallo con un’emotività controllata, non deve essere ipersensibile agli stimoli uditivi e\o visivi poiché potrebbe provocargli reazioni di paura e di conseguenza fuga o inibizione nel comportamento tanto del cavallo che del cavaliere;
· di carattere tranquillo, dimostrato durante l’avvicinamento dell’uomo dalla presenza di sereni movimenti auricolari, della testa e dell’occhio;
· assenza di tic, di vizi e di comportamento imprevedibile, anche in presenza di altri animali;
· generosità nel lavoro particolarmente noioso e ripetitivo, oltre che faticoso;
· obbediente e sollecito nel rispondere alla variazione dei diversi comandi di cavaliere e terapista.
La Delfinoterapia.
Una forma molto particolare di terapia assistita da animali, attualmente praticata soprattutto negli Stati Uniti ed in Australia, è la “Delfinoterapia”.
E’ l’unico caso in cui venga utilizzato il contatto con animali selvatici, i delfini, sia in cattività che allo stato libero.
Il delfino ha sempre esercitato un forte fascino sull’uomo per i suoi comportamenti giocosi, per il suo aspetto “sorridente”, per la curiosità e l’attrazione che egli stesso sembra provare per l’uomo.
E’ protagonista di diverse storie e leggende dell’antichità, tanto che anche l’iconografia cristiana ha fin dai primi tempi utilizzato l’immagine del delfino per rappresentare Gesù.
Già da alcuni anni la medicina ha rivolto il suo interesse al delfino come animale da impiegare nella cura di alcuni disturbi dell’uomo. Secondo i sostenitori della terapia con i delfini, l’interazione con questi mammiferi marini sarebbe in grado di stimolare l’attenzione di bambini ed adulti con turbe dell’apprendimento, dell’affettività, del comportamento sociale, ma anche della coordinazione muscolare e del linguaggio.
Pertanto la Delfinoterapia si presenta fondamentalmente come un programma di “motivazione” e di aumento della fiducia, sebbene i suoi scopi specifici comprendano la capacità di parlare, lo sviluppo motorio, la capacità di memorizzare e di elaborare un concetto.
Il programma serve cioè come stimolo, ma anche come complemento e rinforzo di altre terapie impiegate tradizionalmente con i bambini Down, autistici, con ritardo mentale e nelle persone depresse.
I delfini sembrano dunque possedere un notevole effetto curativo sulla psiche umana. Questo effetto è stato sottoposto a verifica e messo a frutto per scopi scientifici da tre studiosi a livello internazionale: Betsy Smith e David Nathanson in Florida, Horace Dobbs in Inghilterra.
Betsy Smith, docente presso la Florida International University di Miami, iniziò nel 1978 il primo di molti progetti di ricerca sugli effetti dei contatti tra delfini e bambini autistici. L’esito dei suoi studi fu sorprendente, poiché non solo rilevò i benefici che questi apportavano ai bambini, rendendoli più calmi, capaci di concentrarsi e di partecipare alle attività, ma migliorava anche la loro vita sociale e familiare.
David Nathanson, psicologo e docente presso la stessa Università, iniziò poco dopo presso il Dolphin Research Center di Grassy Key, alcune sperimentazioni con bambini Down o sofferenti di ritardi dell’apprendimento. Il contatto con i delfini era da lui utilizzato come ricompensa per l’apprendimento di nuove parole o frasi. Anche in questo caso i bambini miglioravano significativamente quanto a capacità di apprendimento e continuità di attenzione.
Intorno alla metà degli anni ’80 in Inghilterra, il dottor Horace Dobbs dava il via ad un altro importante esperimento, questa volta dedicato all’interazione tra delfini e individui adulti.
Tre persone sofferenti di gravi forme di depressione, furono condotte in mare aperto per entrare in contatto con un delfino di nome Dorad, che da tempo si era avvicinato alle coste dell’Irlanda, mostrando un giocoso interesse per gli esseri umani che nuotavano nei paraggi. Anche in questo casi gli incontri ebbero un impatto positivo, che andava da un miglioramento fino ad una totale remissione della sintomatologia.
Anche l’Italia dal canto suo ha avviato dei programmi di ricerca e sperimentazione sul contatto tra uomo e delfino. Tra questi l’associazione Arion di Roma, appoggiandosi al delfinario di Rimini, ne ha sviluppato uno.
Il programma si struttura su due direttrici fondamentali:
· verificare l’efficacia terapeutica dell’incontro con i delfini sulla psiche di persone sofferenti di depressione,
· valutare gli effetti psicologici di incontri organizzati a scopo educativo o ricreativo.
Per quanto interessanti ed incoraggianti, i risultati non possono però indurre ad attribuire una specifica efficacia terapeutica all’incontro con i delfini in quanto tale, ma certo fanno ritenere che si tratti di un’esperienza che può contribuire al benessere psichico.
L’efficacia della Delfinoterapia si basa però anche su un altro importante elemento: l’acqua.
Per entrare in contatto con un delfino è necessario ed inevitabile immergersi in acqua con lui. L’acqua è un efficace mezzo per ridurre lo stress e per aumentare la prontezza di apprendimento.
Secondo Smith (1985) l’immersione in acqua agirebbe anche attraverso un effetto di “feed-back cinestetico”, per cui il paziente riceve una sensazione di ritorno in risposta al suo movimento nel fluido, pertanto può elaborarlo più facilmente. Inoltre l’acqua trasmette il suono e le vibrazioni meglio dell’aria ed in più permette una decontrazione muscolare simile a quella del feto nel ventre materno. I benefici dell’immersione sono pertanto sia fisici che mentali.
Recupero degli schemi di percezione motoria, cognitiva e sensoriale, oltre a diminuzione dello stress, sono stati ottenuti in pazienti con lesioni cerebrali e spinali, durante un programma terapeutico in acqua.
L’acqua oppone una resistenza ai movimenti circa 12 volte maggiore di quella dell’aria, per cui muoversi in essa rende i movimenti più lenti e difficoltosi da eseguire, di conseguenza occorre un impegno di forza fisica maggiore. Il movimento in acqua, inoltre, determina un uso equilibrato e simmetrico dei muscoli agonisti ed antagonisti.
Tutto ciò giustifica e consiglia un trattamento in acqua dei pazienti con difficoltà a livello di coordinazione muscolare. Non va poi dimenticato l’effetto ludico e rilassante dell’ambiente “acqua”. De Giorgi et al. (1995), in uno studio sulla ginnastica in acqua e sulle indicazioni nella riabilitazione fisica, affermano: “il massaggio dell’acqua sul corpo è quasi una carezza morbida e piacevole. La ginnastica in acqua consente di sentire il corpo, di utilizzarlo nel modo migliore e di risvegliare sensazioni di settori che non abbiamo più l’abitudine di percepire e di utilizzare, recuperando l’elasticità ed affinando la propria capacità percettiva”.
Levine (1984) riferisce, inoltre, di benefici dell’idroterapia sulla sfera mentale, nell’ansia e nella depressione.
Pur riconoscendo gli innumerevoli pregi di una terapia in acqua, Nathanson ritiene che l’acqua non sia l’elemento principale del successo della Delfinoterapia ne che costituisca un supplemento terapeutico. Infatti, attraverso un ulteriore approfondimento delle sue ricerche su bambini con ritardo mentale, ha dimostrato una maggiore efficacia della terapia in acqua assistita dai delfini rispetto ad una terapia in acqua, nelle stesse condizioni della precedente, ma dove i delfini erano sostituiti dai giocattoli preferiti dai bambini (Nathanson e de Faria, 1993).
Nathanson ritiene pertanto che le funzioni cognitive – come la verbalizzazione e la memoria del bambino con ritardo mentale – possano venire significativamente stimolate ponendo il soggetto direttamente in acqua mentre il delfino coopera per completare il programma di apprendimento (Nathanson, 1994).
PARTE TERZA:
Progetto di Ricerca
IL PAZIENTE PSICOTICO.
L’immagine repentinamente evocata allorché si fa riferimento al paziente schizofrenico è di una persona seriamente compromessa sotto l’aspetto funzionale.
E’ il “matto” classicamente inteso, la persona che commette gesti incomprensibili secondo la valutazione di uno spettatore “sano” e dice cose che non seguono una logica ed una coerenza.
Effettivamente l’etichetta “schizofrenia” è applicabile ad un gruppo di disturbi mentali piuttosto gravi e di diversa configurazione sintomatologica, appartenenti all’area delle psicosi. Ciò che li accomuna è il cuore della patologia in questione: la scissione dei processi associativi per cui le funzioni psichiche operano separatamente l’una dall’altra (concetto di Spaltung). Questa condizione porta alla completa disintegrazione della vita mentale (concetto di Zerspaltung).
Colui che per primo individuò condizioni cliniche affini per decorso e conseguenza di un processo morboso organico cerebrale dall’origine sconosciuta, fu Emil Kraepelin.
Diede il nome di Dementia Praecox a questo insieme di sintomi, riconoscendone, quali caratteristiche peculiari, l’esordio in pazienti di giovane età ed il decorso sfavorevole, poiché la personalità dell’individuo sembrava andare incontro ad un progressivo ed irreversibile deterioramento delle funzioni psichiche (motivo per cui venne identificata come demenza).
Il definire e circoscrivere i sintomi all’interno di una specifica categoria nosologica, permise di differenziarla dall’attuale disturbo bipolare, allora riconosciuto come psicosi affettiva circolare.
Fu Eugen Bleuer nel 1911 ad introdurre l’odierno termine “schizofrenia”, che traendo origine dalla lingua greca metteva insieme il concetto del dividere, separare (schizein) e la mente (phren).
Così definiva Bleuer la schizofrenia nella sua opera del 1911 intitolata Dementia praecox oder Gruppe der Schizophrenien:
“Con il nome di Dementia Praecox o schizofrenia indichiamo un gruppo di psicosi dal corso ora cronico ora a poussées, le quali ad ogni stadio possono arrestarsi o regredire, ma non consentono mai una retitutio ad integrum. Il gruppo nosologico è caratterizzato da un’alterazione specifica del pensiero, del sentimento e del rapporto col mondo esterno, non riscontrabile altrove.” Bleuer, 1911, trad. it.1985, p.31.
Il pensiero di Bleuer segnò quindi una vera e propria svolta, passando dalla concezione della malattia di Kraepelin che la vedeva a decorso cronico, verso un criterio psicopatologico che ne considera elemento centrale l’attacco alle funzioni psichiche e la loro conseguente dissociazione.
La teoria esposta da Bleuer ha segnato la storia della schizofrenia, al punto che ancora oggi risulta valida l’impostazione che ne ha dato.
Nonostante però le innumerevoli ricerche dedicate a questo disturbo mentale, sono ancora molti i lati oscuri.
L’eziopatogenesi della schizofrenia è ancora incerta, motivo per cui, piuttosto che parlare di “cause” all’origine della malattia, si preferisce parlare di “fattori di rischio”.
Alcune ricerche sembrerebbero avvalorare l’ipotesi di una origine genetica della malattia. Avere un genitore con diagnosi di schizofrenia, sembra faccia salire la possibilità di manifestarne la sintomatologia dall’1% (rischio per la popolazione generale) al 4-5%, fino ad arrivare al 7-8% di possibilità se ad essere ammalato di schizofrenia è un fratello. Avere entrambi i genitori ammalati comporta un’innalzamento delle probabilità al 30%, mentre la concordanza tra gemelli monozigoti è del 50%. In ogni caso, le modalità di trasmissione della patologia mentale non sembrerebbero seguire le leggi mendelliane. A spiegare percentuali piuttosto elevate rispetto ad una possibile trasmissione genetica della predisposizione a diventare schizofrenici vi sarebbe un’ipotesi poligenica. I geni coinvolti sarebbero più d’uno e porterebbero a codificare nell’individuo una sorta di vulnerabilità alla malattia. Altri fattori eziologici concorrerebbero alla sua espressione.
Il paradigma bio-psico-sociale, prevedendo l’esistenza di concause di origine biologica, psicologica e sociale, potrebbe argomentare in maniera piuttosto articolata l’origine della schizofrenia.
Sul versante biologico, oltre all’ipotesi genetica, diversi studi vedono tra i fattori determinanti, danni perinatali, infezioni virali durante la gestazione, problemi di perfusione ematica intrauterina.
Sul versante sociale, eventi bellici o la morte del coniuge sono fattori ad alto impatto, che possono indurre uno stress materno in gravidanza. L’ipotesi che l’incidenza del disturbo sia più elevata sulle persone appartenenti a classi sociali più svantaggiate non è stata verificata. Ha lasciato però il passo all’ipotesi di una “deriva sociale”, per cui le persone che vanno incontro alla schizofrenia sembrano andare verso condizioni sociali ed economiche svantaggiate.
Non sembra escluso che la malattia colpisca persone con una configurazione patologica particolare. Le ripercussioni di eventi sociali precedentemente citati, come anche l’aver subito una precoce separazione dalle figure genitoriali oppure traumi legati a maltrattamento fisico e mentale possono portare ad una fuga verso la malattia.
L’età risulta essere un ulteriore fattore di rischio: si possono infatti identificare due picchi di incidenza della malattia, correlati al genere. Nei maschi l’insorgenza è più diffusa tra i 14 ed i 24 anni, mentre nelle femmine tra i 25 ed i 35 anni.
Altro fattore di rischio accertato è la stagionalità della nascita o del concepimento. In ogni caso, le persone nate nell’ultimo periodo della stagione invernale sembrano essere le più vulnerabili verso la malattia.
Il paradigma bio-psico-sociale non sembra ancora in grado di fornire una concreta e precisa teoria sulle cause della schizofrenia, pertanto saranno determinanti le ricerche future sul tema.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel Report del 2001 riportava i seguenti dati epidemiologici: su una popolazione di individui di età superiore ai 18 anni, l’incidenza è pari allo 0,25 per mille. Ogni anno, quindi, i nuovi casi sono circa 1.280.000 nel mondo, e circa 12.500 nella sola Italia. Lo 0,5% della popolazione mondiale nel 2001, circa 25.000.000 di persone, risulta affetto da forme di disturbo schizofrenico.
L’esordio, come si accennava prima, avviene tra i 18 ed i 30 anni. Nelle donne è osservabile un’insorgenza più tardiva, oltre ad un’evoluzione e una prognosi più favorevole.
Il decorso della malattia è variabile: 1/3 dei pazienti va incontro ad una completa guarigione che significa scomparsa della sintomatologia e reinserimento sociale. Per 1/3 della popolazione si va verso una guarigione parziale che lascia il soggetto in una condizione di disabilità sociale. L’ultimo 1/3 vede la sintomatologia stabilizzarsi per cui il decorso diventa cronico.
I costi sociali per questa forma di sofferenza mentale sono piuttosto elevati, considerato il lungo decorso, la frequenza di ricadute, l’elevato gradiente di invalidità che riduce di circa 10 anni l’aspettativa di vita della persona ammalata rispetto alla popolazione normale. Infatti il 10% delle persone che ne soffrono pongono termine alla propria esistenza per propria mano.
La scissione psichica con la quale la schizofrenia si manifesta comporta un’alterazione dell’identità dell’Io, un disturbo dei processi di pensiero ed una incoerenza affettiva secondo i criteri del buon senso comune.
I sintomi che ne scaturiscono, possono essere divisi in:
· Sintomi positivi, sostanzialmente rappresentati dai deliri, ovvero disturbi del contenuto del pensiero, e dalle allucinazioni, cioè disturbi della percezione.
· Sintomi negativi, quali l’alogia intesa come un impoverimento dell’eloquio; l’appiattimento affettivo, una sorta di indifferenza emotiva; l’apatia – avolizione, cioè ridotta iniziativa, inattività; l’anedonia, diminuito piacere e scarso interesse per la vita; quindi ritiro sociale.
· Sintomi di tipo disorganizzato, che esprimono la perdita dei confini del Sé e sono disturbi formali del pensiero, comportamenti bizzarri, ed incongruità affettiva.
· Sintomi catatonici, che sono delle manifestazioni cliniche psicomotorie come lo stupore, il catatonismo, la catalessia, le stereotipie, i manierismi, il negativismo, l’automatismo di comando e l’impulsività.
Il trattamento psicoterapico del paziente schizofrenico.
Sigmund Freud non vedeva possibilità di cura della patologia schizofrenica, ritenendo che la persona che ne soffre fosse chiusa dentro il suo narcisismo, con forme di pensiero piuttosto arcaiche, incapace di stabilire relazioni con altri, incluso il terapeuta.
Questa profonda negatività potrebbe in parte essere dovuta ad un disinteresse di Freud verso la cura della schizofrenia, pur essendo indubbia una reale difficoltà nel trattamento di queste forme patologiche.
Il professor Pier Maria Furlan, psichiatra psicoanalista, direttore della Clinica Psichiatrica presso l’ospedale San Luigi Gonzaga di Orbassano (To), nel corso del XXXV Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria (Cagliari, 1982), incentrò il suo intervento sulla psicoterapia delle psicosi, mettendo a confronto diversi modelli teorici. Le ricerche condotte e l’esperienza professionale maturata sul campo, lo portarono a pronunciarsi in questi termini: “Personalmente ritengo che i pazienti cronici anche gravemente schizofrenici in grado di condurre una terapia prevalentemente ambulatoriale possano migliorare se non “guarire” sia strutturando una nevrosi sia con alcuni difetti egoici in relazione prevalente alla cronicità.”
Marcel Sassolas, psichiatra psicoanalista, formatosi alla scuola francese, nel suo libro “Terapia delle psicosi” (1997), definisce la psicosi come un “…esilio al di fuori di se stessi”.
La vita psichica, ovvero i pensieri, i ricordi, le emozioni, sono fonte di dolore. Lo psicotico quindi, vedendo in essa una minaccia, la attacca nel tentativo di svuotarla dei suoi contenuti dolorosi provando a buttarli fuori sotto forma di deliri ed allucinazioni.
La psicosi risulta quindi essere un sistema difensivo dove la persona prova ad isolare ed allontanare da sé il dolore.
L’esperienza del dolore nasce dal rifiuto di accettare che l’esperienza iniziale di narcisismo primario, di fusionalità in cui non c’è differenziazione tra sé e l’altro, ma anzi l’altro diventa un prolungamento di sé, è destinata a terminare a causa di normali spinte verso l’autonomia, di un processo di separazione-individuazione legato alla crescita. Si assiste spesso nei rapporti di persone schizofreniche a simbiosi che diventano una “follia a due”, dove madre e figlio spesso lottano contro il dolore della separazione. L’obiettivo per il paziente psicotico resta il vivere in uno stato di intorpidimento, di incoscienza.
Il professor Furlan condusse una ricerca su alcuni pazienti schizofrenici (1990), il cui scopo era rilevare l’esistenza di eventi traumatici intercorsi nell’infanzia. L’intento non era di natura etiologico, quanto poter fornire al terapeuta una conoscenza più ampia delle esperienze di vita del paziente e delle motivazioni per cui fosse ricorso a meccanismi di difesa così arcaici e ad una fuga nella patologia.
Il campione era composto da 48 pazienti in psicoterapia da un periodo variabile da 2 a 13 anni, con sedute a cadenza almeno settimanale (fino a giornaliera in condizioni di particolare gravità) della durata di 45 minuti.
I pazienti sono stati suddivisi in tre categorie diagnostiche: schizofrenia episodica, schizofrenia conclamata, schizofrenia cronica.
Gli eventi traumatizzanti infantili sono stati distinti in cinque diversi raggruppamenti:
-disagio generale: una sofferenza protrattasi per diversi anni ed ancora viva, in grado di influire sugli equilibri della persona;
-convivenza sgradevole: riguarda diverse situazioni che possono toccare la vita familiare come l’arrivo di un fratellino o sorellina a fronte di un bisogno ancora forte di attaccamento esclusivo alle figure parentali; la separazione dei coniugi con l’avvento di una matrigna o di un patrigno che non accettano la presenza del figlio; casi di promiscuità con parenti della famiglia allargata fino a tentativi di seduzione infantile;
-sradicamento: cambiamenti di residenza con perdita di legami significativi, affidamento a parenti fino all’inserimento in realtà residenziali (collegi, comunità, ecc.);
-problemi economici;
-conflitti scolastici: problemi di disadattamento, mortificazioni a causa di difficoltà di apprendimento, incredulità familiare e alleanza con l’insegnante punitivo.
I risultati emersi dalla ricerca hanno dimostrato che la quasi totalità dei pazienti ha avuto una generica ma spiccata sofferenza infantile. L’analisi dettagliata delle esperienze di ognuno di loro da parte dei terapeuti ha portato a galla situazioni di forte disagio, ben diverse da lievi condizioni di sofferenza legate alla conflittualità generazionale ed alla crescita, riscontrabili in ogni individuo.
Allo stesso modo, l’intero campione ha vissuto delle convivenze sgradevoli, situazioni non necessariamente coesistenti con la categoria “disagio generale”. Più della metà delle persone ha subito un sradicamento dal territorio, mentre poco al di sopra della metà sono le persone che hanno avuto problemi economici; più di un terzo ha vissuto conflitti scolastici.
Un’attenzione specifica ha avuto un’esperienza fortemente traumatica per un bambino o per un adolescente e pertanto molto incisiva nel determinare una condizione di disagio psichico, come il lutto o la perdita di uno o di entrambi i genitori.
Va precisato che in 5 dei 48 casi oggetto della ricerca, non è stato possibile sondare eventi di tale natura riguardanti la storia del paziente a causa della severità della patologia.
I risultati riportano valori piuttosto elevati: nel caso di lutto per la perdita della madre non si osserva alcun episodio nella schizofrenia cronica e sembra essere un dato di scarsa importanza in quella conclamata (3%), per assumere invece una certa importanza nelle forme episodiche (9,1%).
La perdita della figura paterna presenta valori più corposi: è presente nel 14,3% delle forme croniche, nel 16,7% delle forme conclamate per salire al 36,4% nelle forme episodiche. Nella stessa forma episodica, un lutto sia per parte di madre che di padre raggiunge percentuali particolarmente elevate.
I dati sono piuttosto eloquenti e pongono l’accento sul ruolo della figura paterna giocato nella costruzione egoica del bambino e dell’adolescente. A livello terapico possono mettere in guardia il terapeuta dalla tentazione di riparare alle carenze infantili, sostituendosi alle figure perse, rischiando di “determinare un profondo snaturamento della funzione terapeutica, un’inarrestabile flusso di acting out, un agire i bisogni più regressivi del paziente con la conseguenza di rinforzare i benefici secondari del conflitto, una perseverazione delle richieste orali e l’instaurarsi di un’analisi interminabile.” (Furlan, 1990)
Concordemente con quanto dichiarato da P.M.Furlan, M.Sassolas sostiene che lo scopo dello psicoterapeuta non è quello di colmare le carenze del paziente, ma portarlo in contatto con i suoi limiti, senza pensare che questa presa di coscienza possa distruggerlo. Suggerisce Sassolas: “Cedere alla vertigine della riparazione significa girare a vuoto in una relazione simbiotica che non avrà mai fine.”.
Il pericolo insito nel lavoro terapeutico con pazienti schizofrenici è che in questo legame paziente-terapeuta , il paziente tenti di riproporre una relazione simbiotica. Tenterà di fare del terapeuta un prolungamento di sé, si opporrà a qualsiasi modifica, anche sul piano organizzativo, che gli richiami alla mente la possibilità di una separazione. Sassolas indica come soluzione a questa situazione critica la proposta al paziente di una struttura intermedia, capace di divenire oggetto di un suo investimento. “Intermedia” nella misura in cui permetta una condivisione tra chi cura e chi è curato, che sottolinei ciò che li avvicina piuttosto che ciò che li separa (come fa l’ospedale nella sua rigida distinzione di ruolo). Il terreno d’incontro, o “ceppo comune” nelle parole di Sassolas, nasce nel 1966 nell’esperienza della casa famiglia del Cerisier, a partire dalla quale nel 1974 ebbe origine un centro diurno ed un appartamento usato da tre pazienti. Questo appartamento nel 1979 si è trasformato in una prima comunità terapeutica, seguita, alcuni anni dopo, da una analoga struttura. Dall’esperienza del centro diurno dove venivano condotti gruppi terapeutici nasce un nuovo progetto: il centro crisi per brevi soggiorni. Nel 1994 nasce una casa famiglia, ultima struttura in ordine di tempo destinata ad accogliere persone che soffrono di disturbi psicotici.
La struttura intermedia si offre nella relazione paziente-terapeuta come “terzo simbolico”, nella misura in cui media il rapporto attraverso un contratto, il quadro terapeutico, le regole del setting. Esiste anche un “terzo reale”, costituito dall’équipe, fondamentale per le sue potenzialità rispetto alla possibilità di offrire un sostegno ed una supervisione alla relazione con il paziente.
I pazienti crederanno nella struttura se percepiranno l’investimento in essa del terapeuta e l’intenzione di quest’ultimo di proteggerla dai loro attacchi dettati dall’odio e dall’invidia. L’efficace mezzo attraverso il quale questo processo si compie è dato dall’esplicitazione di quanto sta accadendo, quindi attraverso l’uso della parola.
L’uso della parola piuttosto che la “messa in atto” del terapeuta, sono oggetto di discussione da parte di P.M.Furlan, in un suo intervento al XXXVI Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria intitolato “Comunicazioni non verbali, “messa in atto” e psicoterapia psicoanalitica delle psicosi schizofreniche” (Milano,1985).
Il tentativo è quello di individuare una teoria della tecnica psicoanalitica alla patologia schizofrenica, riconoscendo che l’impostazione terapeutica classica, che dà valore all’uso della parola e dell’interpretazione, stia progressivamente apprezzando la valenza terapeutica della “messa in atto”, o “agieren” di impronta freudiana o “acting out” di origine anglosassone.
La modalità comunicativa non-verbale è sempre stata vista in maniera negativa su ambo i fronti dalla coppia terapeutica, poiché considerata, da una formulazione della prima letteratura psicoanalitica, come “una trasposizione difensiva di conflitti rimossi in un evento, se da parte del paziente e ad un errore o deroga all’atteggiamento analitico, se in partenza dal terapeuta.”
Lo stesso Freud aveva suggerito l’immagine di un analista “freddo come un chirurgo”.
Oltre al concetto di “messa in atto”, Furlan nel suo articolo analizza altri due concetti della teoria della tecnica: la controtraslazione e la simbiosi.
La controtraslazione viene esaminata nel suo percorso evolutivo che la vede in prima battuta come una risposta emotiva del terapeuta legata a problemi personali irrisolti, passando per una visione più neutra per cui è una normale reazione alle sollecitazioni del paziente, ed in ultimo viene definita come una “contridentificazione terapeutica”, che implica la presenza di “arcaici meccanismi pulsionali e difensivi del terapeuta”, utili alla terapia poiché sollecitati da analoghi meccanismi regressivi del paziente.
Questo “avvicinamento” del terapeuta al paziente richiama il concetto di simbiosi, nella sua valenza evolutiva.
Nella psicosi questi tre concetti sono tenuti insieme dalla “possibilità del contatto terapeutico pre-verbale all’interno di una simbiosi terapeutica, vale a dire all’interno di una regressione empatica reciproca. Questa è, inoltre, già di per sé terapeutica, indipendentemente, pur senza prescinderne, dalle sue valenze cognitive e dalle sue potenzialità di verbalizzazione e di simbolizzazione.”
Nel suo articolo Furlan fa riferimento a cinque fasi nella terapia di soggetti psicotici, individuate da H.F. Searles in uno scritto del 1961. La prima fase vede nel paziente una persona totalmente chiusa al contatto con l’altro. Qui il terapeuta può entrare in relazione solo con una risposta di tipo emotivo. Dopo una fase caratterizzata dalla reciproca ambivalenza, ne subentra una successiva molto delicata in cui il paziente è in grado di “agire i propri bisogni e paure simbiotiche”.
L’analista potrà iniziare a lavorare sulla relazione simbiotica a patto che questa continui ad esistere, ed offra al paziente la sua protezione. Questa fase si fonda quindi sull’esistenza di elementi dalla natura affettiva, sensoriale con rimandi alla fisicità che costituiscono un mondo al limite tra il pre-oggettuale e l’oggettuale. Grazie alla sperimentazione di un nuovo rapporto simbiotico in cui il paziente può, attraverso comunicazioni non-verbali riappropriarsi della funzione verbale che lui aveva già conosciuto ma allontanato da sé poiché considerata pericolosa, il paziente potrà uscire dalla simbiosi e passare attraverso posizioni via via più evolute.
Al XXXVII Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria (Roma, 1989), il professor Furlan in un suo intervento dirà che “l’agire terapeutico, non solo con la famiglia, con i farmaci, con i ricoveri, ma con azioni dirette e mediante “comunicazioni non verbali” sono parte integrante ed indispensabile delle terapie, …”.
Il trattamento del paziente psichiatrico mediante il ricorso alla Pet Therapy
La cura della patologia schizofrenica come abbiamo visto comporta un percorso piuttosto lungo e ricco di difficoltà. Marcel Sassolas ipotizzava che la durata della psicoterapia fosse mediamente tra i 4-5 anni perché si potesse raggiungere una conoscenza reciproca.
Racconta di un caso clinico seguito personalmente, in cui la persona era chiusa fin dalla sua infanzia “in una relazione con il mondo desertica e caotica, quest’uomo di una trentina d’anni si definiva spesso come ‘secco’, senza emozioni, senza desideri, senza piacere, senza gioia, senza reali contatti con gli altri” (pag.42). Trascorsi 4 anni dalla presa in carico sia a livello di lavoro psicoterapico sia a livello istituzionale, il paziente ha mostrato un segnale di apertura e di riduzione del rigido sistema difensivo psicotico, decidendo di condividere i suoi spazi con due gattini.
Questo è stato il primo segnale di un cambiamento, di un investimento affettivo che ha permesso al paziente di uscire dalla sua solitudine, poiché a monte c’è stato un intervento efficace che lo ha reso possibile.
Ci sono situazioni in cui gli animali da compagnia sono artefici di questo cambiamento. La loro presenza fornisce alla persona un forte ancoraggio alla realtà, là dove la tentazione di una fuga verso il mondo interiore è molto forte. Il desiderio di aprire il proprio mondo ad un animale domestico, come nel caso del paziente di Sassolas, potrebbe rappresentare la cauta decisione di avviare un contatto, di stabilire una vicinanza. La scelta dell’oggetto relazionale è dettata dal sentire l’animale come un essere spontaneo, non giudicante, affettivamente pregnante, non ambivalente nei suoi sentimenti, privo di stereotipi e pregiudizi di natura sociale e culturale, quindi non stigmatizzante.
Il “pet” potrebbe assorbire la funzione di oggetto Sé buono, capace di sostenere l’Io nella sua ri-strutturazione interna e nel consentire uno scambio tra “il dentro” ed “il fuori”.
L’attenzione verso le potenzialità riabilitative degli animali è crescente e diverse realtà italiane si stanno dotando per poter avviare dei programmi terapeutici con animali da compagnia.
Va comunque sottolineato come nel caso di pazienti psicotici, la cura attraverso la vicinanza ad un animale, non possa considerarsi l’unico intervento attuabile in prospettiva di una guarigione. Piuttosto un intervento integrato che affianchi sedute di psicoterapia individuale o di gruppo, di pet therapy ed una terapia farmacologica diventa auspicabile.
Gli esempi nella letteratura italiana di terapie condotte con gli animali in ambito psichiatrico con pazienti schizofrenici sono esigui. Si tratta in molti casi di esperienze che, per i criteri con le quali sono state condotte, non riescono ad avere dignità scientifica, ma questo aspetto non vuole comunque sminuirne il valore intrinseco.
Nel 1967, Beluffi aveva fatto un esperimento: aveva proiettato un film ad un gruppo di pazienti psichiatrici, prevedendone in una fase successiva la discussione in gruppo. Aveva lasciato libero di circolare per la stanza un cane conosciuto dal gruppo. L’idea sottostante era che gli stimoli visivo, sonoro e tattile potessero motivare i pazienti psicotici ad uscire dalla propria chiusura e a stabilire una seppur lieve forma di contatto con gli altri.
In questa veste il ricorso all’animale vuole evocare la sua funzione di attivatore dell’espressione di sé.
In molti programmi riabilitativi delle comunità per tossicodipendenti e doppia diagnosi di S. Patrignano sono protagonisti gli animali. Qui la loro funzione è molteplice: responsabilizzano i pazienti che devono occuparsene, ponendo attenzione ai loro bisogni. Questo incarico, oltre ad aumentare la percezione e la stima di sé delle persone, le porta ad essere più attente e sensibili anche verso i propri bisogni. Una volta acquisita come competenza, può rappresentare oltre che una risorsa personale anche una capacità spendibile professionalmente, al fine di raggiungere la piena integrazione sociale, una volta usciti dai percorsi di cura.
La dott.ssa Ciandella del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna ha condotto in collaborazione con l’Istituto Zooprofilattico dell’Abruzzo e del Molise nel 1996 un esperimento su pazienti istituzionalizzati presso la comunità XXV Aprile di Bologna. Tale struttura residenziale ospita pazienti con quadri diagnostici schizofreniformi; cinque di loro, scelti in maniera casuale, furono coinvolti nel programma di ricerca. Il protocollo prevedeva la somministrazione di un questionario, il Social Interaction Schedule di Liberman, De Risi e Mueser per verificare le condizioni pretest dei pazienti. Il test è in grado di evidenziare i livelli di interazione sociale, l’appropriatezza dei comportamenti sociali e dei livelli di interazione verbale e non verbale. La fase sperimentale è durata otto mesi, all’interno dei quali il questionario è stato periodicamente riproposto per misurare le modifiche comportamentali. L’attività veniva svolta in un’azienda agricola dove erano presenti delle caprette tibetane: i pazienti si occupavano degli animali mettendo il fieno nelle mangiatoie, pulendo gli spazi in cui vivevano, strigliandole e accarezzandole. La sperimentazione non prevedeva il confronto con un gruppo di controllo, per cui sono stati letti i dati riferiti unicamente ai cinque pazienti che avevano partecipato alla sperimentazione. Tra il pre ed il post-test è stato possibile riscontrare un incremento dei contatti sociali, con conseguente riduzione dell’isolamento attivo. Sono aumentate le occasioni di contatto visivo nella frequenza e durata, tra i pazienti e verso i membri dello staff, mentre non si è riscontrato alcun cambiamento sul versante della produzione verbale.
IL LUOGO DELLA SPERIMENTAZIONE: caratteristiche.
Introdurre animali da compagnia in strutture sanitarie non è cosa semplice: esistono rigidi vincoli normativi che in alcune situazioni arrivano a vietarne l’ingresso.
Il problema, quindi, è tutt’altro che irrilevante.
All’interno dell’équipe un operatore con esperienza ha l’incarico di compiere una valutazione della struttura dove si svolgerà il programma di Pet Therapy.
Compie una ricognizione architettonica dell’edificio per valutarne eventuali vincoli strutturali o vantaggi. Ipotizza delle soluzioni a fronte delle difficoltà che potrebbero ostacolare un’attività con gli animali.
La ricognizione della struttura ne valuta l’ubicazione, che deve essere in una zona facilmente accessibile; la grandezza; l’accessibilità, anche attraverso mezzi di trasporto e le condizioni generali dell’ambiente.
All’interno l’area deve possedere più stanze da destinare ai vari usi: una ampia e luminosa, arieggiata, quindi dotata di finestre e porte finestre.
La pavimentazione non dovrebbe essere troppo lucida e riflettente, questo per evitare che i cani scivolino durante i salti o la corsa. All’interno della stessa il conduttore deve ritagliarvi un angolo tranquillo, dove il cane possa sostare indisturbato.
Una ciotola con delll’acqua fresca ed una cuccia (un materassino, un tappeto, qualcosa che il cane possa identificare come suo), sono indispensabili per consentire al cane il riposo negli intervalli dell’attività.
Una stanza adiacente dotata di scrivania e sedie viene dedicata ai colloqui, alla somministrazione dei tests ed alla applicazione dell’holter. Anche per questa stanza l’essere accogliente, luminosa ed arieggiata, sono caratteristiche favorevoli ed utili.
Nelle immediate vicinanze devono essere disponibili dei bagni ed eventualmente dei telefoni pubblici.
Il valutatore osserva la struttura con spirito critico. Si dota di carta e penna, ed eventualmente di una macchina fotografica.
In questa occasione non è prevista la presenza del cane.
E’ bene che durante questa valutazione ci si procuri una piantina dell’edificio e si verifichi che tutti gli impianti siano a norma di sicurezza, secondo la normativa italiana vigente (626/96).
Il termine “test”, usato comunemente nella lingua inglese sia come sostantivo che nella forma verbale “to test” ha come significato il “esaminare, provare qualcosa per scoprire la sua qualità, il suo valore, la sua composizione”, come riportato sul celebre dizionario di Oxford.
Quindi il testare un oggetto o un evento implica il compiere una “misurazione” ovvero assegnare un valore numerico a tutto ciò che esiste ed è osservabile direttamente o indirettamente.
Per anni la psichiatria ha considerato i temi sui quali concentra il suo interesse come non misurabili, domandandosi come fosse possibile trasformare in indice numerico un vissuto personale.
La soluzione a questo dubbio è giunta nel momento in cui si è compreso che i pazienti riferiscono, attraverso la descrizione dei sintomi provati, indicazioni globali e mal definite dei loro disturbi. Per giungere ad una misurazione e comprensione di tali eventi si rende necessaria una progressiva scomposizione, che permetta in ultima analisi di giungere agli elementi costitutivi.
La psicometria è la scienza che studia l’attribuzione di numeri a precise categorie psicologiche.
Le rating scale sono lo strumento in grado di fornire una rappresentazione quantitativa dei fenomeni psichici e comportamentali. Permettono di standardizzare parametri e criteri di valutazione al fine di ridurre la soggettività dell’osservazione psichiatrica e di ottenere dati confrontabili, riproducibili ed analizzabili con le comuni analisi statistiche.
Nel disegno di ricerca descritto all’interno di questa tesi, si intende compiere una misurazione su due versanti:
· Misurazioni psicometriche, ricorrendo a strumenti (rating scale) che consentano di dare una lettura di due specifici fattori: i livelli d’ansia ed il grado di compromissione a livello sociale dei soggetti appartenenti al gruppo sperimentale.
· Misurazioni elettrofisiologiche, volte a rilevare i parametri fisiologici che soggiacciono alla manifestazione dello stato ansioso. Si tratta di una misurazione indiretta del fenomeno oggetto di studio.
La misurazione elettrofisiologica pone l’accento sul versante più strettamente fisiologico, rievocando lo stretto legame esistente tra mente e corpo.
LE MISURAZIONI PSICOMETRICHE.
Le rating scales: la STAI e la DISS.
La State-Trait Anxiety Inventory – STAI può essere considerata una delle scale più largamente impiegate nella misurazione dell’ansia. E’ stata tradotta nel corso degli anni in più di 40 lingue e dialetti ed è stata ampiamente utilizzata per studi transculturali.
Oltre a fornire attraverso indici numerici una misurazione dell’ansia, permette di valutare separatamente l’ansia di stato e l’ansia di tratto.
La costruzione delle scale iniziò nel 1964 ed inizialmente fu concepita come uno strumento unico (FORM A) che misurava tanto l’ansia di stato quanto quella di tratto, modificando unicamente le istruzioni per la valutazione.
Nel 1970 si giunse, ad opera di Spielberger, Gorsuch e Lushene alla distinzione delle due scale:
la STAI-X1 misura l’ansia di stato,
la STAI-X2 misura l’ansia di tratto.
Si compongono di 20 items ciascuna, di cui 15 possono essere considerati indipendenti, 3 sono identici e 2 contengono le medesime parole chiave.
Gli items sono valutati in base ad una scala a 4 punti (da 1 a 4) corrispondenti per la “forma X1” a Per nulla, Un po’, Abbastanza e Moltissimo, mentre per la “forma X2” sono Quasi mai , Qualche volta, Spesso e Quasi sempre.
Uno strumento ancora più aggiornato (1983) è rappresentato dalla Forma Y, che avendo subito la revisione del 30% degli items, permette di meglio distinguere i due tipi di ansia. In fatto di possibili varianti, è opportuno riportare che della STAI esiste anche una versione per bambini, lo STAIC (Spielberger, 1973), che ha dimostrato di possedere soddisfacenti caratteristiche psicometriche.
Gli autori testarono la STAI-X form su un ampio campione di soggetti: studenti, pazienti psichiatrici, pazienti di medicina generale, pazienti chirurgici e detenuti.
Per testare la capacità discriminativi della STAI-X1, ovvero l’appropriatezza della scala nel rilevare l’ansia di stato, fu somministrata a studenti in situazioni neutre e poco prima di un esame finale di un importante corso di studi, ed a soggetti in condizione di rilassatezza e di stress indotto.
La validità della STAI-X2 si basa, invece, sulla capacità della scala di discriminare i soggetti con disturbi d’ansia clinicamente accertati e con disturbi psicosomatici, ovvero le condizioni che fuoriescono dalla norma. Per appurarne oltremodo la validità, ne è stata calcolata la correlazione con altri questionari in grado di misurare l’ansia.
La fedeltà test-retest, calcolata attraverso ripetute somministrazioni, a distanza dalla prima di 1 o di 20 giorni e di 104 giorni, su un campione di 197 studenti universitari, ha evidenziato che la stabilità della scala che misura l’ansia di tratto è relativamente alta. I coefficienti della scala ansia di stato, invece, hanno mostrato una stabilità piuttosto bassa, come effettivamente ci si potrebbe aspettare da una scala che si propone di misurare un parametro influenzato da fattori situazionali.
Entrambe le scale presentano un alto grado di consistenza interna.
La Scala è stata impiegata in settori diversi, pur conoscendo un’ampia applicazione in ambito diagnostico. Uno degli scopi per i quali è stata ricorrentemente utilizzata è per la valutazione dell’efficacia di un trattamento farmacologico o psicoterapico. Il questionario viene spesso somministrato prima e dopo il trattamento, essendo sensibile nel rilevare i mutati valori dell’ansia di stato.
Gli ambiti in cui più frequentemente viene utilizzata sono nei programmi intensivi di riabilitazione per alcolizzati, nella valutazione soggettiva dell’ansia di studenti, lavoratori o persone ospedalizzate, prima in situazioni di relax e successivamente in condizioni stressanti ed ansiogene (un esame, un colloquio di lavoro, in attesa di un’operazione chirurgica). E’ stata pure impiegata in ricerche giorno-per-giorno sui cicli ormonali. Un notevole uso ne viene fatto nella valutazione delle modificazioni indotte da tecniche di rilassamento e di biofeedback.
La Disability Scale – DISS, di D. Sheehan, K.Harnett Sheehan e BA Raj (1996), è una scala per l’autovalutazione del livello di compromissione causato dai disturbi psichici nelle aree dell’attività lavorativa, della vita di relazione e della vita familiare.
L’ultima sezione del test è costituita da due scale che esplorano lo stress ed il supporto sociale ricevuto.
La scala è di tipo analogico, la sua compilazione è piuttosto rapida ed agevole.
È in grado di fornire una visione globale dell’effetto del trattamento, essendo adatta per la valutazione del decorso clinico.
La prima somministrazione viene effettuata al momento della presa in carico del paziente. Successive somministrazioni sono possibili nel corso del trattamento, fino all’ultima compilazione al momento delle dimissioni.
La DISS si è dimostrata sensibile nella discriminazione fra trattamenti diversi.
È’ una scala “universale” che può essere impiegata con tutte le categorie di pazienti.
Gli items che la compongono sono 5:
1. ATTIVITA’ LAVORATIVA
2. VITA DI RELAZIONE
3. VITA FAMILIARE / RESPONSABILITA’ FAMILIARI
4. STRESS PERCEPITO
5. SUPPORTO SOCIALE
I primi 4 items sono di tipo analogico e richiedono al paziente un punteggio da 0 a 10.
Anche l’ultimo item è di tipo analogico, solo che il punteggio va da 0 a 100, esplorando la percentuale di supporto ricevuto, in rapporto a quello soggettivamente percepito come necessario per funzionare adeguatamente.
La DISS si è dimostrata sensibile nel discriminare fra trattamenti attivi e placebo, ed anche fra trattamenti attivi di diversa natura.
LE MISURAZIONI ELETTRO-FISIOLOGICHE
Un dato di notevole rilevanza, soprattutto se letto unitamente all’output della testistica psicometrica, deriva dalla variazione di indici fisiologici.
Le stimolazioni ambientali, infatti, sono in grado di produrre delle modificazioni tanto sulla nostra mente quanto sul nostro corpo.
La vicinanza ad un altro essere, le stimolazioni derivanti dal contatto fisico (il calore del corpo, la morbidezza del pelo nel caso di un animale), il frutto dell’interazione (lo sguardo, il sorriso, l’obbedienza di un animale da compagnia a fronte di un comando), sono tutte situazioni che inducono nella persona che le sperimenta delle variazioni nei parametri fisiologici quali la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa ed il riflesso galvanico, per citarne alcuni.
Tra i differenti parametri, il disegno della ricerca punta l’attenzione sulle variazioni della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca nella condizione sperimentale, ovvero l’esposizione e l’interazione con un cane nel corso della seduta di Pet Therapy.
La pressione sanguigna viene rileva attraverso un convenzionale sfigmomanometro.
Per frequenza cardiaca si intende il numero medio di battiti cardiaci al minuto. Una frequenza pari a 70 battiti al minuto, ad esempio, rappresenta solo un valore medio, perché in realtà il tempo che intercorre tra un battito e l’altro non è costante, ma cambia ripetutamente.
L’Heart Rate Variability – HRV indica la naturale variabilità della frequenza cardiaca in risposta a diversi fattori, quali il ritmo del respiro, gli stati emozionali (la rabbia, la preoccupazione, l’ansia o la gioia ed il rilassamento) o a fattori ambientali che possono indurre nell’individuo una condizione di stress.
Negli ultimi anni, col progredire della ricerca sulla strumentazione capace di misurare in maniera sempre più sensibile i parametri fisiologici, sta assumendo grande importanza.
Sulla rivista di interesse cardiologico “Circulation” del 1996, è uscito un esteso articolo intitolato “Heart Rate Variability, Standards of Measurement, Physiological Interpretation, and Clinical Use”, a cura della Task Force of the European Society of Cardiology and the North American Society of Pacing and Electrophysiology.
Se ne evince l’importanza di questo indice, dal quale è possibile dedurre molte informazioni, come ad esempio il rischio di aritmie cardiache e di infarto, il bilanciamento tra l’attività del sistema nervoso simpatico e parasimpatico.
L’HRV nasce nell’ambito della Cardiologia, per divenire, attraverso numerosi studi scientifici degli ultimi anni, un indicatore attendibile anche per altre discipline quali la Psicofisiologia, la Psicologia, la Psichiatria, la Psicoterapia, la Medicina olistica, la Medicina dello sport.
Gli studi clinici pubblicati sull’HRV riguardano diversi ambiti quali la cardiologia, l’ipnosi, la depressione, l’ansia, lo stress, la psichiatria, le terapie psicologiche, l’asma, la gravidanza ed il diabete.
Si elencavano prima i fattori responsabili dell’HRV. In un cuore sano, la frequenza cardiaca risponde velocemente alle diverse sollecitazioni che l’ambiente propone, modificandosi al fine di consentire all’organismo una risposta adeguata. Quindi un individuo sano mostra un buon grado di variabilità della frequenza cardiaca, cioè una buona adattabilità psicofisica alle diverse situazioni.
L’HRV è correlata all’interazione tra il Sistema Nervoso Simpatico e Parasimpatico.
Il SN Simpatico, una volta attivato, produce: accelerazione del battito cardiaco, dilatazione dei bronchi, aumento della pressione arteriosa, vasocostrizione periferica, dilatazione pupillare, aumento della sudorazione. I mediatori chimici responsabili di queste variazioni sono la noradrenalina, l’adrenalina, la corticotropina, e diversi corticosteroidi. L’attivazione del Simpatico è la normale risposta dell’organismo ad una situazione di allarme, lotta, stress.
Il SN Parasimpatico se attivato, produce un rallentamento del ritmo cardiaco, un aumento del tono muscolare bronchiale, la dilatazione dei vasi sanguigni, una diminuzione della pressione, il rallentamento della respirazione, l’aumento del rilassamento muscolare. Il respiro diventa più calmo e profondo, i genitali, le mani ed i piedi diventano più caldi. La sua attività è regolata dal nervo vago o pneumogastrico. E’ il più lungo dei nervi encefalici ed è di notevole importanza in quanto porta un grosso contingente di fibre effettrici viscerali che innervano la maggior parte dei visceri del torace e dell’addome. Il mediatore chimico che porta alla sua attivazione è l’acetilcolina. L’esito è una situazione di calma, riposo, tranquillità ed assenza di stress.
Il nostro corpo, in ogni momento, si trova in una condizione determinata dall’equilibrio o dalla predominanza di un sistema nervoso sull’altro.
In ambito cardiologico, l’HRV viene misurato attraverso un apparecchio elettrocardiografico, con normali elettrodi di superficie che si applicano a livello del cuore.
Il disegno della ricerca presentato in questa tesi, prevede l’applicazione ai soggetti del gruppo sperimentale, poco prima della seduta col cane, di un apparecchio holter.
L’holter è una piccola scatola che contiene un registratore ed una batteria. Si indossa con l'aiuto di un cerotto e va portato, se utilizzato per fini diagnostici, in vita o su una spalla per 24 ore. Alla scatola sono collegati 5-7 elettrodi, che si applicano sul torace, e trasmettono ininterrottamente al monitor gli impulsi elettrici generati dal cuore. In pratica, si ottiene un ECG di un giorno intero, con il vantaggio che l'attività cardiaca viene registrata durante le normali attività quotidiane (lavorare, mangiare, dormire) svolte dal paziente, e magari anche nei momenti in cui si verifica un'aritmia o si avverte un dolore al petto.
Dopo essere stati digitalizzati, i dati registrati dallo strumento devono essere scaricati e letti da un software speciale per l’analisi dei dati. Il software è in grado di calcolare in millisecondi il tempo che intercorre tra un battito e l’altro (RR) e di rappresentare i dati attraverso un diagramma.
Lo Spettro di Potenza rappresenta le componenti di frequenza, e contiene le informazioni essenziali per arrivare finalmente alla stima del bilanciamento fra Simpatico e Parasimpatico.
Lo Spettro di potenza (nel dominio delle frequenze) esprime la potenza delle frequenze comprese fra 0.01 e 0.4 Hz.
La potenza (Power) viene espressa in millisecondi al quadrato.
Gli studi e le ricerche degli ultimi 15 anni, hanno permesso di distinguere tre sotto-bande di frequenze, chiamate rispettivamente:
1) VLF (Very Low Frequency) frequenze comprese fra 0.01 e 0.04 Hz.
La banda VLF e' dovuta in parte all'attivita' del Sistema Nervoso Simpatico, inoltre dai cambiamenti nella termoregolazione, ed in ambito psicologico, e' influenzata dalle preoccupazioni e dai pensieri ossessivi (worry and rumination)
2) LF (Low Frequency) frequenze comprese fra 0.04 e 0.15 Hz.
La banda delle LF viene considerata principalmente dovuta all'attivita' del Sistema Nervoso Simpatico, e all'attivita' di regolazione dei barocettori.
3) HF (High Frequency) frequenze comprese fra 0.15 e 0.4 Hz.
La banda delle HF viene considerata espressione dell'attivita' del Sistema Nervoso Parasimpatico e del Vagale. Questa zona di frequenze subisce una elevata influenza da parte del ritmo e profondita' della respirazione.
Infine sono importanti anche i parametri chiamati Deviazione Standard del tacogramma o anche il parametro Total Power che e' proporzionale al quadrato della deviazione standard.
Entrambi questi parametri esprimono il grado complessivo della variabilita' della frequenza cardiaca, quindi l’attivita' complessiva del Simpatico e del Parasimpatico.
Il rapporto invece fra Simpatico e Parasimpatico viene misurato dal rapporto fra LF/HF.
L'esperienza clinica ha permesso di arrivare a definire dei range normali di valori di tutti questi parametri: Frequenza cardiaca, Deviazione standard Tacogramma (SD), Power Totale, Power VLF, Power LF, Power HF.
I valori Power sono spesso espressi anche nella loro forma logaritmica, per es. Ln(TotPower).
La definizione dei range di normalita' non è completamente uguale fra diversi autori e fra gli standard Americani ed Europei. Si prendono come riferimento i seguenti valori, utilizzati da una delle piu' avanzate ditte Americane nel settore della HRV, la CARDIOLOGIX nel loro software HeartScanner.
Gli standard sono i seguenti:
Frequenza Cardiaca = 59 - 96 b/m
Dev. Standard = 78 - 220 ms (millisecondi)
Ln(TotalPower) = 7.2 - 9.1
Ln(Power VLF) = 6.6 - 8.6
Ln(Power LF) = 5.9 - 8.0
Ln(Power HF) = 3.8 - 7.0
Rapporto LF/HF = 0.6 – 10
La interpretazione finale dei dati puo' essere effettuata in vari modi. L’indicazione data dalla Cardiologix, risulta particolarmente facile ed intuitiva, specie per l'ambito applicativo della Psicologia e Medicina Olistica. Utilizza un diagramma che colloca il risultato all'interno di 9 combinazioni:
Questo è il diagramma finale del bilanciamento fra Simpatico e Parasimpatico.
Il risultato e’ il punto rosso che può cadere in una delle 9 aree definite dal diagramma, che mostra il Logaritmo della Power delle bande LF e HF.
Il significato delle 9 combinazioni e' il seguente:
Zona (1) LF=basso HF=basso
|
Viene mantenuto un bilanciamento fra il simpatico e il parasimpatico con un basso livello di attivita' di regolazione di entrambi i sistemi. |
Zona (2) LF=basso HF=normale
|
Moderata dominanza del sistema parasimpatico con un basso livello del simpatico e normale livello di regolazione del parasimpatico. |
Zona (3) LF=basso HF=alto
|
Significativa dominanza del sistema parasimpatico con un basso livello del simpatico ed alto livello di regolazione del parasimpatico. |
Zona (4) LF=normale HF=basso
|
Moderata dominanza del sistema nervoso simpatico con un normale livello del simpatico ed basso livello di regolazione del parasimpatico. |
Zona (5) LF=normale HF=normale
|
Viene mantenuto un bilanciamento fra il simpatico ed il parasimpatico con un normale livello della loro attivita' regolatoria. |
Zona (6) LF=normale HF=alto
|
Moderata dominanza del sistema parasimpatico con normale livello del simpatico ed alto livello di regolazione del parasimpatico. |
Zona (7) LF=alto HF=basso
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Significativa dominanza del sistema simpatico con elevato livello del simpatico ed basso livello di regolazione del parasimpatico. |
Zona (8) LF=alto HF=normale
|
Moderata dominanza del sistema simpatico con alto livello del simpatico ed normale livello di regolazione del parasimpatico. |
Zona (9) LF=alto HF=alto
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Viene mantenuto un bilanciamento fra il simpatico ed il parasimpatico con un elevato livello di attivita' di regolazione di entrambi i sistemi.
|
Legenda: LF=Simpatico; HF=Parasimpatico.
L’EQUIPE MULTIDISCIPLINARE
Un progetto di intervento di Pet Therapy per la sua realizzazione necessita della presenza di operatori la cui professionalità sia varia e riesca a soddisfare le diverse necessità che emergono quando ci si appresta a questo compito.
A tal scopo l’attuazione di un progetto di questa natura prevede la creazione di un gruppo di lavoro costituito da una molteplicità di figure professionali che mettono a disposizione le proprie conoscenze al fine di realizzare gli obiettivi previsti dal Progetto.
L’équipe sarà composta dalle seguenti figure professionali, per le quali si specificano di seguito le dirette referenze:
1 Medico Psichiatra con lo scopo di supervisionare i lavori per tutto ciò che è di stretta competenza medica. Ha contatti con i medici psichiatri referenti dei pazienti dai quali riceve informazioni circa alcuni elementi dell’anamnesi personale, la diagnosi, le terapie farmacologiche in corso, il progetto terapeutico e le finalità previste per ogni singolo paziente, le caratteristiche di personalità generali e quelle più specifiche delle quali è opportuno tener conto.
1 Medico Cardiologo ed 1 Tecnico holterista per la lettura degli esiti delle registrazioni della macchina e per la diagnostica, affiancati eventualmente dal Medico Psichiatra.
2 Psicologhe, di cui una coordinatrice dell’intera èquipe.
Curano la presentazione del progetto ai pazienti nel corso di uno o due colloqui conoscitivi preliminari.
L’obiettivo dei colloqui è anche quello di cogliere l’interesse e la motivazione dei pazienti verso le attività strutturate che vengono proposte, per la durata prevista. E’ fondamentale percepire l’interesse e la piacevolezza o eventualmente la titubanza e resistenza comunicata dai pazienti all’idea di svolgere un’attività affiancati da un cane, criterio per valutare l’inclusione o esclusione della persona dal gruppo sperimentale.
Le psicologhe curano la somministrazione e lettura dei tests presentati.
1 Infermiere ed 1 Educatore Professionale, sono le persone che condividono il quotidiano del paziente poiché lavorano nelle strutture in cui sono inseriti. Posseggono pertanto molti elementi di conoscenza della persona, sanno cogliere il loro stato d’animo in situazioni specifiche, sono figure di riferimento importanti che aiutano ad affrontare situazioni in partenza nuove e potenzialmente stressanti. Per questi motivi e per la competenza professionale di cui sono dotati, la loro presenza risulta fondamentale sia nella fase di progettazione per definire obiettivi riabilitativi coerenti con i P.E.I. dei singoli pazienti, che nella fase di realizzazione, essendo come si diceva un importante riferimento dal punto di vista relazionale.
1 Veterinario ha sotto controllo medico il cane e ne assicura il buono stato di salute e l’idoneità al contatto con l’uomo nel corso delle sedute.
1 Addestratore Cinofilo conduce la seduta col proprio cane. E’ una figura professionale che si è formata attraverso corsi di conduzione di carattere teorico-pratico da realizzare con un animale, preferibilmente il proprio. Dal punto di vista pratico il “pet-operator” deve imparare a controllare e gestire l’ambito della pet relationship e apprendere i rudimenti del pet training. Da un punto di vista teorico deve invece acquisire una conoscenza di base nelle scienze comportamentali applicate, al fine non solo di muoversi correttamente nell’ambito della pet relationship, ma di conoscere le variabili e le caratteristiche dell’interazione uomo-animale.
Le figure professionali del veterinario e dell’addestratore cinofilo potrebbero provenire da un’Associazione che si occupa di Terapia Assistita con gli Animali.
In questo caso è l’Associazione che si fa garante per loro, affinché siano rispettati i criteri attuativi, coerentemente con quanto stabilito dalla legge.
LE CARATTERISTICHE DEI PAZIENTI
I pazienti appartenenti al gruppo sperimentale ed al gruppo di controllo rispondono a specifiche caratteristiche, date dai criteri rispondenti al disegno della ricerca.
Criteri per l’inclusione:
· Persone di sesso maschile o femminile, possibilmente in egual misura.
· Età compresa nel range 29-45 anni.
· Con diagnosi di schizofrenia, sotto controllo e compenso farmacologico.
· Persone che, a seguito di esplicita richiesta, abbiano espresso una passione\piacere al contatto con cani di piccola taglia.
· Persone interessate e nella condizione di poter condurre un’attività ludico-riabilitativa con frequenza settimanale per la durata di circa 1 anno.
· Persone appartenenti ad una struttura residenziale o inserite nei progetti diurni con finalità socializzanti e riabilitative, afferenti al Centro di Salute Mentale 5b dell’Asl 5, Regione Piemonte.
Criteri per l’esclusione:
· Patologia accertata a carico dell’apparato cardiaco o gravante sui livelli pressori.
· Persone avvezze ad agiti aggressivi auto ed etero diretti.
· Persone che abbiano evidenziato atteggiamenti compulsivi di lavaggio e disinfezione.
· Persone che abbiano manifestato una reazione allergica al contatto o in prossimità di un cane.
· Pazienti con sintomatologia florida.
Si stima che la consistenza del gruppo sperimentale possa essere di circa 7-10 persone, in possesso delle caratteristiche sopra specificate.
Il gruppo di controllo riprodurrà il più fedelmente possibile il gruppo sperimentale nella sua composizione e nelle caratteristiche dei partecipanti, ma i pazienti che lo compongono non beneficeranno delle sedute di Pet Therapy, né di altri interventi terapeutici di gruppo.
L’età delle persone alle quali ci si intende rivolgere è piuttosto giovane. Questo perché la sperimentazione intende sondare le potenzialità riabilitative della Terapia Assistita con gli Animali, migliorando la qualità di vita dei soggetti coinvolti.
L’esigenza che gli appartenenti al gruppo sperimentale non siano sofferenti di patologia organica a carico dell’apparato cardiaco o tale da alterare i livelli pressori è data dall’intenzione di utilizzare quale strumento di indagine, oltre alla testistica psicometrica, un holter ed uno sfigmomanometro (vedi cap. sulla Testistica).
Risulta quindi fondamentale che i valori ottenuti dalla sperimentazione non siano alterati da condizioni patologiche.
Non di secondaria importanza è l’indicazione per la quale le persone non devono esibire agiti aggressivi auto ed etero diretti, rivolti a cose, persone o animali. Nell’indagine preliminare svolta attraverso il colloquio col medico psichiatra curante e con le persone stesse, questo sarà un punto particolarmente delicato ed importante da esplorare.
E’ infatti di particolare importanza per l’operatore cinofilo ed il cane e perché la stessa ricerca non venga alterata da livelli d’ansia e timore più o meno manifesti e diffusi, poter contare su un clima sereno.
Reazioni allergiche verso il pelo del cane o manie legate ad agiti compulsivi di lavaggio e disinfezione, scatenate dalla vicinanza al cane, sono ovviamente condizioni che suggeriscono l’esclusione del paziente dal gruppo sperimentale, poiché ogni possibile effetto benefico derivante dall’interazione con l’animale verrebbe annullato da queste forme di sofferenza.
E’ inoltre importante che le persone valutino l’impegno che viene loro richiesto aderendo alla sperimentazione ed esprimano liberamente il loro consenso. A tal scopo viene predisposto un modulo di “Consenso informato e tutela della privacy”. Dopo la presentazione del progetto in tutte le sue articolazioni, viene chiesto al paziente di firmare il modulo. Qualora si tratti di persone interdette, viene preventivamente interpellato il tutore, solo successivamente viene chiesto alla persona di esprimere un parere in termini di piacevolezza e quindi la volontà di aderire alla sperimentazione.
I pazienti sono, in ultimo, persone ospiti delle realtà residenziali facenti capo al Centro di Salute Mentale 5b dell’Asl 5, Regione Piemonte, come ad esempio le Comunità Alloggio, i Gruppi Appartamento, il Centro Crisi oppure aderenti a progetti la cui articolazione è su un impegno diurno come il Centro Diurno (con i laboratori di falegnameria o pittura su seta), dove la frequenza è di una, due o tre volte alla settimana, a seconda dei progetti dei pazienti.
Passaggi preliminari
· Costituire l’équipe con le diverse figure professionali
· Rispetto ai pazienti occorre:
- individuare le caratteristiche che il pz deve avere per entrare nel gruppo
sperimentale;
- ipotizzare dei nomi di pazienti appartenenti alle diverse realtà afferenti al
CSM dell’ASL 5;
- contattare i medici psichiatri di riferimento per raccogliere informazioni
sull’idoneità e rispondenza del pz ai criteri che stabiliscono
l’appartenenza al gruppo sperimentale;
- effettuare eventuali accertamenti clinici per assicurare l’assenza di patologie
organiche (ipertensione o patologie a carico dell’apparato cardiaco);
- informare i pz ipotizzati come idonei al coinvolgimento nel progetto della
ricerca e richiedere la loro disponibilità a prendervi parte
firma del consenso informato.
· Ricerca del luogo idoneo per le sedute con i cani e firma dell’autorizzazione all’uso dei locali.
· Contatto con la ditta che fornisce l’holter ed il software per scaricare i dati su Pc, per concordare le date dell’uso della macchina.
· Prendere contatti con l’Associazione che mette a disposizione i cani ed i conduttori cinofili. Verifica del possesso della certificazione per lo svolgimento della Pet Therapy ed idonea certificazione del personale (brevetti e qualifiche professionali), della regolarità delle procedure (es. regolari controlli veterinari).
· Reperimento e predisposizione del materiale necessario:
- per la somministrazione dei tests: penne, copie cartacee delle scale,
- per l’uso dell’holter: un sistema di fissaggio, elettrodi monouso,
- per la seduta col cane: crocchette, ciotola, acqua, giochi, un asciugamano per poterlo
· Chiedere la disponibilità a prendere parte alle sedute ad alcuni operatori che siano figure di riferimento per i pazienti coinvolti nella sperimentazione. Durante le sessioni è bene che siano presenti un infermiere professionale per il fissaggio dell’holter, ed un educatore professionale che conosca i pazienti.
CONCLUSIONI
La Pet Therapy rappresenta ad oggi certamente una risorsa importante nel panorama delle esperienze ed attività a fondo terapeutico-riabilitativo.
Le evidenze scientifiche fin ora prodotte sono state in grado di dimostrare che la sola vicinanza ad un animale domestico, senza doverlo necessariamente toccare, ma condividendone semplicemente la stanza, è in grado di diminuire la pressione diastolica e sistolica, di regolarizzare il battito cardiaco, regolarizzare e distendere la respirazione e produrre un rilassamento generale nel tono muscolare e nelle espressioni del viso di una persona.
Sebbene i risultati siano incoraggianti, la Pet Therapy è da vedere all’interno di un approccio di cura integrato delle diverse forme di sofferenza, che la affianca alla terapia farmacologica ed alla psicoterapia.
Rispetto alla patologia schizofrenica, la letteratura è molto cauta nel suggerire il ricorso alla Terapia Assistita con gli Animali.
Le evidenze scientifiche tratte da sperimentazioni condotte in questo settore della patologia mentale sono infatti pressoché nulle, mentre è più frequente trovare ricerche condotte nelle realtà che si occupano di persone con handicap, patologia organica (problemi cardiaci o pressori), affette da sindrome di Alzheimer o da disturbo dell’umore.
La chiusura difensiva dello schizofrenico inibisce ogni forma di contatto o vicinanza, poiché vissute come fonte di pericolo. La scelta talora di aprirsi di fronte ad un animale, per le sue caratteristiche specifiche, può rappresentare più ottimisticamente una prima cauta forma di reinvestimento nelle relazioni, oppure un semplice appiglio offerto dall’animale alla realtà.
Il contributo teorico del professor Furlan sul trattamento del paziente schizofrenico sottolinea l’importanza dell’agire.
Al fianco della parola e dell’introspezione, strumenti elettivi dell’impostazione psicoanalitica classica, compaiono terapie che incentivano l’espressione del mondo interno della persona, favorendo il contatto con l’esterno e la riscoperta della relazione. Queste “nuove” forme di cura del paziente schizofrenico sono lo psicodramma, l’arteterapia, la teatroterapia, la musicoterapica, la danzoterapia. Sono espressioni terapeutiche che aiutano i pazienti ad agire i vissuti e le emozioni, richiamando a forme di comunicazione verbali ma soprattutto non verbali.
Il Progetto di Ricerca formulato all’interno della Tesi intende, partendo da questi presupposti, proporre un’esperienza di Terapia Assistita con gli Animali ad un gruppo di pazienti schizofrenici afferenti al Centro di Salute Mentale dell’ASL 5 – Regione Piemonte.
Ha pertanto l’ambizione di poter portare delle prove, attraverso dei dati scientifici, alle ipotesi di efficacia della Pet Therapy in ambito psichiatrico, formulate a partire dalle posizioni teoriche sulla struttura mentale e sulla terapia del paziente schizofrenico del professor P.M.Furlan e del professor M.Sassolas.
È infatti nostro desiderio che i risultati incoraggianti che attendiamo dalla sperimentazione possano legittimare il ricorso alla Pet Therapy come ulteriore strumento riabilitativo, anche per quelle forme di disagio mentale dove i livelli di compromissione e sofferenza dell’individuo sono così elevati, come nel caso delle psicosi.
Dott.ssa Daniela Mennoia.
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