INDICE

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO

FACOLTA’ DI PSICOLOGIA

CORSO DI LAUREA IN PSICOLOGIA

TESI DI LAUREA

MODELLI TEORICO-PRATICI APPLICATI NEL SUPERAMENTO DEGLI OSPEDALI PSICHIATRICI:

L’ESPERIENZA TORINESE DI COLLEGNO

Relatore:

Prof. Rocco Luigi PICCI

 

Candidata:

Margherita SINI

 

Anno Accademico 2004/2005

 

Desidero ringraziare vivamente:

 

 

Il Professor Pier Maria Furlan

Direttore del Dipartimento Interaziendale di Salute Mentale 5B

A.S.O. S.Luigi Gonzaga – Orbassano / A.S.L. 5 – Collegno

Università degli Studi di Torino

 

 

Il Dottor Ezio Cristina

Responsabile Struttura Complessa del Dipartimento di Salute Mentale 5B

A.S.L. 5 – Collegno

 

Il Professor Rocco Luigi Picci

Responsabile Struttura Semplice Dipartimentale "Emergenza Psichiatrica"

A.S.O. S.Luigi Gonzaga – Orbassano

Università degli Studi di Torino

 

Il Signor Calogero Baglio

del Centro di Documentazione sulla Psichiatria, Biblioteca Medico-Scientifica ed Archivio Storico degli Ospedali Psichiatrici di Torino - Collegno

 

Un ringraziamento particolare va inoltre al Dottor Gustavo Gamna

Medico Psichiatra, ha diretto l’Ospedale Psichiatrico di Collegno e successivamente i Servizi psichiatrici territoriali di Torino.

Presidente dell’ADEG dalla sua fonadazione al 1990, ha lavorato nel settore pubblico sino al 1991

 

INDICE

 

 

INTRODUZIONE …………………………………………….………………………9

  1. Manicomi e Psichiatria
  2. Storia della follia. Cenni

    1. La follia dall’antichità al Seicento

Affermazione del paradigma asilare

Il Manicomio nell’epoca moderna

 

PARTE PRIMA

 

 

I. Movimenti antipsichiatrici in Europa……..…………..….….…28

  1. Un precursore: A.Artaud
  2. L’antipsichiatria e l’eredità della riflessione fenomenologica

  3. Protagonisti
    1. Ronald D.Laing

David Cooper

Thomas Szasz

    1. Altri modelli di psichiatria alternativa
    1. Inghilterra: la Comunità Terapeutica

Francia: Psicoterapia Istituzionale e Psichiatria di Settore

  1. Le pratiche non mediche dopo gli anni Settanta

Un punto di vista alternativo

II. "Terapie"in uso nel Novecento………….….…………...…….56

  1. Ergoterapia

Piretoterapia malarica

Elettroshock

Psicochirurgia

Contenzione

Psicofarmacologia

La questione etica in Psichiatria

 

III. Esperienze "alternative" negli anni ’50 -‘60…………….. ……..70

  1. Introduzione
  2. Gli allucinogeni. Origini

    Terapie sperimentali e LSD

    L’LSD in psicoterapia

    Psichedelici e arte

    Il movimento psichedelico e la fenomenologia in Italia

    1. G.E.Morselli

    Modificazioni nel test dell’albero in malati mentali

    Uno studio di Torino con l’acido-d-lisergico

    Un caso più unico che raro

    Considerazioni

  3. Gli psichedelici come simbolo di un’epoca

I 100 anni di Hofmann

IV. Leggi manicomiali in Italia………………………………..……….104

  1. Introduzione

"Legge Bianchi"(36/1904)

La Psichiatria italiana dal fascismo agli anni Sessanta

"Legge Mariotti"(431/1968)

"Legge Basaglia"(833/1978)

V. Movimenti antimanicomiali in Italia……..…………..………….118

  1. La Psichiatria di Settore e la Comunità Terapeutica in Italia

La rivoluzione (o l’utopia) basagliana

Psichiatria Democratica

Altri protagonisti

4.1 Giorgio Antonucci

4.2 Giuseppe Bucalo

 

PARTE SECONDA

 

 

VI. Dal Regio Manicomio di Torino agli anni Sessanta……..…145

  1. Breve storia della Certosa di Collegno
  2. Il Regio Manicomio di Torino
    1. La fondazione

    Il problema del sovraffollamento

    Il Novecento

    Gli anni Sessanta

  3. L’Associazione contro le malattie mentali
  4. La fabbrica della follia

  5. Attività espressive come metodo terapeutico

5.1 Il Collettivo di Torino

VII. Anni ’70: il Settore e la deistituzionalizzazione…….………171

  1. Il Settore a Torino
    1. Un esempio: il settore 3, Torino-Est

Il superamento della politica del Settore

Cause del "fallimento" del Settore

  1. Il caso di Villa Azzurra
  2. Il processo di deistituzionalizzazione

  3. I ricoveri coatti con la Legge 180
  4. Il ruolo degli infermieri dopo la Legge 180
  5. Il progetto handicappati

 

 

VIII. Il Centro Sociale Basaglia e il privato sociale………………...195

    1. Gli anni Ottanta

L’educatore

Il Centro Sociale Basaglia

Le Cooperative

 

IX. Verso il definitivo superamento dell’O.P.…….……..…………..207

  • Normative per il superamento
    • Gli anni Novanta e la definitiva chiusura dell’ex OO.PP.

di Collegno e Grugliasco

 

X. Conclusioni……………………………..………………..………..212

 

Bibliografia……………………………..………………………………215

 

" Vedete anzitutto con quanta

preveggenza la natura madre e artefice

del genere umano,  ha badato perché

non manchi in nessun luogo, per condimento,

un zin zin di pazzia. Perché la vita umana non fosse

un mortorio, quante passioni vi ha messo Giove.

E in quantità molto maggiore della ragione!

La proporzione è di cento a uno, quasi.

Inoltre relega la ragione in un angoletto della testa,

abbandonando tutto il resto del corpo

al disordine delle passioni. E alla ragione, che è sola,

oppose come  due  violentissimi tiranni ,

l'ira  che occupa l' acropoli  dal petto sino alla

fonte stessa della vita,cioè il cuore ,

e la concupiscenza che estende

il suo vastissimo impero giù sino al pube.

Contro queste due potenze gemelle

qual forza abbia la ragione, lo dichiara

abbastanza la vita comune."

 

Elogio della follia

Erasmo da Rotterdam, 1508

INTRODUZIONE

 

Quando Vi si dirà che siete un pazzo o un criminale,

sappiate che allora Voi siete incappato in un cerchio magico,

dal quale non avrete più modo di uscire.

Farete dei tentativi per uscirne, e non otterrete che di perderVi peggio

 

A.Cechov

1. Manicomi e Psichiatria

Sin dai tempi più remoti si assiste a un vivo interesse per la mente umana nella sua struttura e nei suoi processi e funzioni. Ad essa sono stati dedicati numerosi studi e ricerche, e non solo nel suo normale funzionamento ma anche nelle sue manifestazioni "patologiche" o comunque difformi dalla norma comportamentale. A questi ultimi aspetti sono state date varie interpretazioni eziologiche che si sono succedute sino ad oggi, e a partire da esse la follia è stata curata e trattata. Tuttavia, nell’ambito della cultura europea, in ogni epoca essa è stata stigmatizzata, come una sorta di marchio di Caino, e la psichiatria raggiungerà potere e notorietà non tanto perché in grado di comprendere e curare la malattia mentale, ma perché sarà chiamata ad assumere un ruolo fondamentale nel dirimere il problema della devianza e delle azioni delittuose.

Ebrei, lebbrosi, omosessuali, pazzi, atei, disabili, etnie diverse, schiavi, donne come streghe, adultere o solo perché femmine, hanno subito da parte di chi si arrogava il diritto di proclamarsi normale, una ciclica segregazione fisica, geografica e psicologica, sino talvolta alla eliminazione. Il modo più efficace per indurre e mantenere questa alienazione è sempre stato lo stigma, un segno indelebile sull'essere dell'alienato, sulla coscienza degli individui e spesso sull'anima dello stesso represso, attraverso subdole e striscianti operazioni culturali, con la diffusione di credenze, superstizioni, sino all'uso scorretto e millantato della scienza e della comunicazione. Il pregiudizio verso la follia ha assunto ogni possibile forma nell'immaginario della diversità: dal diabolico all'estroso, dal maledetto al criminale, dal perverso all'ignavo, utile a perpetuare una costante deriva che esorcizzasse la paura collettiva dell'incomprensibile, con immancabili funeste conseguenze, visibili nei lazzaretti, nei manicomi, nei campi di sterminio, ma anche nel quotidiano: per le vie, sul lavoro, dentro le stesse case.

Dal connubio con il potere politico e dall’asservimento alle sue esperienze nasce di fatto il potere della psichiatria, che si dimostrerà in epoca moderna un gigante dai piedi d’argilla. Ciò lo si può ben vedere dall’incredibile successo sociale dell’istituzione manicomiale, rimasta invariata per quasi tutto il Novecento, e lo si può spiegare col fatto che tale istituzione soddisfaceva la necessità di separare gli elementi irrazionali, quindi non controllabili, dalla società civile. Il manicomio era ritenuto di per sé luogo di cura (Kom) della follia (mania), efficace per il solo fatto di essere separato rigidamente dalla realtà esterna. Ma le sue contraddizioni si rivelarono negli anni Sessanta quando vennero a galla i segni della violenza più brutale e della più totale negazione di qualsiasi diritto umano. L’aporia di base si rese evidente con il tentativo di cambiare la sostanza con un gioco di parole: i manicomi divennero Ospedali Psichiatrici. Ma un ospedale di per sé non cura, se all’interno non vi sono operatori che, sulla base di una teoria, hanno prassi e tecniche specifiche che costituiscono la cura, ovviamente accompagnate da caratteristiche squisitamente umane quali empatia e rispetto.

La chiusura degli ospedali psichiatrici in Italia dimostra sempre di più che il luogo della psichiatria è sul territorio, e questa pratica va costruita giornalmente, con interventi individuali, familiari, ambientali e sociali. La creazione della rete di servizi, sempre più compenetrata con il tessuto sociale, non deve distogliere l'attenzione da quanto di rigido, prestabilito, conformistico e ripetitivo viene attivato nelle istituzioni. Segregazione e deriva non sono più sostenuti da mura, ma da pregiudizi fondati sull'inanellarsi di idee diventate stigma. Da tempo, prima ancora di essere chiamati alla prevenzione e alla tutela della salute mentale, talvolta più in modo pragmatico che sostenuto da studi ed elaborazioni teoriche, molti psichiatri utilizzano ogni prodotto dell'intelletto e delle arti per restituire al soggetto vulnerato funzioni ridotte o confuse dalla malattia: pittura, ceramica, teatro, arti e mestieri, sport, giochi, quotidiano domestico, consapevoli della potenzialità terapeutica della componente psicosociale, ma anche del loro essere vettori di un messaggio contro il marchio.

Ripercorrere la storia della follia, e quindi della psichiatria istituzionale, aiuta a districare le tematiche oggi implicate nel dibattito sul superamento dell’Ospedale Psichiatrico, e a trovare soluzioni innovative che non ricalchino errori del passato.

La vera deistituzionalizzazione deve essere condotta a tutto campo, dal livello individuale alle sedi istituzionali, perché siano restituiti quei diritti diventati, per molti, ma non per tutti, norma.

E’ importante conoscere i fondamenti e le origini del paradigma manicomiale, in cui la distanza oppressiva dalla povertà e le ipotesi sulla pericolosità del paziente si saldano in una teoria della segregazione di ciò che è invece espressione di sofferenza e bisogno. Si tratta di un passato troppo recente perché sia dimenticato, e le migliaia di vittime anonime e silenziose che hanno subito angherie, violenze e sadici trattamenti in nome della scienza psichiatrica, meritano che sia fatta luce su questo passato: ma si tratta veramente solo del passato? Solo oggi, forse, possiamo dire che l’oppressione e la persecuzione verso i malati mentali si sia attenuata, ma non spenta.

 

2. Storia della follia. Cenni

 

2.1 La follia dall’antichità al Seicento

 

Già i primi filosofi ellenici si dedicarono a quella che essi chiamavano "scienza dell’anima", attribuendo alla follia un’origine divina. Nella spiegazione religiosa, per la quale chi manifestava disturbi psichici era un indemoniato, un posseduto da spiriti maligni, l’intera comunità religiosa si sentiva coinvolta da questo fatto e interveniva con provvedimenti che potevano essere di segno opposto: la solidarietà, la preghiera, il ricorso ad esorcismi; oppure la persecuzione e il rogo. La spiegazione magica, invece, era strettamente legata alla cultura delle superstizioni, che collegava il disturbo mentale al contatto con oggetti o animali, o a congiunzioni astrali, e tutt’oggi sopravvive, nella credenza popolare e nel linguaggio. A queste epoche remote vanno forse fatti risalire i primi mezzi propriamente farmacologici: l’elleboro, capace di indebolire la furia dei pazienti con diarrea e vomito, le pozioni a base di oppiacei o di altre sostanze vegetali come la reserpina o lo stramonio. Raramente si lasciava nella nostra cultura al folle il ruolo di vate o profeta, come avveniva in quella greca o in altri continenti. L’interpretazione magico-religiosa vedrà la fine con Platone, per venire poi ripresa massicciamente dalla demonologia medioevale. Sarà un suo contemporaneo, Ippocrate, ben 2500 anni fa, a considerarla il frutto di uno squilibrio degli umori e delle qualità del cervello, confinando quindi la malattia mentale al corpo. Egli può essere considerato il padre della psichiatria naturalistica, e con lui iniziarono le cure mirate al corpo quali salassi, diete, docce fredde, purganti, che troveranno ampio spazio nella pratica psichiatrica. La tesi che i disturbi psichiatrici possano essere curati tramite l'esposizione a un trauma, a uno shock di natura fisica o psichica, risale quindi all'antichità classica. Ad Epidauro sorgeva, accanto al tempio di Asclepio, il tholos, un tempietto dove i sofferenti psichici venivano rinchiusi al buio e terrorizzati con sistemi vari. Cornelio Celso, enunciò nei primi anni dopo Cristo la sua teoria terapeutica per gli alienati, che consisteva in "fame, vinculis, plagis", contribuendo a radicare nella gente e nei terapeuti o guaritori l’idea della perversità e della pericolosità del malato.

Le spiegazioni della pazzia in chiave organica e religiosa si alterneranno sino al XVII-XVIII secolo, quando fu abbandonata ogni interpretazione sovrannaturale di qualsiasi fenomeno dalla scienza ufficiale nascente di stampo empirista. La dicotomia si ripresenterà poi nell’Ottocento tra fattori psicosociali e biologici1.

Gli elementi morali, a forte connotazione cattolica, domineranno per tutto il Medioevo. La spiegazione religiosa della follia prevalse, e venne vista come possessione demoniaca, per cui rappresentava un chiaro segno della maledizione e del peccato dell’individuo, che quindi andava punito o purificato, con riti che richiedevano sempre più spesso il ricorso a pratiche di tortura e al rogo. Iniziò così, a partire dalla fine del 1400, una ferocissima caccia alle streghe –molte probabilmente sane, altre malate; ben presto la delirante follia collettiva di medici, sacerdoti e dei "puri" in generale si estese in tutta Europa sino al Nuovo Mondo, mietendo centinaia di migliaia di vittime (streghe, maghi, pazzi) che venivano incolpate, torturate e bruciate vive nelle pubbliche piazze2. All’idea di follia cominciò ad associarsi quella di pericolosità, che permetteva di trovare un capro espiatorio per le numerose calamità (carestie, epidemie) che da sempre colpiscono le popolazioni. Cominciava a prendere piede l’intolleranza verso il soggetto affetto da disturbi mentali.

Una équipe di infermiere ricercatrici canadesi ha recentemente sostenuto che le streghe erano le infermiere-medichesse del popolo, mentre i professionisti uomini servivano esclusivamente la classe dominante. Secondo questa ipotesi, la causa della caccia alle donne guaritrici, chiamate streghe, fu esclusivamente legata al potere, e vide tra protagonisti i potestà, i vicari e i medici3.

Una situazione simile, assurda e paradossale, si ripresenterà nelle grandi strutture manicomiali dell’’800-‘900, benché con dimensioni nettamente maggiori e con il coinvolgimento di masse di "diversi" - alienati, poveri, vagabondi, vecchi, che le classi al potere, in nome della razionalità, segregheranno in appositi luoghi per poi sottoporli a violenze e torture, in una delle emarginazioni sociali più atroci mai verificate. Una sorta di inversione di etichettamento tra vittima e carnefice, che si ripete nella storia, come il celebre mostro di Mary Shelley che, entrando nell’immaginario collettivo, mutuò il proprio nome dal suo creatore, il dr.Frankenstein, che forse era proprio il vero "mostro" del racconto.

Nel Cinquecento si leverà cauta qualche voce contraria alla visione demonologica persecutoria regnante, e, rischiando il rogo, studiosi come Paracelso, della Porta e Weyer portarono in primo piano una debolezza o malattia fisica su cui, dicevano, si andavano a insediare le fantasie indotte da satana.

Ma i tempi non erano ancora maturi perché si affermasse il paradigma biologico; considerando quindi la follia come un fenomeno innaturale si iniziò a collocarla, segregarla in luoghi appositi, e a rinchiuderla sistematicamente. L’internamento rappresentò così un fenomeno del tutto nuovo nel trattamento della follia che apparse verso il XVII sec., e che purtroppo durerà sino a tutto il ‘900.

In Italia si ebbe una tendenza alla specializzazione degli istituti di segregazione. I pazzi venivano raccolti in luoghi a loro riservati, non più in luoghi comuni a loro e ad altre categorie di esclusi. Nei due secoli successivi sorsero vari istituti a Firenze, Bologna, Genova, Milano, Parma e Reggio Emilia.

Gli ospizi di carità cristiana, come gli hôtel-Dieu in Francia, vennero sostituiti da istituti di segregazione e case di salute, aventi l’unica finalità di raccoglimento delle masse più emarginate, a cui venivano inflitti trattamenti che ai nostri occhi possono apparire fortemente punitivi, mentre all’epoca erano considerati terapeutici.

Osservando la situazione sociale, è il periodo delle grandi monarchie, e contestualmente alla crescente centralizzazione dello stato si assiste a un maggior accanimento "sulle streghe e sui folli", che rispondeva alla necessità di controllo delle devianze allo scopo di preservare il sistema consolidato e il progresso della scienza ufficiale. A riprova di ciò, si nota che la reclusione era decisa dal potere civile e non dai medici, e si proponeva la finalità di recupero della volontà e della morale attraverso il controllo delle passioni. In questi luoghi, a metà tra l’ospizio e il carcere, si riceveva assistenza, ma anche punizioni e contenzione, e le condizioni igieniche e di vita erano molto precarie. Il trattamento, infatti, avveniva attraverso crudeli e feroci interventi e manipolazioni sul corpo dei "devianti", insieme a mezzi restrittivi violenti (manette, catene, ecc.), nel tentativo di operare una "cura" che in realtà era molto più vicina al concetto di "espiazione" o "esorcismo", che vedeva coincidere di fatto la follia (o l’essere diverso) con la colpa, e la cura con la punizione.

Gradualmente il destino del folle si confuse con quello del povero e del criminale. La sua figura era vissuta come una minaccia alla quiete pubblica o all’ordine costituito quando, verso il Seicento, le città e i poteri amministrativi si stavano organizzando nelle forme proprie della società moderna. Le autorità preposte all’ordine pubblico disponevano, adesso, non solo di carceri, ma anche di luoghi di ricovero più o meno coatto (istituti di segregazione).

2.2 Affermazione del paradigma asilare

 

Con le nuove idee diffuse nel secondo Settecento dall’Illuminismo, e con l’affermazione dei diritti dell’uomo e del cittadino propagati dalla Rivoluzione francese, si chiusero gli istituti di segregazione e riprese a diffondersi la spiegazione della follia in termini di malattia. Ciò portò all’affermazione del sapere alienistico e del suo corollario pratico: il sistema di internamento asilare. Rilevante la figura di Vincenzo Chiarugi, che per primo affermò che gli insani non dovevano più essere legati, incatenati o percossi da medici e inservienti, manifestando inoltre la necessità di ospedali puliti, ariosi e ben regolamentati. Egli si fece portatore della visione anatomo-clinica, accostando l’ordine naturale alla fisiologia, diversamente dal suo contemporaneo francese, l’alienista Philippe Pinel, che considerava la malattia mentale uno stato di alterazione di un equilibrio normalmente esistente tra le passioni umane. Su questa base, il progetto terapeutico consisteva nel moderare e riorientare eccessi e disarmonie, per cui lo stato di alienazione mentale venne considerato modificabile, quindi curabile: se la malattia aveva cause morali passionali, la cura non poteva che essere morale. L’atto del 1794 di Pinel di liberare i reclusi al Bicêtre da "ceppi e catene" rappresenta simbolicamente l’inizio della nuova scienza psichiatrica, la scienza della liberazione dell’uomo, ma in pratica segnò l’inizio dell’era manicomiale, con la creazione di un nuovo spazio utile allo sviluppo degli studi e alla cura ( e custodia) della follia. Questa nuova istituzione, che si diffuse in tutta Europa, costituì un passo avanti rispetto ai reclusori del passato, perché era basata su obiettivi di cura e di ricerca medica, con la separazione della figura del folle da quella del delinquente. Tuttavia rappresentava la continuità con i luoghi di segregazione precedenti, dal momento che la "cura" coincideva con l’obiettivo del controllo dei malati.

Inoltre, la liberazione dei malati fu strumentale all’osservazione, così come lo fu la riorganizzazione interna dell’ospedale: Pinel intuì che si dovevano sottoporre i malati a un’osservazione continua e attenta, e per poter osservare le più autentiche manifestazioni del "male" doveva poterle distinguere dalle esasperazioni che venivano dall’incatenamento. Sin da subito il trattamento morale si accompagnò però ad atti costrittivi, e le catene furono sostituite da nuovi mezzi di coercizione: sedie e letti di contenzione, cinghie di cuoio, manette, collari, camicie di forza. Da questo periodo inizierà il calvario dei folli e la fortuna della psichiatria; la storia di quest’ultima è infatti un susseguirsi di grandi medici, mentre dei primi esistono solo etichette: isteria, astenia, mania, ecc.

La volontà segregazionista e di ordine che sta a fondamento dell’istituzione asilare non è che un aspetto. Il tratto peculiare, iniziato già nella seconda metà del ‘700, è rappresentato dalla costituzione della psichiatria come sapere scientifico, e dal differenziarsi dello psichiatra come figura specialistica all’interno del manicomio. Gli OO.PP. rappresentarono così un terreno di studio privilegiato, a partire dal quale, non va dimenticato, è stata costruita la psicopatologia psichiatrica classica.

Il processo di medicalizzazione della follia, l’ingresso cioè di quest’ultima nella medicina, rappresenta una netta e profonda cesura rispetto alle visioni precedenti, che facevano della follia un campo afferente all’area semantica della povertà, della miseria, ma anche dell’eccezionalità e della genialità. La definizione di un nuovo modello interpretativo, all’interno del quale convivevano utopistiche aspettative di guarigione, atteggiamenti compassionevoli verso quei "poveretti", ma anche disprezzo e discriminazione verso un’umanità comunque considerata inferiore e indesiderata, rappresentò comunque un’operazione densa di significati culturali4. Cioè, l’attribuzione dell’etichetta di malato mentale è il risultato di un’operazione culturale in cui confluiscono elementi diversi: il sapere medico si interseca con tradizioni popolari e con le eredità culturali e religiose, e non si possono separare i segni di una malattia dall’idea che medici e pazienti si fanno di essa.

I manicomi sono luoghi di contenzione, di isolamento; svolgono funzione di preservazione e sicurezza per la società. La funzione di esclusione sociale è resa evidente dall’eterogenea tipologia di internati (poveri, prostitute, alienati, alcolizzati, storpi, vagabondi, ecc.) accomunati solo dalla poverissima estrazione sociale. Una maniera della società moderna in fase di rapida industrializzazione di eliminare gli elementi non produttivi e le contraddizioni interne. E.Goffman definì l'Ospedale Psichiatrico come un'istituzione totale, proprio perché caratterizzato dall'impedimento dello scambio sociale esterno e dal cancellamento, nella sfera dei bisogni primari della vita umana, di spazio e tempo5. In La fabbrica della folllia6 un internato racconterà: "Vivendo così tutti insieme, sempre tutti insieme, ciascuno si sente malato, della sua malattia e di quella degli altri…".

Unica esperienza che differisce dalle pratiche del resto d’Europa, e che rimarrà inascoltata per molto tempo, era quella inglese condotta da John Conolly all’interno di un ospedale psichiatrico, in cui venne abolita ogni forma di contenzione fisica. In uno dei suoi libri più celebri7, scritto nel 1856, racconta: "gli infermieri e sorveglianti abituati al vecchio sistema erano riluttanti ad abbandonarlo e non sapevano valersi di quelle risorse che evitano gli inconvenienti dell'abolizione.... il 21 settembre scorso il sistema di non contenzione ha compiuto sette anni; durante questo periodo non si è fatto ricorso a camicie di forza, manicotti, bracciali, cavigliere, sedie di contenzione o altri strumenti di coercizione fisica, né di giorno né di notte. In questi sette anni sono stati ammessi ad Hanwell millecento pazienti curati complessivamente con il sistema non repressivo; durante quel periodo il numero dei presenti è stato quasi sempre di circa mille" .

Nel secondo Ottocento, il paradigma organicista, rappresentato da A.Verga a Milano, C.Livi a Reggio Emilia, C.Lombroso a Torino, si affermò in gran parte d’Italia: la sofferenza psichica veniva riferita esclusivamente a motivi fisici, e si perse l’interesse per gli elementi affettivi e per la storia del soggetto, relegati ai margini della cartella clinica, di recente introduzione.

Il progetto asilare andò rafforzandosi, e nel 1870 in tutta Europa si contavano oltre 600 manicomi; tra le vittime più illustri della scienza alienistica vanno ricordati R.Schumann, V.Nijinsky e F.Nietzsche, internati.

Nelle realizzazioni di fine ‘800 vennero costruiti asili che diventavano in realtà vere e proprie imprese agricole a economia chiusa, con più di mille ricoverati, quasi tutti poveri e non assistiti, utilizzati come forza-lavoro a bassissimo costo. Il soggetto internato viveva in una realtà separata, che lo rendeva sempre meno reintegrabile, meno adatto agli standard sociali e produttivi della vita urbana. Sono questi gli effetti iatrogeni dell’azione e dell’istituzione "terapeutica" psichiatrica, e proprio in questo contesto socio-economico si affermò la centralità epistemologica del concetto di cronicità della malattia mentale, sorretto dalla grande alienistica classica e dalla teoria degenerativa sorta all’interno della corrente organicista di fine secolo. Sino agli attuali D.S.M. (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, ossia il manuale diagnostico-statistico dei disturbi mentali più accreditato tra i professionisti del settore) la patologia mentale cronica è diventata l’asse portante della psichiatria, dimentica che in quel periodo storico l’istituzione che permetteva l’osservazione dei malati ai medici era di per se stessa alienante e nociva, e poteva sopravvivere solo a patto che gli internati vi rimanessero a lungo ospedalizzati.

In Italia gli psichiatri accentuarono le proprie convinzioni in senso organicista sotto lo stimolo delle teorie che venivano elaborate in Germania: quella materialistica di W.Griesinger e la classificazione di E.Kraepelin, tutt’ora in uso, secondo la quale la patologia psichiatrica si distingue in due grandi psicosi, la maniaco-depressiva e la demenza precoce. Tuttavia è da notare che questi termini si riferivano ad un comportamento, non a una malattia; a una condotta socialmente non accettabile e non ad alterazioni istopatologiche. Perciò, esse non erano condizioni mediche. Ciò nonostante, la spiacevolezza delle persone che mostravano tale comportamento "psicotico", il vero o apparente disadattamento sociale dei "pazienti" e il prestigio professionale di medici come Kraepelin furono sufficienti a definire la dementia praecox una malattia la cui istopatologia, etiologia e cura attendevano solamente gli ulteriori progressi della scienza medica. Senza però attendere che avvenissero tali progressi, la malattia crebbe etimologicamente d’importanza. Il suo nome fu cambiato dal latino al greco, cioè da dementia praecox a schizofrenia. Tutto ciò venne fatto da Eugen Bleuler (1857-1939) che, ancora oggi, secondo S.Arieti8, "accettò il concetto nosologico di base di Kraepelin, ma lo ampliò, dandogli un più vasto significato, perché egli considerava riferite alla dementia praecox molte altre condizioni, come la psicosi con personalità psicopatiche, allucinosi alcooliche, ecc...". La seguente citazione è tratta da Dementia Praecox, o il Gruppo delle Schizofrenie di Bleuler, del 1911: "Col termine "dementia praecox" o "schizofrenia" vogliamo indicare un gruppo di psicosi il cui decorso è a volte cronico, a volte contraddistinto da attacchi intermittenti e che può fermarsi o regredire in qualunque stadio, ma che non permette in alcun caso una completa restitutio ad integrum. La malattia è caratterizzata da un tipo specifico d’alterazione del pensiero..". Poiché anche Bleuler non aveva né scoperto una nuova malattia, né sviluppato un nuovo sistema di cura, la sua fama derivò, forse, dall’aver inventato una nuova malattia e, con questo, dall’aver trovato una nuova giustificazione per considerare lo psichiatra come un medico, lo schizofrenico come un paziente e la prigione in cui il primo confina il secondo come un ospedale. Così in modo lento e sottile, ma tranquillo e sicuro, Bleuler (e naturalmente Freud, Jung e gli altri pionieri della psicopatologia e della psicoanalisi) riuscirono a portare avanti la grande trasformazione epistemologica della nostra epoca medica: dall'istopatologia alla psicopatologia. Sebbene la psichiatria moderna fosse cominciata con lo studio della paralisi progressiva e con il tentativo di curarla, essa si rivolse ben presto allo studio della psicopatologia e al tentativo di tenerla sotto controllo. La psichiatria sostituì in tal modo quella che prima era stata conosciuta come medicina degli alienati; gli psichiatri da allora ebbero il ruolo di medici degli alienati, cioè di coloro che tenevano sotto controllo non le malattie, ma i devianti. Attraverso tale trasformazione pseudoscientifica dell’alienista in psichiatra, la psichiatria divenne — come è tuttora universalmente accettato — lo studio "scientifico" di un comportamento anormale e del suo trattamento "medico" 9.

2.3 Il Manicomio nell’epoca moderna

 

Nel Novecento si assistette a un rafforzamento della pratica di internamento degli alienati, legittimata nel nostro Paese dall’approvazione della legge del 1904. L’istituzione manicomiale si perfezionò, e in questo modo recluse e isolò sempre più tenacemente, oltre ai pazienti, anche se stessa: si specializzò nella funzione sociale di contenitore della follia, ma venne meno ad ogni effettivo programma di cura e di riabilitazione. La psichiatria stessa, più o meno implicitamente prigioniera del pregiudizio dell’organicità, si isterilì in una sorta di esercizio classificatorio: disturbi, sintomi, comportamenti vengono minuziosamente attribuiti a questa o a quella patologia, salvo ricorrere poi sempre alle stesse cure di carattere sedativo. Si costruirono nuovi OO.PP., molti dei quali diverranno tristemente famosi per le pratiche segregazioniste violente praticate sui ricoverati. Alla vigilia della I Guerra Mondiale si registravano 54.000 pazienti psichiatrici ricoverati in Italia.

La prima metà del secolo XX fu caratterizzata per l’inserimento di nuovi trattamenti di ordine biologico, invasivi, crudeli e disumani, che Valenstein definirà "cure disperate", quali la piretoterapia, l’insulinoterapia, l’elettroshockterapia sino alla psicochirurgia (lobotomia frontale).

Si suole dare inizio ad una psichiatria moderna con Wagner von Jauregg, insigne medico viennese che mise a punto la malarioterapia (o piretoterapia), una induzione di febbre terzana con la quale trattava i malati di paralisi progressiva, annoverata tra le malattie mentali (si tratta in realtà, di una infezione luetica). Per questa scoperta, gli fu attribuito nel 1927 il premio Nobel per la medicina. Se tuttavia queste metodologie conservano una certa continuità con alcune prassi del passato, come anche l’uso di barbiturici, calmanti, ipnotici e narcotici che si fece in seguito, l’invenzione da attribuirsi alla medicina moderna è invece l’idea di "curare" i matti provocando convulsioni. Sakel, nel 1933, sperimentò sugli schizofrenici l'insulinoterapia e von Meduna, nel 1934, la terapia convulsivante con pentilentetrazolo (o cardiazolo), la "cardiazol-shock-terapia" o Cardiazolterapia che consisteva nell’iniettare per via endovenosa, il Cardiazol e provocare un episodio convulsivo in media due volte per settimana, per un totale di circa 10 applicazioni. Tale pratica risultò pericolosa per il paziente e venne sostituita, dopo poco tempo, dall’Insulinoterapia, introdotta da Sakel. La tecnica consisteva nell’iniezione di dosi progressivamente crescenti d’insulina fino ad ottenere un coma ipoglicemico, con conseguenti crisi convulsive. Ottenuto lo scopo della crisi convulsiva, il coma veniva immediatamente risolto con la somministrazione endovenosa di glucosio.

Stupisce che medici e psichiatri che si presentavano come i portatori della razionalità scientifica, i "sani" che avevano il sapere-potere di curare i malati, non si siano mai interrogati sull’evidente rapporto tra i ricoverati e la loro classe sociale; non si resero conto che era il luogo stesso del manicomio che confermava e rafforzava la malattia e la sua genesi; che le folli e feroci pratiche cui sottoponevano i loro pazienti non avevano alcun esito terapeutico. Era la psichiatria stessa, con una nosografia che mirava ad oggettivare il sintomo, la vera prova scientifica dell’esistenza della malattia mentale. Scrive M.Moraglio10: "Era il manicomio a dare uno status, prima scientificamente esitante, alla pazzia; o, meglio, erano il manicomio e la tecnica psichiatrica che "costruivano" il malato di mente."

Dalla lettura di registri ed annali11, emerge che è proprio sulla costruzione e gestione degli OO.PP. che veniva posto l’accento, mentre la cura del malato era al fondo delle priorità dell’amministrazione pubblica e dei medici.

Il manicomio si erge quindi sull’ideologia di ordine e protezione della società dall’altro, dal difforme, rinchiuso entro un recinto che "delimita una soglia extraterritoriale ed extratemporale, in cui il corpo umano è sciolto dal suo statuto politico normale ed è abbandonato alle più estreme peripezie, e dove l’esperimento, come un rito d’espiazione, può restituirlo alla vita o donarlo definitivamente alla morte"12.

Se l’istituzione manicomiale restò immobile, viceversa, con l’inizio del XX secolo, prese avvio la più ampia rivoluzione storica nel campo delle conoscenze psicologiche. Il primo nome da ricordare, naturalmente, è quello di Freud; ma non si tratta del cambiamento prodotto da una sola persona, né soltanto della nascita della psicoanalisi. Un vasto moto di rinnovamento radicale, che lavorava a margine rispetto alla ortodossia accademica e manicomiale, sconvolse la psicologia generale e la psichiatria. In particolare, confluirono e trovarono riscontro nelle nuove tendenze i risultati dell’antropologia e della riflessione fenomenologica. Alla luce di questi nuovi indirizzi venne rivisitato il concetto di identità della persona, del rapporto tra individuo e contesto sociale, dei confini tra salute e malattia mentale.

Bisogna aspettare la seconda metà del ‘900 per la rottura epistemologica (analizzata da M.Foucault e F.Basaglia) che ha coinvolto la psichiatria nella sua funzione sociale e scientifica. La "soluzione asilare", come la definisce R.Castel, vide la sua fine con la crisi del paradigma istituzionale, dovuta a fattori economici (i vecchi manicomi si sono dimostrati costosi, inefficienti e nocivi), sociali (la nuova sensibilità per i diritti dei pazienti e la nuova consapevolezza che gli OO.PP. non fossero luoghi di cura) e altri inerenti la psichiatria stessa (le esperienze di psicoterapia delle psicosi, il rovesciamento di prospettiva che mise in primo piano i pazienti, gli effetti dannosi dovuti alla psichiatrizzazione dell’individuo).

Dalla metà degli anni Cinquanta vennero introdotti gli psicofarmaci che, indipendentemente dai risultati curativi, avevano l’effetto di attenuare i sintomi più gravi e vistosi, e di rendere più governabili i momenti di crisi. Tra le sostanze sintetizzate e sperimentate in questi anni vanno inoltre menzionate quelle psichedeliche, le "droghe della coscienza", largamente impiegate all’epoca dalla psichiatria a scopo psicoterapico, psicodiagnostico e sperimentale, o come tranquillanti e barbiturici, sino a che furono messe al bando nel 1967. È evidente l’uso ambiguo degli psicofarmaci: per un verso costituivano un ulteriore strumento di controllo dei pazienti; dall’altro, aiutando i soggetti sofferenti nei momenti più difficili, facilitavano la sperimentazione di soluzioni alternative al manicomio tradizionale.

Gli anni ’60 hanno rappresentato un passaggio ineludibile delle trasformazioni sociali, con la messa in pratica di numerosi e particolari modelli organizzativi e operativi. In Francia si attuarono la Psicoterapia Istituzionale a Saint-Alban, e la Psichiatria di Settore nel XIII Arrondissement di Parigi; in Gran Bretagna nacque l’antipsichiatria nella clinica di Kingsley Hall, creata da R.D.Laing, e a Digleton, in Scozia, M.Jones sperimentò il modello della Comunità Terapeutica; negli USA si crearono le Community mental health center. Queste iniziative peccarono spesso di mancanza di sistematicità o di eccessivo radicalismo, ma ebbero il merito di rinnovare profondamente la psichiatria su due aspetti vitali: in primo luogo recuperando l’idea di curabilità e di guarigione del disturbo mentale, cui la psichiatria istituzionale aveva di fatto rinunciato; in secondo luogo superando il pregiudizio per cui la sofferenza mentale doveva essere interpretata in base al modello medico-organicista, e aprendo la strada al trattamento psicoterapeutico. Così, tra gli anni Cinquanta e Settanta, prese piede una nuova realtà: in maniera sempre più pressante si avvertivano, specie nei paesi con struttura sociale ed economica più avanzata, i limiti della psichiatria di impianto ottocentesco e le rigidità create dall’istituzione manicomiale. L’ansia di accreditarsi come scienza sul modello della medicina aveva fatto sì che la psichiatria organicista azzerasse la soggettività dei pazzi, oggettivati di fronte all’unica soggettività salvaguardata che apparteneva al medico. Aspetto fondamentale di questo periodo fu proprio il ridare ai pazienti la loro soggettività, riconoscendoli come uomini con cui si poteva entrare in relazione.

In questo scenario si innestò, a partire dagli anni Sessanta, il movimento italiano di negazione istituzionale, e solo qui il processo di deistituzionalizzazione riuscì a modificare l’assetto istituzionale, giungendo nel ’78 alla cosiddetta "Legge 180", che sanciva la chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici. Un difficile processo che si concretizzò definitivamente solo negli ultimi anni ’90.

L’esclusione forzata dalla vita activa, dalla produzione sociale, dalle norme che definiscono l’identità comunitaria aveva stipato la follia, il folle, il diverso, in reparti per maniaci, agitati, furiosi, nell’enorme imbuto dei rifiuti della società, evidenziandone la volontà di dominio totale e generando quello che H.Arendt13 definì "l’inferno creato dagli uomini". Ma non basta chiudere l’istituzione manicomiale e porre fine alle vite bruciate tra le sue mura. La Storia sta facendo luce sulle responsabilità della società e di chi vi prese parte, e deve restituire voce, dignità e libertà alle migliaia di persone che hanno subito ogni sorta di deprivazione, umiliazione, alienazione e violenza negli istituti asilari, silenzioso olocausto consumato nel nome della scienza psichiatrica.

PARTE PRIMA

 

I.

Movimenti antipsichiatrici in Europa

 

"Il sogno è una seconda vita. Non ho potuto varcare le porte

d'avorio o di corno che ci separano dal mondo invisibile

senza rabbrividire. I primi istanti del sonno

sono l'immagine della morte: un annebbiato torpore afferra

il nostro pensiero, e non è possibile determinare

l'istante preciso in cui l'io,

sotto altra forma, continua l'opera della esistenza"

 

Aurélia

G. de Nerval, 1855

1. Un precursore: A.Artaud

 

Uno dei primi documenti che può essere considerato antipsichiatrico, interessantissimo, è la Lettera ai direttori dei manicomi, comparsa sulla rivista La Révolution surrèaliste, scritta da Antonin Artaud. Non c'é infatti a tutt'oggi manifesto dell'antipsichiatria più chiaro e attuale. Attore e artista, internato dal 1937 sino al 1946, trattato con elettroshock, egli criticò la cultura ufficiale e i valori della civiltà occidentale, denunciando la disumanità e la distanza con cui gli psichiatri esercitano una lontana ipotesi di cura mentre in realtà dominano sino a maltrattare le vite dei pazienti. Anarchico, disprezzante della scienza e della medicina, deportato dall’Irlanda e internato in cliniche e manicomi, ribadiva il diritto di ognuno a decidere della propria vita e a disporre del proprio corpo, e in una lettera a Pierre Bousquet del 1946 scrisse: "Il mio corpo è mio, non voglio che se ne disponga. .. Non voglio che lo prendano per metterlo in cella, per mettergli la camicia di forza, per attaccargli i piedi al letto, rinchiuderlo in un reparto di manicomio, proibirgli sempre di uscire, avvelenarlo, pestarlo di santa regione, privarlo di cibo, addormentarlo con l’elettricità."

Nella Lettera ai direttori dei manicomi propose il superamento della distinzione fra normalità e pazzia sino all’idealizzazione del delirio, "legittimo, logico, tanto quanto qualsiasi altra serie di idee o di atti umani. La repressione delle reazioni antisociali è tanto chimerica quanto inaccettabile. I pazzi sono le vittime individuali per eccellenza della dittatura sociale; in nome di questa individualità, che è propria dell’uomo, noi reclamiamo la liberazione di questi prigionieri".

In questa lettera sono già presenti i temi principali di cui si occuperà l’antipsichiatria, quali la "dubbia esistenza delle malattie mentali", l’accusa agli psichiatri di concentrarsi solo su vaghe classificazioni invece di tentare di "accostare il mondo cerebrale in cui vivono tanti dei (loro) prigionieri". Egli si levò contro il loro "diritto di sanzionare mediante incarcerazione a vita le loro ricerche nel campo dello spirito umano", denunciando la realtà ospedaliera in cui "i detenuti forniscono la loro manodopera gratuita e utile, nella quale le sevizie sono la regola".

A parte le eccezioni di V.Van Gogh e D.Campana, egli fu il primo paziente che ha tentato, in Europa, di rappresentare con forza un punto di vista alternativo alla psichiatria dominante. Forse anche a causa delle loro esperienze cliniche diverse e dei rapporti personali con medici diversi, per Van Gogh la follia era una malattia come tante altre, più imputabile alla propria fragilità o al proprio sforzo psichico per la pittura, che non alla società. Ma nonostante ciò, diceva: "Se son pazzo, pazienza, ma preferisco la mia follia alla saggezza degli altri". Artaud diceva invece del pittore che non fosse pazzo, ma che "i suoi dipinti erano dei fuochi greci, delle bombe atomiche. .. Così la società ha fatto strangolare nei suoi manicomi tutti coloro di cui ha voluto sbarazzarsi o difendersi, poiché si erano rifiutati di rendersi complici con lei di certe incredibili oscenità. .. Van Gogh aveva scoperto che cosa e chi era, quando la coscienza generale della società, per punirlo di essersi sottratto a lei, lo ha suicidato "1.

Al contrario, un’illustre "vittima" della psichiatria è stato E.Emingway, che morì suicida, sparandosi nel 1961 dopo una serie di elettroshock.

Il protagonismo dei pazienti, internati ed ex-internati, ha assunto ruoli di primo piano solo negli ultimi decenni del Novecento, non solo per la critica alla psichiatria, ma soprattutto per la proposta di nuove forme di cura e riabilitazione, distinguendosi per vitalità critica e capacità d’innovazione.

In questa lettera viene così rivendicato il diritto di ogni individuo di decidere della propria vita, di avere accesso alle risorse e al lavoro.

Scriverà G.Bucalo nel 19902:

"Credo sia ragionevole affermare che nessun individuo può (o deve) avere il potere di determinare, con il proprio giudizio, la vita degli altri. Credo sia giusto lottare affinché questo potere venga strappato dalle mani di sedicenti "scienziati della mente" liberando le persone dalla minaccia della psichiatria".

Lettera ai Direttori dei Manicomi

Signori,

le leggi e il costume vi concedono il diritto di valutare lo spirito umano. Questa giurisdizione sovrana e indiscutibile voi l'esercitate a vostra discrezione. Lasciate che ne ridiamo. La credulità dei popoli civili, dei sapienti, dei governanti dota la psichiatria di non si sa quali lumi sovrannaturali. Il processo alla vostra professione ottiene il verdetto anzitempo. Noi non intendiamo qui discutere il valore della vostra scienza, né la dubbia esistenza delle malattie mentali. Ma per ogni cento classificazioni, le più vaghe delle quali sono ancora le sole ad essere utilizzabili, quanti nobili tentativi sono stati compiuti per accostare il mondo cerebrale in cui vivono tanti dei vostri prigionieri? Per quanti di voi, ad esempio, il sogno del demente precoce, le immagini delle quali è preda, sono altra cosa che un'insalata di parole?

Noi non ci meravigliamo di trovarvi inferiori rispetto ad un compito per il quale non ci sono che pochi predestinati. Ma ci leviamo, invece, contro il diritto attribuito a uomini di vedute più o meno ristrette di sanzionare mediante l'incarcerazione a vita le loro ricerche nel campo dello spirito umano.

E che incarcerazione! Si sa - e ancora non lo si sa abbastanza - che gli ospedali, lungi dall'essere degli ospedali, sono delle spaventevoli prigioni, nelle quali i detenuti forniscono la loro manodopera gratuita e utile, nelle quali le sevizie sono la regola, e questo voi lo tollerate. L'istituto per alienati, sotto la copertura della scienza e della giustizia, è paragonabile alla caserma, alla prigione, al bagno penale.

Non staremo qui a sollevare la questione degli internamenti arbitrari, per evitarvi il penoso compito di facili negazioni. Noi affermiamo che un gran numero dei vostri ricoverati, perfettamente folli secondo la definizione ufficiale, sono, anch'essi, internati arbitrariamente. Non ammettiamo che si interferisca con il libero sviluppo di un delirio, altrettanto legittimo, altrettanto logico che qualsiasi altra successione di idee o di azioni umane. La repressione delle reazioni antisociali è per principio tanto chimerica quanto inaccettabile. Tutti gli atti individuali sono antisociali. I pazzi sono le vittime individuali per eccellenza della dittatura sociale; in nome di questa individualità, che è propria dell'uomo, noi reclamiamo la liberazione di questi prigionieri forzati della sensibilità, perchè è pur vero che non è nel potere delle leggi di rinchiudere tutti gli uomini che pensano e agiscono.

Senza stare ad insistere sul carattere di perfetta genialità delle manifestazioni di certi pazzi, nella misura in cui siamo in grado di apprezzarle, affermiamo la assoluta legittimità della loro concezione della realtà, e di tutte le azioni che da essa derivano.

Possiate ricordarvene domattina, all'ora in cui visitate, quando tenterete, senza conoscerne il lessico, di discorrere con questi uomini sui quali, dovete riconoscerlo, non avete altro vantaggio che quello della forza.

Antonin Artaud

2. L’Antipsichiatria e l’eredità della riflessione fenomenologica

 

A partire dalla metà del secolo scorso, si sono realizzate in molte parti del mondo industrializzato le condizioni per un mutamento profondo del paradigma psichiatrico costruito dall’Ottocento con la convergenza (ed il confronto) di poteri diversi. Si sviluppò un movimento di critica radicale ai dogmi della "scienza" psichiatrica tradizionale, soprattutto della cosiddetta asylum psychiatry, che coinvolgeva ampiamente gli stessi specialisti. La lettura di testi sociologico-storici di A.Scull, R.Castel, T.Scheff, K.Doerner, e soprattutto di quelli "archeologici" di M.Foucault danno ragione non solo del mutamento, ma del groviglio di interessi, aspirazioni, conflitti, che si sono manifestati dentro e contro la nuove istituzioni della nascente psichiatria. Nel '61 uscirono contemporaneamente in Francia Histoire de la folie di Foucault, tradotto due anni dopo in Italia e Asylums di Goffman negli Stati Uniti, tradotto in italiano nel '68 a cura di Franca Ongaro Basaglia: si trattava di testi fondamentali, insieme all'opera di J.P.Sartre, L.Binswanger e K.Jaspers, che segnarono una nuova epoca.

Sorto nei paesi anglosassoni negli anni Sessanta, il cosiddetto "pensiero antipsichiatrico" si diffuse progressivamente in tutto l’Occidente dove, pur facendo riferimento ad alcuni autori comuni quali R.D.Laing e D.Cooper dalla Gran Bretagna e T.Szasz dagli Stati Uniti, assunse forme differenti nei diversi paesi, a seconda delle tradizioni psichiatriche e delle condizioni dell’assistenza nel settore. Importanti anche i contributi per una psichiatria alternativa di F.Guattari dalla Francia, e di B.Bettelheim dagli Stati Uniti.

Ciò che accomunava le prese di posizioni antipsichiatriche era una chiara critica della psichiatria propria del dominio capitalistico – vale a dire la psichiatria tout court – ed anche, seppure meno esplicitamente, dei più generali rapporti sociali di cui essa era un’espressione ideologica3. Questi aspetti vanno anche collegati con le sperimentazioni con sostanze psicoattive che iniziarono a partire dagli anni Venti e Trenta e con il vivissimo movimento psichedelico che ne scaturì, come illustrerò in seguito (CAP.III): R.D.Laing e D.Cooper stessi si occuparono moltissimo di LSD, così come molti altri intellettuali, ricercatori e medici in quel periodo.

A sua volta queste esperienze avevano ricevuto una ricchissima eredità dalla riflessione fenomenologica nel campo della psicopatologia clinica. Le indagini in questa direzione avevano contribuito a cogliere gli aspetti umani delle esperienze psicotiche, e di quella schizofrenica in particolare, in quanto paradigma inesorabile della alienità, e a condurre ad una più articolata e consapevole conoscenza delle loro strutture portanti, o almeno di alcune di esse. La forma di vita psicotica si manifestava, così, nella sua controrealtà portatrice di significati, e riscattata da ogni reificazione naturalistica, alla condizione che fosse tematizzata nell'area di una analisi rigorosamente fenomenologica. Nell'orizzonte di una riflessione antropofenomenologica la schizofrenia si costituiva insomma nella sua radicale trasformazione della comunicazione e delle strutture spaziotemporali, e nella sua emblematica ri-fondazione in un mondo altro, nel quale si poteva cogliere una indecifrata molteplicità di significati. Ma, anche, nell'orizzonte di una radicale riconsiderazione fenomenologica, che è sempre intrisa di psicopatologia, riemergeva nella sua significazione umana e clinica l'importanza della vita emozionale, che si configurava ora come struttura portante delle esperienze schizofreniche4. Questi aspetti emersero emblematicamente negli anni Trenta nell’opera di G.E.Morselli5, che per primo effettuò un’analisi antropologica di un caso clinico, Elena, per poi dominare una parte di psichiatria dell’epoca. In particolare le indagini di Ludwig Binswanger e di Eugène Minkowski hanno cercato di colmare l'abisso che sembra separare il nostro mondo dal mondo della esperienza schizofrenica, apportando un soffio vivificatore nello schema tradizionale e statico della psichiatria. In seguito questa corrente fu schiacciata dalla pesante eredità del paradigma neurologico alle spalle, e dalla potente ed incalzante fioritura di quello psicoanalitico da un’altra parte. Elementi della riflessione fenomenologica riapparsero poi a partire dal Secondo Dopoguerra, nell’antipsichiatria anglosassone come nel movimento antimanicomiale italiano, costituendo la base per una solida alternativa all’asylum psychiatry.

L’antipsichiatria ebbe il merito di rompere violentemente con la rigidità storica della psichiatria tradizionale; si scagliava contro tale pseudoscienza, strettamente collegata alla neurologia, basata sul modello medico che considera la malattia mentale come malattia del cervello (W.Griesinger), e sull’assoluto protagonismo degli psichiatri, denunciandone abusi e pratiche disumane e nocive. Mentre infatti i nuovi tecnici (alienisti, freniatri, infine psichiatri) giustificavano le loro manovre oppressive e distanzianti sui pazienti con alte motivazioni mediche e curative, la convergenza dei poteri in gioco poteva dispiegare tutta la propria efficacia progettuale.

La scienza ufficiale venne accusata di concentrare la propria attenzione sulla malattia individuale e sulle sue basi biologiche; un punto fondamentale dell’antipsichiatria, fu infatti l’interpretazione sociale del disagio psichico, visto come devianza, come violazione delle regole del vivere sociale. Agli "antipsichiatri" interessava il potenziale patogeno delle circostanze che generano confusione e pongono l’individuo in situazioni false e irrealizzabili, sì che lo studio di queste circostanze potesse, con una certa approssimazione, essere considerato di natura patogenetica, ma non eziologica6. Il malato veniva visto come vittima dell’oppressione sociale, e la sua incapacità di conformarsi ai canoni della società veniva repressa come reazione antisociale. Importante a questo proposito il concetto di violenza, che l’individuo subirebbe nel contesto socioculturale: in famiglia, dove vengono inibite le potenzialità del bambino; nella società dove ogni manifestazione di ribellione è etichettata come follia; nelle istituzioni terapeutiche dove le cure, in realtà, impediscono all’individuo di liberarsi da questi condizionamenti. Come questi pensieri abbiano informato la cultura degli anni della contestazione lo si può vedere nel film Family Life7, che stigmatizza, con ferocia glaciale, l’influenza della famiglia nell’alienazione e nella castrazione dei bisogni profondi dei giovani. La pratica psichiatrica tradizionale sarebbe quindi considerata antiterapeutica in quanto i ruoli medico - paziente riprodurrebbero i rapporti di potere e di sopraffazione alla base dei disturbi da curare.

Alla psichiatria venne riconosciuta una funzione organica al "sistema", non solo di etichettamento delle persone non corrispondenti a un determinato modello convenzionale, ma anche quella di farsi carico e provvedere al loro recupero, al loro reinserimento e, nel caso non fosse possibile ciò, di garantire la loro esclusione per mezzo dell’istituzionalizzazione.

Il movimento antipsichiatrico non si limitava a chiedere un ammodernamento dell’assistenza psichiatrica, ma pretendeva un mutamento radicale nell’approccio al problema e all’individuo. L’"anti" non stava per contro, ma per prima di: l’antipsichiatria doveva essere ciò che stava prima del giudizio psichiatrico, prima della classificazione diagnostica. In questo senso essa si costituì come un approccio di studio soggettivistico e interrelazionale, mirando alla creazione di strutture terapeutiche alternative, prevalentemente antistituzionali e autogestite, in contrapposizione alle caratteristiche coercitive ed autoritarie della psichiatria istituzionale. R.D.Laing e D.Cooper, ad esempio, indipendentemente l’uno dall’altro, misero in pratica a Londra tali progetti alternativi, ottenendo ottimi risultati ma venendo osteggiati violentemente dalle autorità accademiche.

L’antipsichiatria si è definita, quindi, attraverso una doppia negazione: la negazione dell’istituzione e la negazione dei suoi concetti fondamentali.

La malattia mentale venne ad essere affrontata da un punto di vista esistenzialista e non medico; questa posizione trovava il suo fondamento nella mancanza di prove dell’esistenza di un deterioramento di tessuti o di alterazioni nei neurotrasmettitori nel cervello dei "malati" di mente, fatta eccezione per le malattie neurologiche. Al contrario, era stato dimostrato che le uniche differenze riscontrate erano causate dagli stessi trattamenti: elettroshock, neurolettici, antidepressivi. A risultati opposti giungevano le ricerche della biopsichiatria, forte dei nuovi progressi in psicofarmacologia, ma che purtroppo con il tempo si videro essere troppo spesso sostenute e manovrate dalle compagnie farmaceutiche, e appoggiate dagli interessi dello stato e delle famiglie8.

Le teorie alternative, non considerando, invece, la pazzia come una malattia organica, si oppongono alla competenza in merito di medici psichiatri, di cui anzi denunciavano l’abuso e il danno dei metodi. Alcune mettono in dubbio che sia affatto una malattia, ritenendolo solo una divergenza inconciliabile di opinioni o una diversità dello stesso tipo. Altre in teoria, o soltanto di fatto, agiscono come trovarsi di fronte un disagio ma puramente psicologico, anche con concomitante disagio sociale (società o cultura o famiglia sono "malate"). Altre ancora mettono del tutto in dubbio che la pazzia esista. Tali differenze di vedute si devono al fatto che in realtà si potrebbe dire che non sia mai esistito un vero movimento antipsichiatrico, in quanto i cosiddetti padri hanno da sempre rifiutato tale etichetta, nella consapevolezza che essa non è una teoria, né un’ideologia, né tanto meno una scuola di pensiero a cui aderire o una pratica specialistica. Tuttavia sarebbe falso affermare che R.D.Laing e D.Cooper rifiutassero la "terapia" sia psicologica che farmacologica del disturbo psichico, come conferma la lettura dei loro stessi scritti. Cooper, ad esempio, riconosceva che il problema degli psicofarmaci non fosse tanto quello della somministrazione, quanto quello, ben più importante, del come essa avvenisse. "Vi dovrebbe essere un comportamento chiaro in modo che sia il medico, sia il paziente sappiano quel che si sta facendo."9.

D.Cooper, a cui si deve il termine di "antipsichiatria", coniato nel 196710, se ne dissociò presto, cosi come fecero R.D.Laing e T.Szasz, e, in Italia, sia F.Basaglia e gli altri psichiatri democratici, sia chi preferì definire il proprio approccio, per esempio, "non psichiatrico", come G.Antonucci11. I suoi oppositori si sono invece serviti spesso di questo nome per farvi rientrare una serie di posizioni psichiatriche ritenute scomode, ed ogni teorizzazione esperita come minacciosa rispetto al complesso ideologico ed alla pratica medica dell’establishment psichiatrico ufficiale. L’"antipsichiatria" ha funzionato quindi, innanzitutto, come etichetta, per essere applicata a correnti di pensiero diverse e disparate, e a vari discorsi di critica della psichiatria, persino discordanti rispetto alle sue tematiche centrali.

Nonostante le polemiche, l’antipsichiatria ha contribuito notevolmente a fornire il modello per una psichiatria diversa, nel tentativo di fornire una risposta più vera ai bisogni presenti nella sofferenza psichiatrica. Le prime esperienze di nuova psichiatria hanno insegnato che era possibile porsi praticamente al servizio di bisogni nuovi di trasformazione sociale, di bisogni elusi sia dalla normalità dominante sia dalla psichiatria ufficiale stessa. Il nucleo dell’antipsichiatria (ossia la negazione della nozione tradizionale di malattia mentale, la diluizione dei confini tra normalità e anormalità sino all’inversione dei termini, e l’enfasi posta sul contesto interpersonale e sociale), sarebbe tutt’altro che recente nella psichiatria occidentale, e si possono già rintracciare alcuni spunti in Freud, e poi in Meyer, H.S.Sullivan e altri, oltre alla già citata corrente antropofenomenologica. Tuttavia sarebbe azzardato appiattire le tematiche proposte da questo "movimento" in quel determinato periodo storico, riportandole all’interno della "normalità psichiatrica"12. L’antipsichiatria inglese, a tutti coloro che hanno saputo leggerla nel suo insieme, ha insegnato qualcosa di nuovo, che era qualcosa di più delle posizioni frammentate e delle tesi a sé stanti precedenti.

3. Protagonisti

 

3.1 Ronald D.Laing (Glasgow, 1927 - Saint-Tropez, 1989)

 

E’ del ’59 L’io diviso di Laing, a cui seguì due anni dopo L’io e gli altri. Psichiatra e psicoanalista scozzese, analizzò la scissione che caratterizza l’Io dello schizofrenico, e tentò di dimostrare l’intelligibilità dei sintomi schizofrenici, che risultano razionali se considerati in rapporto al contesto familiare e sociale. Negò quindi l’esistenza di una linea di demarcazione tra normalità e follia, approfondendo l’analisi dell’alienazione dell’uomo considerato "sano", e dando un’ardita valutazione della malattia mentale come processo di guarigione sotto forma di viaggio all’interno di sé stessi. Egli applicò i suoi principi nella Tavistock Clinic, a Londra, che in realtà era molto più simile a una comune sessantottesca, nel tentativo di abolire la relazione medico – paziente in favore di un rapporto paritario, se non addirittura con la credenza che "forse i pazzi ne sanno più di noi sul mondo". In questi anni aprì uno studio a Londra per condurre la sua attività privata; qui svolgeva anche sedute di con LSD, ritenendo tale sostanza di grande aiuto nella psicoterapia.

Nel 1965 fondò, assieme a D.Cooper, A.Esterson e altri la Philadelphia Association, che si prefiggeva di elaborare trattamenti alternativi alle terapie psichiatriche tradizionali. Nello stesso anno organizzò a Londra una comunità terapeutica, la Kingsley Hall, gestita dagli stessi malati. L.Mosher in un’intervista13 spiega che "la concezione originale era che i professionisti dovessero vivere là dove erano le persone, strettamente insieme, ... L'ambiente stesso è uno strumento terapeutico .., una comunità egualitaria dove i confini tra sano e insano fossero non definiti da gerarchie e ruoli". Kingsley Hall ha mostrato che gli schizofrenici possono essere guariti in una istituzione aperta dove i ruoli dei residenti non fossero definiti rigidamente e il potere e lo status delle gerarchie fosse minimizzato. Gli strumenti medici psichiatrici tradizionali sono "come minimo irrilevanti ma spesso dannosi per il pazzo," conclude Mosher.

Laing cercò di ridefinire l’esperienza psicotica attraverso una comprensione di tipo umanistico, per reintrodurla all’interno di una quotidiana attenzione e tolleranza della società, opponendosi fermamente all’ospedalizzazione psichiatrica delle persone destinate a divenire lo psicotico della famiglia. Egli vedeva nella pazzia un tentativo dell’individuo di adattarsi o di curarsi spontaneamente dalle situazioni folli in cui è costretto a vivere. Quindi, alla stregua di un naturale processo di guarigione, essa andava aiutata nel suo corso, e non ostacolata o bloccata tramite trattamenti psicofarmacologici massicci o degradanti esperienze negli istituti.

A lui si deve l’introduzione in psicoterapia del concetto di "alienazione sociale" e della necessità dello studio dei sistemi storici non solo interpersonali per la comprensione del funzionamento psichico e dei suoi disturbi. Nella sua enfasi data alla terapia come attività sociale e politica, Laing mette in dubbio le fondamenta su cui è costruita la nostra consapevolezza culturale generale, specialmente la nostra nozione di salute mentale. Secondo Laing, come è esposto nel suo libro La politica dell’esperienza, del 1967, "la persona normalmente alienata, in ragione del fatto che agisce più o meno come qualsiasi altra persona, viene considerata sana" e "la nostra pazzia collusiva è ciò che noi chiamiamo salute mentale".

Negli anni ’80 egli definì la sua pratica Psicoterapia Integrata.

Dopo che D.Cooper coniò il termine di antipsichiatria, i loro due nomi vennero associati sempre più, e le teorie di Laing furono inglobate nella categoria del radicalismo politico, molto più adatta al suo collega. Cooper, infatti, si caratterizzò sempre per il suo estremismo, e politicizzò in un senso molto duro e aggressivo la critica alla psichiatria tradizionale, già presente nei testi di Laing. Questi raccontò nell’’88 in un intervista a Bob Mullan: "..pensai che non mi avevano fatto certo un buon servizio editoriale ...Molti giornalisti... non hanno pubblicato quello che avevo veramente detto perché erano determinati a conservare questa storia dell'antipsichiatria e di un movimento antipsichiatrico che non é mai esistito nel senso che dicevano loro. Consideravano Cooper, oppure Cooper e Laing, i due profeti dell'antipsichiatria. Più e più volte avevo detto a Cooper: "David, é un enorme disastro mettere in giro questa espressione". Ma lui aveva un lato diabolico che lo portava a pensare che se lo meritavano... E questo a me non piaceva".

In Italia il pensiero di Laing trovò difficoltà nell’essere apprezzato, in quanto l’interesse era, in modo preponderante, di carattere politico, mentre egli, dicevano, si occupava di famiglie (Jervis Comba). Il suo testo del 1959, L’Io diviso, fu pubblicato solo dieci anni dopo da Einaudi. Negli anni ’80 si registra un’inversione di tendenza, con la pubblicazione di recensioni di alto livello culturale e morale che dimostravano finalmente l’apprezzamento e la lode nei suoi confronti.

Nel nostro Paese l’azione psichiatrica venne vissuta maggiormente come una propaggine dell’ideologia propria dei partiti di sinistra, di matrice comunista, e doveva pertanto inserirsi nel progetto della lunga marcia verso le istituzioni, di cui si voleva prendere possesso, o nella contestazione radicale del sistema.

.2 David Cooper (Città del Capo, 1931- Parigi, 1986)

 

D.Cooper spinse ancor più la polemica contro la cultura tradizionale di Laing fin sui campi della politica e dei costumi piccoloborghesi. Attaccò a fondo le istituzioni (famiglia, ufficio, scuola, università, chiesa, partito, esercito, ospedale) destinate a perpetuare una condizione da cui non si sfugge se non con la pazzia o con la rivolta.

Dal 1962 al 1967 realizzò una équipe sperimentale per giovani schizofrenici denominata Villa 21. "Villa 21" in realtà era un reparto, ed è stata la prima esperienza "antipsichiatrica" all’interno di un ospedale psichiatrico pubblico partendo dall’idea di base della comunità terapeutica, ma con un’ideologia terapeutica orientata verso la famiglia. I risultati di questa esperienza confluiscono nel libro intitolato Psychiatry and Anti-Psychiatry del 1967: "Questo lavoro ha studiato razionalmente una forma di terapia che non si appunta sul paziente individuale ma sul gruppo o sul sistema di comunicazione di cui egli fa parte, sia all’interno della sua famiglia, sia all’interno dell’Ospedale Psichiatrico"14. In questo testo Cooper usa per la prima volta il termine "antipsichiatria" che da quel momento rimane a designare l’intero movimento. Il tentativo di Cooper di realizzare un reparto antipsichiatrico nel quale i ruoli dei pazienti e dello staff medico e infermieristico fossero completamente sovvertiti si scontrò contro l’istituzione che dopo un breve lasso di tempo impedì il proseguimento dell’esperienza. Cooper trasse le conseguenze di questo primo esperimento affermando di "aver stabilito i limiti del mutamento istituzionale" suggerendo che un ulteriore "passo avanti significa in definitiva un passo fuori dall’ospedale verso la comunità"15. Nello stesso volume, esprime le sue difficoltà nell’accettare il concetto di "trattamento"dei pazienti: "Trattare è un termine estremamente ambiguo .. è essenzialmente una perversione meccanicistica di ideali medici, che è all’opposto dell’autentica tradizione del curare…Il trattamento ha il duplice scopo di rendere il paziente più accetto agli altri .. Curare, invece, ha lo scopo di aiutare una persona a rimettersi in sesto dopo una brutta caduta".

Rifiutò l’ipotesi dell’esistenza della malattia mentale, considerando la schizofrenia una giusta risposta a una situazione familiare insopportabile; nella famiglia tradizionale vedeva infatti la prima fonte di oppressione, che, costringendo l’uomo entro schemi convenzionali, ne distrugge la libertà e l’individualità. La famiglia viene accusata di creare sempre nuovi sudditi del sistema: occorrono consumatori, carne da cannone, strutture di ubbidienza al potere. Gli individui così condizionati e oppressi possono affollare le fabbriche e ricostituire nuove coppie stabili, procreare altri figli, ricreare altre famiglie, e così perpetuare il ciclo. In questa visione, tutti coloro che vogliono uscire da questo ingranaggio di mediocrità e di mortale ubbidienza, diventando cittadini liberi, vengono etichettati come nevrotici o pazzi. La famiglia viene dunque individuata come luogo primario di violenza, non solo nei casi di abuso sessuale o maltrattamenti, ma anche solo attraverso il tipo di educazione conformista impartita dai genitori. E’questa la tesi proposta dal libro La morte della famiglia16 che suscitò grande scalpore. Vi si legge: ".. per prima cosa c'è questo stare raggruppati insieme, basato sul senso d'incompletezza del singolo individuo. … In secondo luogo la famiglia si specializza nello stabilire dei ruoli per i suoi componenti, invece di porre le condizioni che consentano loro di assumere una libera identità". La rottura dei falsi vincoli e dei falsi rapporti dovrà segnare una prima tappa verso il cuore della genuina realtà dell'individuo: "Quel che possiamo fare di meglio per la liberazione degli altri è quello che faremo in più per liberare noi stessi".

Altro interessante suo libro è La grammatica del vivere17, in cui Cooper lascia il mondo occidentale borghese zeppo di valori inconciliabili con la sua etica per migrare nel Sud America in mezzo alle ultime tribù di hippy, dove si pratica il libero amore ed il matrimonio è visto come una fucina di nevrosi. Qui precisa che "l’antipsichiatria tenta di capovolgere le regole del gioco psichiatrico come preludio all’abolizione di tali giochi", ed elenca le sue caratteristiche principali: l’antidiagnosi, il rapporto paritario tra psichiatra e paziente, la necessità di una non interferenza attiva che tenda all’apertura dell’esperienza piuttosto che alla chiusura, il rivoluzionare la società borghese.

3.3 Thomas Szasz (Budapest, 1920)

 

Il testo principale di Szasz è Il mito della malattia mentale, del 1962, ormai un classico della psichiatria, in cui sostiene che non ci sono basi scientifiche a fondamento della teoria medica, né ci sono appigli per giudicare malato di mente qualcuno. Il suo lavoro, ancor più nelle pubblicazioni successive, si pone il compito di demitologizzare e deideologizzare la psichiatria, e lo vede impegnato nel campo dei diritti civili dei malati mentali contro il sistema giuridico attuale. Secondo lo psichiatra e psicoanalista, non esistono, nelle cosiddette malattie mentali, alterazioni organiche permanenti del cervello. Il termine "malattia" è quindi soltanto una metafora e una mistificazione, per descrivere la sofferenza del tutto umana determinata da conflitti morali.

Un filo comune percorre tutti i suoi libri, trovando nel concetto di "salute mentale", in quello di "pazzia", in quello di "cura" e in quello di "droga" i luoghi in cui si annida non solo l’inganno ideologico che maschera quanto vi è di inconfessabile nell'intenzione politica, ma anche quella riduzione di libertà che l'uomo sperimenta su di sé non per effetto delle "strategie del Potere", cosa che gli uomini conoscono dall'inizio della loro storia, ma per effetto delle persuasioni indotte dal "Sapere", rispetto a cui le strategie del Potere, per quanto accanite e brutali, sono povera cosa18.

Egli definisce il trattamento coatto un crimine contro l’umanità.

Egli svolse il ruolo di accusatore nel famoso "Tribunale Foucault sullo stato della Psichiatria" riunitosi a Berlino nel 1998. Scopo dichiarato del Tribunale era "un’offensiva contro il trattamento ed il ricovero forzato e la attuale concezione in termini medici della pazzia, che ha la conseguenza di spogliare le persone della propria autodeterminazione e dell’essenza della loro dignità, questo per mano di medici accademici che hanno una loro particolare visione della società e che perseguono interessi pecuniari nell’esercizio della loro professione. Il sistema della giustizia lavora fianco a fianco a questi accademici, è loro complice ed agisce come corporazione legalizzante. Ne risulta che la psichiatria è il più largo dominio nella società che è escluso da ogni controllo sociale, controllo che invece dovrebbe agire su ogni potere agente, in ogni stato di democrazia costituzionale ... ".

Il processo è terminato con una sentenza di accusa che così si conclude: "[…] esigiamo l'abolizione delle leggi sui malati psichici così che la psichiatria sia responsabile nei confronti della società. Da questo segue l'obbligo di risarcimenti economici. Inoltre denaro pubblico deve essere messo a disposizione anche per dignitose e umane alternative alla psichiatria."

4. Altri modelli di psichiatria alternativa

 

4.1 Inghilterra: la Comunità terapeutica

 

Gli anni di guerra, con le pressanti esigenze di carattere collettivo che ponevano l’accento sulla mutualità e l’utilizzo di ogni risorsa, non ultima quella di recuperare per quanto possibile il personale militare temporaneamente inutilizzabile per traumi psichici connessi agli eventi bellici, o quanto meno il loro reinserimento in attività sociali, fecero da incubatrice a una vivace sperimentazione. Le esperienze della psichiatria inglese di quel periodo avevano infatti messo in luce l'inadeguatezza delle istituzioni psichiatriche e dei metodi tradizionali di trattamento. Il fervore di iniziative di quegli anni ebbero un seguito e uno sviluppo nel periodo successivo al conflitto mondiale.

I primi esperimenti di Comunità terapeutica si erano proposti come tentativo di integrare la psicoanalisi, la psichiatria sociale e la psicologia di gruppo. Dalla prima esperienza di Bion19 a Northfield, Inghilterra, a quelle di T.Main, M.Jones e R.D.Laing, assistiamo al prevalere alterno di alcune modalità su altre, ma con alcune caratteristiche di base comuni a tutte. Secondo Fornari20 il termine Comunità deriva da una duplice radice linguistica: cum moenia (= luogo protetto da mura, cioè delimitato e difeso) e cum munus (=luogo dei doveri, dei doni). In questo senso essa è il luogo dei ruoli (delle regole) e dei regali reciproci. Queste radici etimologiche danno ragione dei delle caratteristiche strutturali di ogni Comunità: dove contano l’architettura delle regole e il tipo di relazioni che i soggetti stabiliscono con esse. I concetti di confine spaziale e di ruoli in interazionereciproca sono quelli che K.Lewin21 ha indicato caratterizzanti "ogni campo psicologico".

La Comunità si contraddistingue inoltre per il fatto che i residenti sono tenuti a partecipare ad un programma sin dal momento della loro ammissione; ovviamente ad ogni programma corrisponde una teoria di riferimento. Lo spirito del lavoro comunitario dovrebbe favorire un continuo scambio di informazioni ed un continuo confronto tra gli operatori (psicoterapeuta, responsabile delle attività, farmacopeuta, ecc.); così facendo si facilita la creazione di legami orizzontali tra loro, senza il prevalere di una tecnica sull’altra, e non verrebbe sottovalutato il potere dell’utente, costituito dalla realtà dei suoi bisogni22.

T.Main, uno dei padri fondatori e teorico del "modello inglese", la descrisse come un tentativo di utilizzare la struttura ospedaliera come una comunità, il cui scopo immediato era la piena partecipazione alla vita quotidiana di tutti i suoi appartenenti, mentre l’obiettivo finale era la reintegrazione dell’individuo nella vita sociale23. Tomhas Forest Main, reduce dalla brillante esperienza di Northfield nel Tavistok Institute of Human Relations, assunse la direzione del Cassel Hospital dal ’47 al ’76 realizzando un modello istituzionale psicoanaliticamente orientato, destinato a diventare un punto di riferimento storico. Main era convinto che la dicotomia fra malati e sani all’interno dell’ospedale non fosse adatto per curare i disturbi nervosi; puntò quindi senza indugi a realizzare una Comunità-Ospedale24. Sotto la sua guida il Cassel si trasformò da ospedale a indirizzo psicoterapico in un sistema che comprendeva un'area di vita comunitaria, molto simile a quella di ogni Comunità Terapeutica, in cui la figura chiave era rappresentata dalle nurses, e l'area del trattamento, per lo più individuale, condotto da psicoterapeuti, prevalentemente medici di formazione analitica. Quindi, vi era l'utilizzazione di alcuni principi della Comunità all'interno di un sistema più ampio in cui parte dello staff assumeva un ruolo psicoterapico25. Da un punto di vista ideologico il Cassel si discostava dall'etica comunitaria, ponendosi nell'ottica di fornire, con una precisa strategia terapeutica, un aiuto al paziente nel raggiungimento di una capacità di controllo dei propri sentimenti e della propria esperienza: la struttura del sistema forniva un modello per un diverso funzionamento interno del paziente26.

L'inesauribile capacità d'azione di Main lo portò ad iniziative veramente originali a quell'epoca, come l'istituzione dell'Unità Familiare che ricoverava madre e bambino o l'intera famiglia per focalizzarne i problemi relazionali, o l'utilizzazione delle psicoterapie brevi soprattutto nel campo delle disfunzioni sessuali, ma anche ad iniziative che travalicavano i confini dell'istituzione. Sul finire degli anni '50, Main cominciò a pensare all'ospedale non solo come Comunità terapeutica autonoma, ma anche come risorsa per tutta la Comunità locale27.

D'altro canto, il nome di Maxwell Jones, con le sue teorizzazioni28, venne a poco a poco identificato con il movimento stesso delle Comunità Terapeutiche, da lui iniziato all'Henderson Hospital negli anni che vanno dal '46 al '59. Jones fondò una comunità di stampo maggiormente psicosociale, con gruppi di discussione democratici e con la partecipazione di rappresentanti degli utenti in tutti i gruppi istituiti. Questo era il focus della Comunità in cui ogni fatto riceveva un feed-back da tutto il gruppo, venivano formulate proposte e prese decisioni senza che lo staff assumesse una posizione predominante (role-blurring). Nella ricerca commissionatagli da Jones, R.Rapaport29 sottolineerà come, pur mancando una esplicita impronta psicoanalitica, la cura riusciva meglio là dove i pazienti allacciavano rapporti significativi con figure chiave dello staff. Occupandosi fin dall’inizio del recupero di soggetti con gravi problemi di disadattamento sociale: crimini, violenze, aberrazioni sessuali, droga, alcool etc., Jones basò la sua metodologia su una comunicazione aperta, una minor rigidità nei rapporti gerarchici fra medici, infermieri e pazienti, riunioni strutturate quotidianamente di tutta l’unità ospedaliera e numerosi sottogruppi di attività. Non veniva preso in considerazione un vero e proprio trattamento psicoterapico anche se Jones era interessato allo psicodramma e invitava spesso Moreno: ciò che soprattutto veniva valorizzato era il significato globalmente terapeutico dell’impianto comunitario. Ad un certo punto del suo percorso, Jones fu indotto ad un maggior interesse per la psicoanalisi dalle riflessioni sul lavoro che stava sviluppando e dalla natura dei problemi di molti pazienti di cui si occupava. L’Henderson divenne la Comunità terapeutica più nota in Inghilterra e rimane un modello nel trattamento dei disturbi di personalità, secondo un’ottica comunitaria. Diversi furono i motivi della sua fortuna: fra essi si possono annoverare il clima socio-culturale di quegli anni, le esigenze di nuove forme di trattamento, i primi fermenti anti-istituzionali, la particolare formula di principi e metodi che si prestavano ad essere adottati anche da chi non aveva una particolare preparazione alle spalle (a differenza del Cassel che, per il suo marcato imprinting psicoanalitico, comportava un lungo periodo di training personale per gli operatori dello staff); non ultimo il carisma personale di Maxwell Jones30. Sul finire degli anni Cinquanta Jones volle sottoporre l’Henderson a una sorta di legittimazione attraverso l’analisi di un gruppo di sociologi guidati dall’antropologo americano Robert Rapoport. Questi arrivò ad elencare i principali valori che i componenti dello staff attribuivano al trattamento31:

  • Democratisation: intesa come equa condivisione del potere decisionale fra pazienti e operatori;

Permissiveness: vale a dire una reciproca tolleranza dei rispettivi modi di essere, anche se devianti dalla "norma";

Communalism: riferito ad uno stile confidenziale nelle relazioni alla condivisione di tempo e spazio e ad una comunicazione aperta;

Reality confrontation: ovvero sia il confronto, nel vivere quotidiano e nelle innumerevoli riunioni di gruppo, con le interpretazioni di tutti i componenti sui rispettivi comportamenti per come essi si manifestavano.

Si tratta di principi che non sono riconosciuti come fattori terapeutici attivi, ma contengono in sé implicazioni più ampie. Ad esempio, la permissività consente la catarsi, l’autorivelazione, e l’assunzione di responsabilità; il confronto con la realtà può promuovere l’autoconsapevolezza e lo sviluppo della propria identità; la democrazia l’autogestione e la crescita dell’altruismo; il sentimento comunitario l’interazione con gli altri, la condivisione delle responsabilità e lo sviluppo di nuove relazioni sociali più ampie.

4.2 Francia: Psicoterapia Istituzionale e Psichiatria di Settore

 

a) Psicoterapia Istituzionale

 

La psicoterapia istituzionale è una pratica nata in Francia e cresciuta in una realtà sociale e sanitaria ben specifica, con differenze notevoli rispetto all’Italia. La psicoterapia istituzionale ha numerosi predecessori. Bleuler stesso descriveva già come la struttura ospedaliera potesse arrivare a rinforzare la sintomatologia psicotica. La psicoterapia istituzionale non è che un approfondimento di questa idea: l’organizzazione di strutture adattate al tipo di malati che si curano. Il termine di psicoterapia istituzionale compare per la prima volta nel 1952 ad opera di Koechlin e Daumezon che tentano così di sistematizzare concetti e pratiche che si andavano sviluppando in Francia da alcuni anni. L’ispiratore e il promotore fu François Tosquelles, che, scappato dalla trappola franchista, nel 1940 sbarcò all’ospedale psichiatrico di Saint Alban, considerato il mitico luogo di nascita della psicoterapia istituzionale. Tosquelles si mise d’impegno alla trasformazione dell’ospedale. Era l’ospedale che doveva essere trattato con urgenza, perché si era visto che produceva la propria patologia, confinando curanti e curati nella cronicità. Si abbatterono così le mura, si tolsero le barriere, le serrature e le divisioni rigide, fondando uno dei suoi principi fondamentali: la libertà di circolazione. Nella consapevolezza che la malattia mentale non fosse riducibile all’ambiente e che non fosse sufficiente curare l’ambiente per curare i malati, venne messa in primo piano la patoplastica, cioè la possibilità di modificare la sintomatologia attraverso un lavoro sull’ambiente. Ben prima dell’era dei neurolettici la sua pratica aveva trasformato l’ambiente dell’ospedale psichiatrico in un luogo umano di cura, in cui i reparti per gli agitati, i violenti, i sudici non avevano più ragione di esistere e perciò erano stati soppressi.

L’altro obiettivo era di curare gli psicotici con i mezzi della psicoanalisi ma senza divano e senza contratto imposto di parole. I malati dovevano prendere coscienza delle loro condizioni di soggiorno e di cura, dei loro diritti di scambio, di espressione e di circolazione, attraverso la conquista progressiva della parola, ritenuta apprendistato reciproco del rispetto.

Altro principio di rivoluzione permanente: il lavoro che trasforma una struttura di cura in istituzione, un’équipe curante in collettivo. Questo lavoro non doveva riguardare solo i medici o gli specialisti, ma comportava una complessa concatenazione in cui i malati stessi avevano un ruolo primario.

Con il termine di eterogeneità dei membri del personale può essere indicato un altro principio di base. Più c’è eterogeneità, più c’è possibilità di inventiva, di emergenza di creatività, con una molteplicità di registri di funzionamento, di compiti, di ambienti diversi. La psicoterapia istituzionale è un costante lavoro di ricentramento soggettivo, cioè un tentativo di mettere il soggetto al centro della sua vita, puntando sullo sviluppo del senso di responsabilità.

Dopo Saint Alban, negli anni Cinquanta la psicoterapia istituzionale si è sviluppata in numerose strutture pubbliche e private. Comunque il principio di base è unico: è la struttura che deve adattarsi alla singolarità del paziente e non il paziente irregimentato in una organizzazione dei servizi psichiatrici rigida.

Tuttavia, negli anni ’60 e ‘70, il pensiero radicale di chiusura dell'istituzione del manicomio si trovò in forte contrasto con il riformismo rappresentato dalla psicoterapia istituzionale che non mirava a chiudere l'istituzione del manicomio, ma a produrre una trasformazione interna limitata, cambiando ma non rinunciando all'istituzione.

 

b) Psichiatria di Settore

 

Il modello francese di settore ebbe inizio nel XIII arrondissement di Parigi, per opera di P.Paummelle. Basandosi sul principio della continuità terapeutica, questa prassi psichiatrica tentò di razionalizzare l'assistenza psichiatrica della città di Parigi suddividendo in parti l'ospedale psichiatrico e facendo corrispondere ad ognuna di esse un territorio. Allo stesso tempo ciascuna circoscrizione veniva dotata di servizi e presidi per la cura, la riabilitazione e la prevenzione.

In generale, si può dire che questo modello si inserisce nel programma di mutamento e razionalizzazione dei rapporti tra manicomio e società civile, tradizionalmente chiusi, con l’intenzione di portare all’esterno dell’istituzione asilare l’opera assistenziale degli operatori. Esigenza fortemente sentita dalle esperienze di psichiatria alternativa che si andavano costituendo in tutta Europa, di grande portata ideologica, culturale e scientifica. Era un progetto che faceva esplicito riferimento a esperienze concrete, come Saint-Alban, Versailles e Orléans, e auspicava la psicoterapia istituzionale, non psicoanalitica bensì vicina alla comunità terapeutica, togliendo agli infermieri la funzione custodialistica che sino ad allora avevano avuto, per creare un lavoro d’équipe, con una precisa volontà democratica.

La Psichiatria di Settore consiste nel dividere il manicomio in una serie di unità di cura e di ricovero, ciascuna delle quali ospita solo pazienti provenienti da una specifica area geografica e non, come accadeva prima, da tutta la provincia o da tutto il Paese, con suddivisioni per classificazione diagnostica, senza nessun riferimento al contesto personale e culturale di origine. Inoltre, prevede che in ogni zona (settore) vengano istituiti dei servizi psichiatrici ambulatoriali, collegati all’ospedale psichiatrico di zona. In alternativa, una stessa struttura veniva divisa in diverse unità di cura e ricovero, distinte in base alla provenienza dei pazienti.

Gli scopi che si propone di perseguire sono pertanto due: l’umanizzazione, la liberazione del ricoverato, e portare la psichiatria nella comunità, fuori dal manicomio, con la presa in carico dei problemi psichiatrici di un territorio definito, secondo i criteri di unitarietà, continuità e decentramento. L’assistenza del paziente avrebbe dovuto quindi avvenire nel contesto di origine, o di residenza, attraverso diffusi programmi di risocializzazione e di reinserimento familiare, senza escludere però l’opzione del ricovero, da effettuare nell’ospedale psichiatrico di zona. La Psichiatria di Settore presuppone il ripudio dei principi di "pericolosità" e "inguaribilità" del malato mentale; inoltre pone al centro della pratica psichiatrica l’azione di prevenzione e la continuità dell’intervento, tale da consentire un rapporto efficace tra gli operatori ed i pazienti, attraverso una serie di istituzioni quali ambulatori, dispensari, comunità alloggio, pensionati, ecc..

Sin da subito, però, non mancarono perplessità sulla reale capacità innovativa del nuovo modello francese: al crescente numero di interventi ambulatoriali e domiciliari corrisponde infatti un aumento dei ricoveri in O.P.. Il modello settoriale, nella pratica, nonostante avesse l’obiettivo contrario, portò al rafforzamento dell’istituzione manicomiale: nell’area in cui prima ne sorgeva uno, ora c’erano quattro, cinque manicomi, con conseguente proliferazione delle gerarchie manicomiali. Inoltre, l’aumento dei ricoveri può essere considerato una diretta conseguenza degli accresciuti interventi nel territorio, che miravano a individuare i casi "pre-psichiatrici".

 Le pratiche non mediche dopo gli anni Settanta

 

Benché questi e moli altri modelli continuarono ad operare attivamente, dai primi anni ‘70 sino ai primi anni ’90 le teorie non mediche sono state messe decisamente in sordina. L’esempio del Collettivo socialista dei pazienti di Heidelberg, stroncato dalla polizia giudiziaria nel ’73, è un esempio di come la psichiatria ufficiale sia riuscita a recuperare, rispetto alle esperienze alternative, la legittimità delle sue pratiche orientate al controllo sociale.

Come approfondirò nel capitolo successivo, venne interrotta nello stesso periodo tutta una serie di sperimentazioni alternative con sostanze denominate "psicotomimetiche" o psichedeliche, che andavano avanti già dagli Venti, dopo che sul finire degli anni Sessanta erano state dichiarate illegali. Il loro uso e gli effetti straordinari che provocavano avevano alimentato le speranze di un’intera generazione di medici e psichiatri, che credevano di aver trovato un mezzo per espandere la coscienza ed aumentare la conoscenza sia sul mondo sia sulla mente umana negli svariati stati che può assumere. La ricerca e l’uso di sostanze psicoattive si ridusse ad alcuni composti, primi fra tutti la cloropromazina, sintetizzata in Francia per fini anestetici, di cui veniva sfruttato il potere sedativo32.

La psichiatria tradizionale si vide così in posizione di recupero e trionfante grazie alla comodità delle dosi massicce di psicofarmaci somministrati, e per questo fece crollare la popolarità di molte altre terapie, rendendo più "umani" i manicomi. E se i pazienti erano resi più docili e buoni dalla farmacoterapia, questo significava che alla base del disturbo doveva esserci un problema organico; e gli psichiatri promettevano che presto lo si sarebbe dimostrato. Inoltre, l’aver finalmente chiuso i manicomi (anche se troppo spesso solo apparentemente) e il gestire i nuovi reparti in ospedale o i nuovi centri d’igiene mentale territoriali, aveva ridato loro uno status di efficienza e prestigio33.

Negli anni ’80, con il rilancio sia delle teorie biologiche della malattia mentale e sia del modello terapeutico farmacologico, i "nuovi" psicofarmaci, ridotti a merce comune, vennero lanciati, attraverso un progetto totale di tipo pubblicitario, come risolutori esclusivi ed assoluti. Contemporaneamente, però, si diffuse nei vari ambienti la consapevolezza dei pessimi effetti a lungo termine dei neurolettici e antidepressivi, e negli anni ’90 vennero a galla numerosi scandali, soprattutto negli Stati Uniti, su come le potenti lobby medico-industriali influenzavano la ricerca scientifica, i concorsi universitari e l’assistenza psichiatrica. Anche in Italia, i principali congressi delle Società scientifiche di Psichiatria, Psicopatologia, Neurologia, ecc., dipendenti dalle più importanti cattedre universitarie, sono tuttora sponsorizzati da potenti ditte afferenti alle multinazionali del farmaco, e vengono celebrati in concomitanza con il lancio commerciale di nuove (e, talora, meno nuove) generazioni di psicofarmaci34. Le strategie di sviluppo di mercato, inoltre, comportarono sempre più il finanziamento di ricerche effettuate all’esterno delle Case farmaceutiche, sino alla creazione di strette e remunerative collaborazioni tra queste aziende e le Università e gli ambienti accademici35.

Simultaneamente le prove sperimentali della teoria dei neurotrasmettitori risultavano negative anche alle tecniche potenti finalmente disponibili, ad esempio la P.E.T., minando la solidità scientifica della teoria biopsichiatrica.

Così negli ultimi anni del secolo scorso la Psichiatria è stata messa sotto accusa sia nelle sue pratiche nocive che nelle sue fondamenta teoriche; inoltre ancora negli anni ’90 il problema manicomiale non era risolto del tutto, sia per gli ultimi degenti rimasti nei vecchi istituti, sia per le nuove strutture, come le cliniche private, che spesso ripropongono la stessa realtà che si voleva eliminare, come i lunghi ricoveri o la funzione di controllo e custodia degli infermieri.

La biologia molecolare, la neurofisiologia e la genetica potranno fare ancora molti progressi, e di conseguenza avere poteri maggiori, le neuroscienze potranno dire ancora molto sul nostro cervello, ma tocca all’uomo interrogarsi sull’etica, ossia sulla modalità con cui si decide di stabilire un contatto sociale, sui valori e sui punti in base ai quali si decide di stabilire le modalità del proprio relazionarsi.

6. Un punto di vista alternativo

 

Negli ultimi decenni sta acquisendo sempre maggior importanza nel panorama mondiale, come forza aggiuntiva contro la psichiatria tradizionale istituzionale, il movimento dei sopravvissuti e degli ex-pazienti. Credo che il sorgere di questo movimento sia di una portata straordinaria, soprattutto nel suo mostrare concretamente come la follia non sia la fine di tutto, ma piuttosto un momento di oscurità nella vita di ognuno. In essa è sempre presente l'opportunità per una crescita spirituale, così che se ne esce fuori con una conoscenza di sé che rende più forti, più vigorosi, più sensibili ai propri simili, e in contatto profondo con il dolore e la sofferenza propria dell' essere umano. Questo filone si introduce nella scia iniziata da Judi Chamberlin36 negli Usa alla fine degli anni ’70 che, riflettendo sulle sue esperienze, ha elaborato piani affinché la "guarigione" della persona che giunge all’attenzione della psichiatria riconosca regole di rispetto del punto di vista dell’interessato e permetta di sperimentare possibilità di vita fuori dal controllo psichiatrico.

Più recentemente, una posizione originale in proposito è stata fornita da Ron Coleman37. Nel suo libro Guarire dal male mentale, oltre a parlare dell’itinerario che l’ha condotto a uscire dall’iter psichiatrico (in un intervista si definì uno schizofrenico normale) sino a diventare organizzatore ed esperto di gruppi di "uditori di voci", critica i più recenti sviluppi che si sono affermati in psichiatria. Egli rovescia la prospettiva secondo cui alla persistenza del disturbo schizofrenico sono associati fenomeni relativi all’incapacità di lavorare e di occuparsi dei bisogni basilari. Secondo la sua tesi è "il processo stesso di istituzionalizzazione e di stigmatizzazione delle persone psichiatrizzate che le priva dell’indipendenza economica e abitativa. Questa produzione di dipendenza, che è parte del processo dell’attuale sistema di salute mentale, conduce a sua volta alla perdita da parte degli utenti della capacità di occuparsi delle necessità primarie". Quindi, non è la malattia mentale bensì la condizione di paziente che implica e, al limite, produce, l’incapacità.

Coleman tenta di smontare il mito della guarigione clinica e sociale della psichiatria contemporanea, con accenti di stampo tipicamente fenomenologico – esistenziali; la sua idea che il potere va preso, e non è dato, si pone in posizione antagonista rispetto al concetto di empowerment, oggi largamente utilizzato dal sistema di salute mentale. Si ritrova qui l’uso del principio di contraddizione, introdotto da Laing, Cooper e Basaglia, che sottolinea la necessità di analizzare il tema del potere con un metodo dialettico, per esplorare e gestire tali contraddizioni in modo positivo. Così, nonostante la contraddizione e la differenza di potere tra professional e paziente, essi possono lavorare insieme se il primo rinuncia alla propria posizione assumendo atteggiamenti critici e di rifiuto della psichiatria dominante, mettendo e mettendosi in questione, soprattutto rispetto alle credenze stesse dei pazienti.

L’alleanza tra poteri politici, associazioni psichiatriche ufficiali e industria farmaceutica tende a irrobustire il modello medico dominante, basato sulle diagnosi, sulle scale di valutazione, sul trattamento biologico e la restrizione dei diritti dei pazienti, con conseguente subordinazione dei pazienti, trattati ancora come merce senza voce in capitolo. E’ questa istituzionalizzazione della psichiatria che va individuata e superata oggi, non solo quella dei manicomi.

II.

"Terapie" tradizionali in uso nel Novecento1

 

Mi hanno chiamato matto, e io ho chiamato matti loro e,

maledizione, loro mi hanno messo in minoranza

 

Nathaniel Lee,

drammaturgo ‘600

 

1. L'ergoterapia

 

Al loro arrivo in ospedale i ricoverati, almeno quelli più poveri, venivano spogliati dei loro abiti, che venivano deposti nella fagotteria e restituiti poi all'uscita o venduti al momento della morte. La vita degli esordi era sancita da pochi momenti rituali religiosi o ricreativi, come la propagandistica passeggiata per la città, e da pochi momenti di cura rimasti essenzialmente immutati ancora agli inizi dell'Ottocento. La vita manicomiale era basata su regole di ferrea disciplina e comprendenti rari svaghi, e soprattutto lavoro. Uno dei capisaldi dell’"educazione manicomiale" era costituito dal gioco di premi, punizioni, minacce attraverso il quale si sarebbe dovuto ristabilire la "sanità mentale".

L’attuazione di questo complesso sistema educativo, volto ad instillare nei ricoverati principi di autodisciplina poteva trovare attuazione solo in un regime "paterno ed assoluto", a capo del quale era posto il medico Direttore.

Fin dagli esordi le donne filavano la stoppa; con la nuova "terapia morale" le malate venivano impiegate, oltre che nella tessenda, nel guardaroba, nelle cucine e nella lavanderia, gli uomini nel lavoro agricolo e in attività operaie. Ove permesso dai compiti da svolgere, alcuni erano legati persino durante le ore di lavoro. Il lavoro a costo zero del paziente, veniva elevato a rango di vera e propria cura ( una sorta di "Arbeit macht Frei" di hitleriana memoria…).

Gli alienati, classificati in base al loro comportamento, una volta entrati tendevano a non uscire dall'istituzione totale, che li poteva accogliere sin da bambini, e che guidava duramente in modo gerarchico e autoritario il loro cammino di "cura", che meglio si può rappresentare come un periodo forzato di permanenza in un luogo che certo non curava. I laboratori dei malati, i loro manufatti, le feste nel teatro, la biblioteca e le rare scampagnate facevano del manicomio una "macchina educativa", che inseriva l'ergoterapia nel lungo percorso di sofferenza e di costrizione, di non-scelta. Il comportamento morale era oggetto di rigoroso controllo da parte degli infermieri terapeuti, che applicavano sul lavoro i rigidi principi che regolavano la società civile.

A cavallo dei due secoli, la teorizzazione dell'ergoterapia risolve un conflitto irrisolto tra pauperismo, recupero dell'emarginazione e nuova dimensione produttiva. Calandoci nel vissuto di chi era ricoverato, ecco la testimonianza di una donna: "Finché lavoravo le infermiere erano buone ma quando non lavoravo mi trattavano come una bestia. La mattina, quando mi alzavo, spesso mi sentivo svenire e dovevo restare a letto. E quelle mattine che non me la sentivo di lavorare le infermiere mi offendevano. Magari non picchiavano ma offendevano e le offese fanno più male delle botte. Mi facevano lavorare per forza ma pagare non è che mi pagassero: mi sfruttavano e basta."

2. La piretoterapia malarica

 

Terapia di shock che si basa sull’aumento artificiale della temperatura corporea che induce crisi convulsive con scosse tonico-cloniche. Le prime terapie relativamente efficaci sono stati i metodi da "schok" nel 1917 a vienna, Wagner von Jauregg tratta la paralisi generale sifilitica con l’inoculazione della malaria (malariaterapia).

Già Ippocrate, nel IV secolo a. C., rileva la favorevole influenza delle occasionali malattie febbrili intercorrenti sull'evoluzione delle malattie mentali e ritiene che l'azione benefica della febbre sia uno dei grandi mezzi di guarigione impiegati spontaneamente dalla natura. Tale opinione è stata condivisa da una interminabile schiera di medici dall'epoca ippocratica al secolo scorso, finché Nasse nel 1868 segnalò per primo che la febbre malarica, come mezzo terapeutico per curare la cosiddetta "demenza paralitica progressiva" fosse da preferirsi a ogni altra malattia febbrile trasmissibile. Stimolato da queste acquisizioni, lo psichiatra austriaco Wagner von Juaregg nel 1887 iniziò con scrupoloso metodo scientifico ad indurre uno stato febbrile in pazienti affetti da sifilide cerebrale terziaria, inoculando germi dell'erisipela, tubercolina, vaccini vari ed altro senza ottenere risultati soddisfacenti. Finalmente nel 1917, provando l'inoculazione della malaria terzana benigna (da plasmodium vivax, protozoo trasmesso dalla zanzara anofele), riuscì ad ottenere dei risultati decisamente positivi. Wagner von Juaregg, avendo osservato come la malaria terzana benigna potesse rappresentare un mezzo terapeutico rapido e poco pericoloso, in base ai risultati favorevoli ottenuti (guarigioni complete e durature), continuò con tenacia la sperimentazione specifica. Trattando oltre duemila casi, riuscì a dare un impulso formidabile a questo tipo di terapia, che in pochi anni si diffuse in tutto il mondo tanto da fargli conferire nel 1927 il premio Nobel.

Questa terapia dal 1944 in poi è caduta progressivamente in disuso per l'avvento della penicillina, che si è subito mostrata particolarmente efficace contro il treponema pallido, l'agente specifico della sifilide. Tuttavia in casi resistenti l'iperpiressia, però indotta con sulfoidol o con particolari vaccini, si è continuata a praticare, al solo scopo di favorire il passaggio della penicillina attraverso la barriera ematoencefalica, con risultati sorprendenti.

L'inoculazione del parassita malarico veniva effettuato o tramite iniezione endovenosa di sangue prelevato da un soggetto malarico all'inizio di un accesso febbrile, oppure utilizzando zanzare anofele allevate in appositi laboratori. Queste zanzare, chiuse in gabbiette di tulle con armatura di filo metallico, erano messe a contatto della cute di un soggetto malarico. Dopo una trentina di giorni, a scopo terapeutico venivano poste in contatto con la cute del soggetto da malarizzare. La malaria era curata con terapia specifica dopo dieci-quindici accessi febbrili di 39/40°, dopo di che veniva bloccata con il Chinino. Solo successivamente gli accessi febbrili e le eventuali crisi convulsive, vennero provocati con mezzi più maneggevoli, quali sostanze proteiche e vaccini.

Le controindicazioni alla piretoterapia si limitavano alle gravi affezioni cardiache, renali ed epatiche, nonché agli stati cachettici di qualsiasi eziologia.

3. L’elettoshock

 

L'ipotesi sulla quale è nato l'uso delle convulsioni nella medicina moderna come terapia della schizofrenia è il presunto antagonismo tra queste due condizioni morbose, nonché il rilievo di una diminuzione dei sintomi schizofrenici dopo un eccesso epilettico. In una rara forma di epilessia, nel periodo tra le due crisi, si manifestano deliri allucinatori e i sintomi aggressivi e distruttivi della schizofrenia spariscono o si riducono nella fase convulsiva. Si credette, in poche parole, che le convulsioni impedissero, proteggessero e guarissero dal delirio, dalle allucinazioni, dalle crisi di violenza e da tutte quelle manifestazioni tipiche di questa psicosi. L'ipotesi terapeutica della cardiazolterapia, avanzata a Budapest da von Meduna, rappresentò per Cerletti un incoraggiamento nel tentativo, che oggi non può non apparire estremamente rozzo, di utilizzare le sperimentazioni di corrente elettrica all'interno di un contesto scientifico maggiormente definito. Sperimentazioni che, fin dai primi del Novecento, erano state effettuate sull'animale e sporadicamente sull'uomo. Per quest'ultimo, risulta interessante ricordare la controversa applicazione della corrente elettrica nelle nevrosi da guerra, effettuata già durante il primo conflitto mondiale, che culminò nel 1920 con l'istituzione da parte del Parlamento austriaco di una Commissione d'inchiesta sull'operato di alcuni neuropsichiatri, tra cui lo stesso Wagner von Jauregg (Commissione di cui venne nominato perito anche Sigmund Freud). Comunque sia, il tentativo di Cerletti fu quello di ottenere gli stessi effetti terapeutico-convulsivanti del Cardiazolo descritti da von Meduna, che erano però associati ad una ricca sequela di complicanze. Cerletti pensò ad un metodo alternativo che sostituisse la stimolazione chimica con quella elettrica.

Dopo lunghi anni di studio dell'epilessia indotta elettricamente sui cani, l'attenzione si polarizzò sugli effetti dello stimolo fisico sul maiale; infatti la comune corrente elettrica di strada veniva già applicata, presso il mattatoio di Roma, mediante speciali pinze ai due lati del capo del maiale che, a seguito di un'induzione di un accesso epilettico di tipo tonico-clonico, andava incontro ad uno stato di stordimento che facilitava lo sgozzamento. Cerletti e collaboratori osservarono che, se i maiali non venivano uccisi, uscivano pian piano dallo stato di stordimento. Da questa constatazione partì lo studio dell'applicazione della corrente elettrica sull'uomo: "…i maiali non morivano…ma venivano soltanto storditi, cadendo in un accesso epilettico, dal quale si svegliavano se non venivano, per esigenze di macellazione, sgozzati prima del risveglio... Si osservò che vi era una differenza notevole fra il tempo di corrente necessario a scatenare un accesso (poche frazioni d secondo) e il tempo di corrente (60-150 secondi) necessaria per provocare la morte dell'animale; quindi i margini di sicurezza, per gli scopi prefissi erano abbastanza ampi". A seguito di questo periodo di valutazione e ricerca delle adeguate caratteristiche tecniche dello stimolo fisico sul maiale (modalità di applicazione, tempo di esposizione, intensità di voltaggio ecc.), Cerletti affidò a Lucio Bini la realizzazione pratica di un'apparecchiatura che offrisse le necessarie garanzie per una sperimentazione sull'uomo.

Nell'aprile del 1938, Cerletti e Bini attuarono a Roma, presso la clinica Universitaria neurologica, la prima applicazione elettrica sull'uomo, dando così ufficiale comunicazione del metodo all'Accademia Medica di Roma, denominandolo appunto elettroshock. La denominazione rimase invariata negli anni tranne che durante il periodo fascista in cui l'autarchia semantica impose i termini di elettro-urto o elettro-squasso. Nello stesso anno tale pratica terapeutica si diffuse anche in Francia, Olanda, Inghilterra e Stati Uniti d’America per mano di Kalinowsky.

Esisteva una "giornata dell'elettroshock", così come esisteva una "giornata dell'insulinoterapia", nella quale i pazienti che dovevano essere sottoposti al trattamento venivano posizionati, dagli infermieri, l'uno accanto all'altro, ognuno in attesa del loro turno. Col tempo la tecnica iniziale andò incontro a progressive modifiche, volte ad ottenere prevalentemente una diminuzione degli effetti collaterali ed un aumento dei presunti effetti terapeutici: modificazioni delle caratteristiche delle apparecchiature, protezione del malato anche con specifiche posture precauzionali, uso di premedicazioni fino alla narcosi barbiturica curarica e all'odierna anestesia. Lo scopo dell'affannosa ricerca di Cerletti fu quello di individuare, in era prefarmacologica, un percorso terapeutico che potesse alleviare le sofferenze della malattia mentale. L'elettroshock ne era strumento, ma primitivo, violento nonché privo di chiari fondamenti scientifici, come apparve ben presto evidente allo stesso Cerletti, che si espresse nel seguente modo già nel 1948: "Lo dissi già fin dalla prima volta che io presentavo l'E.S., che mi auguravo che questo metodo aggressivo, violento, venisse al più presto abbandonato per metodi meno drastici, e sto lavorando attivamente in questo senso: sarò il primo a rallegrarmi quando l'E.S. non verrà più applicato."

In occasione del Primo Congresso Internazionale di Psichiatria a Parigi, nel 1950, egli disse: "Questo non impedisce che malgrado tutte queste difficoltà, noi lavoriamo continuamente nella speranza di potervi dire un giorno: Signori, l'Elettroshock non si fa più. Noi abbiamo trovato le sostanze che si producono nel cervello a seguito dell'accesso epilettico e noi possiamo impiegarle nel trattamento di differenti malattie così semplicemente come si fa con altre sostanze farmacologiche".

Tra le varie conseguenze nefaste di questa "terapia", oramai riconosciute da molti medici, m ancora non da tutti, furono riscontrati chiari danni irreversibili: perdita della memoria, danni cerebrali, difficoltà di apprendimento, difficoltà di orientamento temporo-spaziale. Le cellule nervose si disgregano in grande quantità. Frequenti fratture ossee tra cui le più gravi alla colonna vertebrale, arresti cardiaci, soffocamento da vomito, danni a carico dei tessuti. Certo, si cercò di ridurre questi fenomeni concomitanti attraverso la narcotizzazione e la combinazione con psicofarmaci, ma i danni fisici a volte furono fatali.

Nonostante la mancanza di adeguati e rigorosi studi scientifici, l'utilizzo dell'elettroshock fu ed è tuttora generalizzato e allargato alla quasi totalità dei disturbi psichiatrici. In particolare viene utilizzato in pazienti gravemente depressi (psicosi depressive), quando altre forme di terapia, come gli psicofarmaci o la psicoterapia, non sono efficaci. Oppure in casi di emergenza quando, ad esempio, vi è un elevato rischio di suicidio; o in pazienti che soffrono delle principali forme di mania (un disturbo dell'umore associato a comportamento iperattivo, irrazionale e distruttivo), di alcune forme di schizofrenia, e di qualche altro disturbo mentale e neurologico. L'elettroshock e' usato anche nel trattamento dei disturbi mentali nei pazienti anziani, le cui condizioni di salute possono sconsigliare un trattamento farmacologico.

La recente circolare dell’ex Ministro della Sanità R.Bindy consiglia, su indicazione del Consiglio Superiore di Sanità, l'utilizzo dell'elettroshock nella cura delle seguenti patologie: depressione, mania, disturbo schizofreniforme, schizofrenia, catatonia, sindrome maligna da neurolettici, gravi disturbi mentali in corso di gravidanza, psicosi puerperale. La stessa circolare definisce la T.E.C. come "presidio terapeutico di provata efficacia", benchè essa venga utilizzata anche come tortura sia per estorcere confessioni in paesi come il Kashmir sia a scopo punitivo verso le classi subordinate, come nel Sudafrica ai tempi dell’apartheid (O.M.S., ’77).

4. La psicochirurgia

 

La psicochirurgia, ossia l’asportazione di parti del cervello, è parsa per anni lo spauracchio della psichiatria, il cadavere nell'armadio di cui vergognarsi, una pratica "semi-nazista" da cancellare per sempre come immorale e violenta, tesa solo ad un controllo brutale e definitivo del malato psichiatrico. Ciò nonostante, in tutti questi anni la psicochirurgia è stata praticata sia negli Stati Uniti sia in Europa, per lo più presso centri privati e semi-clandestinamente. Questo ha comportato il grave effetto che non esiste un censimento della reale rilevanza di questa pratica, né un vero controllo scientifico. Accanto ad alcuni interventi apparentemente dotati di un fondamento scientifico, o comunque di risultati (quali quelli di leucotomia focale per i disturbi ossessivi gravissimi), sino agli anni Ottanta sono stati condotti anche interventi sperimentali in apparenza privi di ogni logica e senso (nel 1984, la letteratura Russa riportava trapianti di cellule fetali sulla corteccia di malati di schizofrenia deficitaria!).

Citiamo ancora la psicochirurgia proposta nel 1936 dal portoghese Egas Moniz che aveva realizzato l’alcolizzazione dei lobi prefrontali perfezionata da Freeman e Watts (1942) che effettuarono la lobotomia sezionando le fibre di connessione talamofrontali. Dopo aver suscitato grandi speranze la psicochirurgia non ha più molta importanza. Dal 1952 una sostanza fabbricata da un laboratorio francese, la clorpromazina, ha iniziato il periodo psicofarmacologico; interventi al cervello sono praticati oggi dalla moderna e complessa "nuova" branca della chirurgia, la neurochirurgia.

 

5. La contenzione

 

L’azione di Jean Philippe Pinel (1745-1826), per cui egli viene tuttora ricordato nell'iconografia tradizionale, fu di liberare i malati di Bicêtre dalle catene. Un gesto emblematico, anche se egli discettò poi a lungo sulla utilità e sui limiti della contenzione dei pazienti psichiatrici.

Particolare attenzione era posta per le misure coercitive che potevano essere attuate dagli infermieri solo su prescrizione medica. In Italia, per evitare indebite contenzioni, il Regio Decreto del 16 agosto 1909 n. 615 disponeva che il regolamento corredato dalle sanzioni amministrative e penali (artt. 371, 375, 386, 390, 391 e 477) fosse esposto negli uffici (questa norma rievocava quella della Legge 300/70 sul codice disciplinare). Al capo IV l’art.60 recita: "Nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l'autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell'istituto. Tale autorizzazione deve indicare la natura del mezzo di coercizione. L'autorizzazione indebita dell'uso di detti mezzi rende passibili coloro che ne sono responsabili di una pena pecuniaria L.300 a L.1.000, senza pregiudizio delle maggiori pene comminate dal codice penale".

La legge 36 consentì le contenzioni solo nei manicomi pubblici e purché autorizzate dal medico (articolo 60 R.D. 16 agosto 1909, n. 615).

Anche dopo la Legge180 del 1978, rimaneva l’obbligo della vigilanza. Non bisognava solo curare ma anche custodire per l’incolumità e la salvaguardia del paziente e degli altri degenti nonostante il termine di "pericolosità" fu abolito e ricondotto alle più svariate situazioni sulle quali si esercita abitualmente la competenza dell'ordine pubblico.

Rimane a tutt'oggi reato, l’abbandono di incapace e le lesioni personali violente.

L’icona della pratica contenitiva in epoca prefarmacologica era la camicia di forza. L'ingresso degli psicofarmaci degli anni Cinquanta nei trattamenti psichiatrici non ha eliminato contenzioni e isolamento né modificato significativamente la situazione. Situazioni simili dal punto di vista clinico e dei comportamenti della persona ricoverata trovano risposta diversa a seconda dei contesti istituzionali e degli operatori.

Tenere le porte dei reparti chiuse a chiave, legare le persone e tenerle in isolamento per minuti, ore, giorni, è una scelta che dipende dalle culture professionali locali, dalle caratteristiche personologiche degli infermieri e dei medici, dalle relazioni interpersonali e di potere all’interno delle squadre che si avvicendano nei turni di servizio, dai rapporti fra medici e non-medici negli staff.

In caso di T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio) il Reparto dovrebbe permettere il trattamento anche al di là della volontà del paziente, quindi non dovrebbe "fuggire". Se fugge vuol dire che il personale non ha svolto funzioni terapeutiche sulle 24 ore in presenza di una sospensione della volontà. Un reparto che ricovera TSV e TSO dovrebbe essere ovviamente un Reparto con un buon numero di personale. Un utente che fugge ed è in TSV va considerato dimesso; solo nel caso che la fuga venisse interpretata come un improvviso riacutizzarsi della malattia vanno informati le Forze dell'ordine e il CSM di competenza, se è in TSO il giudice tutelare.

Si sta proponendo, al Ministero della Salute, di adottare un progetto nazionale di ricerca sullo stato della questione contenzioni nell'assistenza psichiatrica. Il progetto dovrà raccogliere dati su tutto il territorio nazionale circa l’esistenza di regolamenti scritti adottati dai DSM, il numero, la durata, le motivazioni delle contenzioni, le ragioni degli infermieri e dei medici, il numero e la qualità degli incidenti a carico del paziente e del personale conseguenti alla gestione della contenzione, i vissuti di chi subisce i trattamenti. (SIRP)

"Quando gli infermieri mi massacravano di botte con la pretesa di curarmi, io mi rifugiavo nella mia seconda ombra, e non sentivo il dolore".

Ecco una frase come tante altre, ascoltata dalla voce di un ex internato nel manicomio di Gorizia nel film di Silvano Agosti dal titolo, appunto, "La seconda ombra", proiettato nel corso del convegno di Trento. Una frase che rivela la brutalità e gli orrori perpetrati a persone internate nei manicomi, costituiti da cancelli, inferriate, porte e finestre sempre chiuse; luoghi dove catene, lucchetti e serrature imperavano sovrani. Luoghi dove le "cure" più comuni erano la segregazione nei letti di contenzione, la camicia di forza, il bagno freddo, l’elettroshock, la lobotomia (asportazione dei lobi parietali, cioè di una parte del cervello). Luoghi, infine, dove le giornate trascorrevano in immensi saloni tra il fumo delle sigarette, i canti e le preghiere imposte dalle suore.

6. Gli psicofarmaci2

 

L’inizio dell’era farmacologica in psichiatria è datato 1952. Dopo che Henri Laborit aveva notato gli effetti psicologici di un nuovo anestetico, la clorpromazina, si decise di provarlo in pazienti schizofrenici. La terapia ebbe successo, e così ebbe inizio l'era del trattamento farmacologico delle malattie psichiatriche, dominato fino a quel tempo dagli interventi somatici, finora descritti, o psicologici (psicoanalisi e altre psicoterapie). "Prima gli ospedali psichiatrici erano il luogo dell'urlo. L’urlo ora rimaneva lì, nel petto, al fondo della gola. Noi non lo sentivamo. Eravamo tutti presi dal miracolo. Si potevano finalmente mettere da parte le camicie di forza, i letti di contenzione. Solo più tardi ci si rese conto che avevamo sostituito camicie di forza, fasce di contenzione con una camicia chimica. La mente dei malati azzerata da anni di istituzionalizzazione, spesso ne fu ulteriormente annichilita. La loro sofferenza non cessò, cessarono le urla, il vociare, il bestemmiare". Molti affermano che se non ci fosse stato l’avvento dei farmaci il processo di deistituzionalizzazione non si sarebbe mai attivato in quanto nè l’individuo nè la società erano pronti alla coesistenza tra diversi. Il reingresso degli alienati nella società è stato possibile solo acquietando la voce della follia, mantenendo così l’ordine sociale. Prima nei rapporti fra ricoverati e infermieri era questione di botta e risposta: da parte degli infermieri era una cattiveria aperta. Ora invece danno le punture e tutto finisce.

Certamente, il problema fondamentale della società verso il malato mentale fu sempre quello di imbrigliare la sua "sfrenata" attività motoria o verbale. Anche nei manicomi si era sempre alla ricerca di un po’ di calma, e questa venne ottenuta dalla psicofarmacologia grazie a piccole pillole, a poche gocce sciolte nell’acqua o mediante iniezione. Anche l’altro grande problema della malattia mentale, ossia la depressione e il suicidio, venne risolta con degli appositi farmaci, che certamente apparivano come una terapia ben più civile e accettabile su larga scala che non l’elettroshock. Gli psicofarmaci inoltre hanno rappresentato un ottimo specchietto per le allodole capace di far dimenticare le molte cause sociali e manicomiali dei disturbi psichici, confinando questi ultimi nella sfera privata e individuale di ognuno. Gli psicofarmaci, inoltre, vennero presentati e mitizzati come facilitatori e punto cruciale del dialogo, dell’incontro tra paziente, infermiere e medico, e presto iniziarono a dilagare anche fuori delle mura manicomiali. Dunque la tecnologia avanzata dei laboratori farmaceutici, che sembrava risolvere ogni problema, ne poneva uno ben più grosso: la tendenza a comportamenti drogati. L’interesse psichiatrico degli anni Cinquanta per molte sostanze sottintendeva naturalmente anche un interesse industriale. Le case farmaceutiche vedevano aperti davanti a sé due nuovi mercati di consumatori: quello dei clienti della psichiatria, degli ospedali, delle cliniche, e quello del pubblico di massa. T.Leary, in Politics of Ecstasy, aveva ben presente la manovra delle ditte produttrici, che, vedendosi sfumare sia il mercato terapeutico sia quello consumistico lo accusavano di aver diffuso a livello di massa le sue teorie sugli allucinogeni. Se da un lato i gruppi psichedelici persero molto con le reazioni violente della società americana contro la "droga", dall’altro ne guadagnarono distruggendo in anticipo il monopolio programmato a scopi di espansione sociale e di integrazione sociale da parte della Sandoz.

In Italia si è cominciato a parlare di tossicomania negli anni Sessanta, anni in cui l’industria farmaceutica stava puntando il grosso dei suoi investimenti proprio nel settore degli psicofarmaci. Da un lato gli psicofarmaci vengono presentati come una cosa buona, dall’altro la tossicomania ne è l’aspetto cattivo. Se si mette tutto il male da una parte (mossa ben conosciuta e sperimentata in ambito psichiatrico), dall’altra parte il male non c’è più. Una sorta di formazione reattiva, in linguaggio freudiano:si parla molto di una cosa per nasconderne un’altra sottostante e opposta. Un paese che ha molto da parlare delle tossicomanie forse nasconde qualche cosa di analogo dentro sé, di cui non si parla come tossicomania, e ci devono essere dei grossi interessi "occulti" che si muovono nella stessa linea. Effettivamente, l’entità reale del fenomeno della tossicomania non sembra così allarmante rispetto all’importamza che se ne dà a livello di stampa, o di discorsi sui media3.

Si può rilevare che il successo terapeutico non è affatto mutato. Vittorino Andreoli afferma che i risultati di oggi, due secoli dopo, non sono maggiori o minori di quelli di Pinel. Ciò può spiegare che la follia manca ancora di una terapia specifica e ogni presidio è un semplice surrogato terapeutico, la maschera d’un effetto placebo. In questo caso la differenza tra i singoli presidi di cura è irrilevante e un bagno freddo o l’elettroshock o un recente ritrovato della farmacologia sono chiavi false di un ingresso alla follia che semmai avviene per combinazioni del momento casualmente indovinate, e dello stesso valore sia cha appartengono alla psichiatria contemporanea che a quella di Pinel.

7. La questione etica in Psichiatria

 

Talvolta l'elettroshock potrà anche rappresentare un'ultima spiaggia, ma in realtà e' il segno dell’impotenza terapeutica, che si trasforma in cieco accanimento verso la malattia mentale, passando obbligatoriamente attraverso la testa del paziente senza considerare la sua anima.

La questione etica in psichiatria diviene un delicato elemento di discussione specie se si accompagna a trattamenti che fanno dubitare il rispetto della dignità del paziente, come la terapia elettroconvulsivante e la psicochirurgia.

In entrambi i casi la questione morale è duplice: da un lato si obietta che si tratterebbe di interventi terapeutici violenti ed esproprianti che, più che indurre reali processi di guarigione, si limiterebbero ad alterare rudemente e grossolanamente i meccanismi di funzionamento cerebrale; dall'altro, si dice che, in ogni modo, la loro efficacia non è comprovata, mentre gli effetti collaterali a distanza di tempo sarebbero severi. Insomma, in entrambi i casi ci si troverebbe di fronte a cure non etiche, innanzitutto perchè "cattive" e, in secondo luogo, perchè violentemente manipolative e non rispettose dell'autonomia e della dignità del paziente. Tuttavia per quanto riguarda l'ETC, l'assunto che esso non sia efficace o serva solo episodicamente non è condiviso da molti psichiatri, che ritengono, anzi, che questa diffusa credenza sia più il portato delle campagne ideologiche degli anni Settanta che il risultato di una serena disamina della letteratura scientifica.

Gli stessi presunti danni sulla memoria del paziente e la violenza della cura sono ritenuti elementi sorpassati, legati a somministrazioni errate ed in assenza di anestesia generale. Recentemente anche il Comitato Nazionale di Bioetica, pronunciandosi sulla terapia ETC, sostanzialmente non ravvisa nel suo uso alcun problema etico specifico quando, e solo se, ovviamente, esso sia giustificato dalla stato dell'arte delle conoscenze scientifiche.

III.

Esperienze "alternative" negli anni ’50 – ‘60

"Per quanto mi riguarda, le mie esperienze con queste sostanze (psichedeliche) sono state i fatti più strani e grandiosi, e fra i più belli, che mi siano accaduti nel corso di una vita varia e fortunata. Non si tratta di fughe dalla realtà, ma di amplificazioni, fioriture della realtà. A mio giudizio si verificano in violazione del principio di Hughlings Jackson, dato che il cervello, per quanto il suo funzionamento sia danneggiato, agisce con maggiore acutezza e complessità di quando è normale. Eppure non c'è dubbio che le azioni del cervello, quando esso è sotto l'influenza dell'intossicazione, dovrebbero essere maggiormente semplificate, invece che più complesse di quando è normale. Non posso discutere questo problema con chi non abbia avuto direttamente un'esperienza del genere. Chi ha avuto queste esperienze sa di che cosa si tratta, mentre chi non le ha avute non lo sa, e, ciò che più conta, non è in grado di fornire nessuna spiegazione utile del fenomeno."

 

H.Osmond1

1. Introduzione

 

Prima di esaminare i modelli che negli anni Sessanta hanno portato in Italia al graduale superamento e alla chiusura dell’istituzione manicomiale, vorrei soffermarmi su alcune esperienze che hanno caratterizzato gli anni Cinquanta e che poi sono state messe in sordina dalla psichiatria ufficiale. Abbiamo già visto come nella metà del secolo scorso fosse iniziata la crisi della soluzione manicomiale, vista l’evidente nocività del lungo internamento. Inoltre i giovani psichiatri erano affascinati dalle prospettive che aprivano sia la psichiatria sociale sia le psicoterapie delle psicosi.

Si assiste quindi in questi anni all’intrecciarsi di vari fenomeni: la riflessione fenomenologica in ambito psicopatologico e clinico, e la nascita della psicofarmacologia con sperimentazioni con le sostanze psicotrope più varie.

A partire dagli anni Venti e Trenta, sia in Europa che in America, si erano diffusi nella pratica e nella letteratura numerose sperimentazioni con sostanze psicoattive, che poi avrebbero dato alla luce la maggior parte degli psicofarmaci attualmente in uso.

In quel periodo, si sperimentavano tutte le possibili sostanze che avessero un qualche effetto rilevante sul sistema nervoso, con diversi obbiettivi:

1. formulare ipotesi sulle dinamiche fisiologiche delle psicopatologie e individuare dei principi attivi che vi interagissero;

2. accelerare le terapie relazionali;

3. facilitare la comprensione soggettiva della psicopatologia da parte dei terapeuti.

Escludo volutamente l’obiettivo nosografico e quello manipolativo collegati a certi studi in questo campo. Il primo di creare categorie psicopatologiche più precise di quelle esistenti, perché non era più considerato perseguibile già dagli anni quaranta; l’obiettivo manipolativo di ottenere specifiche menomazioni desiderate (per estorcere confessioni o per trovare applicazioni belliche, come nel programma MK-Ultra della CIA), perché si aggancia alla problematica complessa del rapporto tra psichiatria e potere a cui non conviene accennare qui.

2. Gli allucinogeni. Origini

 

L’interesse cui voglio riferirmi qui per quanto riguarda il periodo considerato è quello rivolto a certi composti, chiamati schizogeni o psichotica, psicotogeni, phantastica, allucinogeni ed elixirs, per i quali venne coniato da Gerarld2 un nuovo termine: "psicotomimetici". Una definizione di questi agenti è data da Humphry Osmond3: ".. sono sostanze che producono dei mutamenti nel pensiero, nella percezione, nello stato d'animo e, a volte, nell'atteggiamento del corpo, sia se prese da un solo soggetto o da più soggetti, senza provocare importanti disturbi del sistema nervoso autonomo o assuefazione. Benché delle dosi eccessive possano provocare disorientamento, disturbi della memoria, stupore e a volte narcosi, queste reazioni non sono caratteristiche". Questa sommaria definizione escludeva la morfina, la cocaina, l'atropina e i loro derivati, così come gli anestetici, gli analgesici e gli ipnotici. Rientrava invece un lungo elenco di sostanze, citate nello stesso libro, che passa in rassegna 5.000 anni di pericolose e a volte fatali "ricerche" o sperimentazioni tra le culture azteche, vichinghe, caraibiche, asiatiche, africane, dei bramini e dei pellerossa, con sperimentazioni che vanno dal misterioso soma ad altre con l'hashish, il coyoba, l'ololiuqui, il peyote, la ruta siriaca, la liana caapi, il fungo teonanacatl, le due Amanita, pantherina e muscaria, il fagiolo iboga e la potente polvere da fiuto detta virola, ottenuta da un albero dell'Amazzonia simile a quello della noce moscata. A queste, cui all’epoca erano dedicati studi da parte di etnobotanici e micologi come R.E.Schultes e G.Wasson4, H.Osmond aggiunse i moderni preparati sintetici, che all’epoca andavano aumentando vertiginosamente di numero: la mescalina, introdotta da Heffter nel lontano 1896, la harmina o telepatina, la "formidabile dietilamide dell'acido-d-lisergico (LSD), tanto attiva da rendere meno improbabile l'omeopatia"; il TMA (3,4,5-trimetossifenil-beta-aminopropano), sintetizzato da Scott e dai suoi collaboratori della compagnia Imperial Chemicals di Manchester, in Inghilterra; l’adrenolutina, l’adrenocromo. L’autore si riconosce infatti nell’"ultima delle generazioni di sperimentatori che, da prima dell'alba della storia, in ogni parte del mondo, hanno cercato di scoprire dei mezzi mediante i quali l'uomo potesse alterare, esplorare e controllare i processi della sua mente, ampliando in tal modo la propria esperienza dell'universo. Fino a tempi recenti, tuttavia, la scienza ha mostrato solo un interesse sporadico in queste sostanze"5.

Di recente sono state rinvenute incisioni rupestri nell'altopiano del Tassili-n-Ajjer, nel Sahara, una volta terra fertile, che mostrano bestiame e figure umane danzanti con funghi nelle mani e sul corpo. Storica la presenza di piante allucinogene in praticamente tutte le religioni: il soma dei Veda, i testi sacri dell'induismo, l'ambrosia degli antichi greci, la cannabis dei zoroastriani, i funghi Teonanacatl-carne-degli-dei tra i maya e gli aztechi; l'Amanita Muscaria degli sciamani siberiani, ovvero il fungo dal cappello rosso a pallini bianchi mangiato da Alice nel paese delle meraviglie, il culto del peyote in Messico e in nord America, le liane banisteria caapi, i convolvoli ololiuhqui, usati tutt'ora dagli sciamani in Amazzonia e in varie parti dell'Africa...6

A.Hofmann, scopritore dell’LSD nel 1943, contribuì a identificare, oltre alla psilocibina, anche il principio psicoattivo presente nel kykeion, il sacramento che per oltre duemila anni ha iniziato ai Misteri di Eleusi gente di ogni dove. A proposito del rito, gli antichi parlano di oscure formule magiche, dell'esposizione di una spiga mistica, e di un intruglio che veniva fatto bere, a base di segale cornuta (da cui si estrae l'Lsd). Gli iniziati avevano accesso così ad un'esperienza estatico-volontaria che permetteva loro di trascendere la divisione tra soggetto e oggetto, tra uomo e natura, e di percepire fisicamente la sostanziale unita' che sta alla base di tutti gli esseri viventi. Per fare qualche nome noto, parteciparono a questo rito, il più famoso dell’antichità classica, Cicerone, Platone, Marco Aurelio, Adriano, Aristotele, Eraclito, Plutarco, Pindaro, Sofocle, Euripide, Eschilo, Aristofane, Isocrate, Strabone, Filodamo, Apuleio, Dione Crisostomo...(una bella compagnia di drogati se giudicati in base alle leggi attualmente in vigore in buona parte del mondo "civilizzato")7.

L’azione specifica degli allucinogeni iniziò a essere studiata scientificamente solo sul finire degli anni ’50, quando Woolley8 scoprì che le cellule nervose assorbivano con grande facilità sostanze con struttura chimica simile alla serotonina, al posto dell’autentico neurotrasmettitore. In seguito notò che erano proprio queste sostanze serotonino-simili che provocavano allucinazioni, e che erano presenti in cactus, funghi, pelli di animali usate dalle culture sopraccitate.

3. Terapie sperimentali e LSD

 

Già nel secolo scorso si può trovare il fondatore della psicofarmacologia in J.Moreau de la Tours, che, con l’ormai notissimo lavoro Du l’haschisch et de l’aliénation mentale, del lontano 1845, per primo aveva riferito dei suoi esperimenti paragonandone analogie e differenze con le psicosi.

Il fondatore delle "terapie" sperimentali sembra essere stato Schueler9 che, nel 1934, iniettò per via endovenosa ad alcuni dei suoi allievi, che avevano appena preso della mescalina, del succinato di sodio. Questo trattamento ridusse in breve tempo i loro sintomi, che però tornarono a manifestarsi quando il succinato di sodio fu espulso, cosa che accadde presto. Mayer-Gross10, usando il sistema dell'LSD-25, mostrò che i mutamenti di percezione vengono ridotti quando il tasso zuccherino nel sangue sia superiore ai 200 mcg. per cento. Elkes11 scoprì che la cloropromazina e il sodio succinato si opponevano agli effetti dell'LSD. Fabing12 alterò le manifestazioni dell'LSD-25 con l'azaciclonal (Frenquel), ma sembra che gli effetti tornarono dopo oltre mezz'ora. Hoffer ed Agnew13 usarono l'acido nicotinico per modificare le reazioni all'LSD-25. Giberti e Gregoretti14 usarono sia la reserpina che la cloropromazina in esperimenti con l'LSD-25, e Schwarz, Bickford e Rome15 scoprirono che le reazioni alla mescalina erano molto ridotte dalla cloropromazina. Heinrich Kluver16 è stato un tale pioniere che non ci sorprende scoprire che circa ottant'anni fa mise in evidenza l'importanza della mescalina per la psicologia in un ammirevole libro, introvabile già negli anni Settanta. Kluver notò che sarebbe stato possibile compiere dei progressi nella comprensione delle allucinazioni e delle illusioni studiando gli effetti della mescalina ed esperienze similari.

Ricerche in questo ambito portarono verso la fine degli anni Quaranta alla formulazione del concetto di psicosi modello o sperimentali, stati transitori simili alle malattie mentali provocati dagli effetti degli psicotomimetici.

Sostanza principe di queste sperimentazioni era la dietilamide dell’acido-d-lisergico, un potentissimo allucinogeno sintetizzato nel 1938 da Jacobs nei laboratori del colosso farmaceutico svizzero Sandoz. Nella ormai storica giornata del 19 aprile 1943, "il giorno della bicicletta", il chimico Albert Hofmann17, che le aveva assegnato l’identificativo LSD-25 lavorando sugli alcaloidi della segale cornuta (un parassita delle graminacee, responsabile in passato di gravi epidemie con prevalenti disturbi psichici), ne venne a contatto e ne scoprì il potente effetto allucinogeno. L’LSD venne in seguito commercializzato col nome di "Delysid", a scopo di indagine psicopatologica, psicodiagnostica e terapeutica.

L’intossicazione da LSD provoca una sindrome allucinatoria visiva con percezioni inusuali, sinestesie sensoriali e uno stato che in psichiatria si conosce con il nome di oniroide18. Esso agisce sull’ipotalamo, centralino del cervello che regola le emozioni, ed in particolare sulla serotonina, uno dei neurotrasmettitori che controlla il passaggio delle informazioni nelle sinapsi tra le cellule nervose. L’acido-d-lisergico, avendo una struttura chimica simile, ne ostacola l’azione, facendo pervenire al cervello una parte molto più cospicua del normale numero di messaggi che in ogni momento ci giungono, amplificando le percezioni extrasensoriali e svelando una dimensione nascosta.

Sebbene questi stati non siano menzionati nel DSM, esistono in alcune tradizioni come la Psichiatria francese, e si devono a Henry Ey le osservazioni cliniche circa il quadro che si è osservato spontaneamente in determinati pazienti, cioè senza assunzione di droga. Questa relazione fece sì che in principio si parlasse di psicosi modello o sperimentali come risultato di intossicazione da LSD, come anche da psilocibina, mescalina, cannabis, ketamina o MDMA. Come si accertò in seguito, la psicosi sperimentale è più simile da un punto di vista psicopatologico a delirium tremens, psicosi puerperali, quadri confusionali-onirici da stress post-traumatico, che non alla schizofrenia. Tuttavia a cavallo degli anni Cinquanta gli studi in merito si prefiggevano di scoprire, attraverso l’ingestione di LSD, ulteriori elementi circa psicosi tipiche19. Addirittura tentarono di elaborare una ipotesi metabolica della psicosi, pensando che nella schizofrenia avrebbe potuto esserci una sostanza tossica in circolo simile all’LSD20. Dopo breve tempo questo modello fu abbandonato, per mancanza di affinità tra i due fenomeni. Oltre alle già citate somiglianze, l’intossicazione da LSD può mostrare aspetti simili a certe esperienze spirituali, mistiche e abreative come quelle sciamaniche, ipnotiche o psicoanalitiche dove si esplicita una catarsi o una comprensione immediata e totale del mondo.

L'introduzione dell'LSD per merito di Hofmann e i conseguenti studi su questa sostanza da parte di Stoll21 aggiunsero quindi un'arma immensamente potente all’arsenale a disposizione di questi ricercatori, considerando la minuta concentrazione di LSD richiesta per produrre l'effetto (dell’ordine di microgrammi), e la durata dei suoi effetti (dodici ore o più).

Fra molti eccellenti saggi sull'LSD, a parte i citati rapporti originali di Stoll, di eccezionale interesse sono le osservazioni di Rinkel, Hyde e Solomon22 e di Anderson e Rawnsley23.

In seguito l’LSD, come altri composti analoghi, fu usato come mezzo terapeutico, forse quando si riconobbe la differenza fra una condizione transitoria, sperimentale, provocata artificialmente in un soggetto volontario e in laboratorio, e la prolungata, insidiosa, paralizzante malattia che ha colpito una vittima ignara la cui vita sociale viene progressivamente atrofizzata. Vennero messi quindi in secondo piano gli effetti negativi di questo tipo di droghe, e per porre in risalto l’effetto di dilatazione della coscienza lo stesso H.Osmond24 coniò un termine: "psichedelici", cioè, dal greco, manifestatori, rivelatori (=delos) della mente (=psiche). Quasi tutti coloro che lavoravano con gli psicotomimetici infatti concordavano nel ritenere che ci fosse in essi qualcosa di particolare, di mistico: parole come "indimenticabile" e "indescrivibile" abbondano nella letteratura specializzata. Per completare il quadro dell’esperienza lisergica, infatti, va citato il dato costituito dall’arco, o "viaggio", dal cui svolgimento il soggetto, più che dai singoli stati, può ricavare gli elementi che possono arricchire a lungo termine la sua vita e la sua ideologia di una significatività primaria. Proprio questo mutamento costituirebbe lo scopo del viaggio; la direzione del mutamento e le conseguenze concrete sulla società dipendono dalle prospettive culturali e politiche con cui si ricerca il cambiamento. Così una "cultura della droga" repressiva tenderà a usare queste sostanze per determinare situazioni di manipolazione e condizionamento ai fini del proprio funzionamento da una parte, e di disadattamento e devianza distruttiva dall’altra, per ampliare le condizioni del proprio dominio ( per esempio, le ricerche statunitensi condotte nell’ambito del Pentagono)25.

Sidney Cohen26 si chiese come fosse possibile che "dalla medesima ampolla potessero uscire allo stesso tempo la pazzia e il massimo beneficio" e ne concluse che nell’arco di quei venti anni dovevano essere cambiate le aspettative e le mete degli studiosi, visto che la droga era rimasta la stessa. Lo stesso Hofmann definì in un notissimo libro l’LSD "il mio bambino difficile", per mettere in luce le conseguenze catastrofiche che possono derivare da una cattiva valutazione della sua natura, che agisce nel profondo della nostra coscienza, e le paure, le difficoltà e infine l’ostracismo che ha suscitato nel suo cammino ma allo stesso tempo consapevole delle sue enormi potenzialità, e del fatto che, se usato con la dovuta saggezza, avrebbe potuto diventare un bambino prodigio27.

Attorno a queste sostanze iniziarono a fiorire molte speranze circa un prossimo mutamento nell’approccio della psichiatria alla malattia mentale, ma anche in altri campi quali sociologia, psicologia, arte, filosofia e religione. Si legge infatti nell’opera curata da David Solomon28: "Per i medici come me che ogni giorno hanno a che fare con quelle paralizzanti malattie che confinano migliaia e migliaia d'infelici in quei tetri e antiquati istituti che passano sotto il nome di ospedali, la pubblicazione di una monografia come questa è consolante. Forse significa che l'apatia e l'abbandono stanno per finire, che avremo la possibilità di applicare le conoscenze, immense ma spesso non usate, che già possediamo circa la cura dei malati di mente, e che potremo ottenere incoraggiamento e appoggio per giungere a scoperte ancora maggiori" .

4. L’LSD in psicoterapia

Oltre alla già citata capacità psicotomimetica, gli psichiatri avevano scoperto che queste sostanze avevano una loro funzione in psicoterapia, soprattutto l’LSD. Prendendo esempio dalle culture indiane del Sud che utilizzavano mescalina per risolvere i problemi di alcolismo, si iniziò l’applicazione terapeutica in questo ambito ottenendo sorprendenti risultati. I primi esperimenti sembrano essere quelli di H.Osmond e A.Hoffer in una clinica di Regina, in Canada, che somministravano LSD ad alcolizzati per produrre stati temporanei simili a quelli del delirium tremens, con lo scopo di far loro provare in anticipo quello che li avrebbe aspettati alla fine della strada da loro intrapresa. Con loro grande sorpresa, i soggetti riportavano invece di essere stati trasportati in una dimensione trasformatrice dell’essere, più simile a uno stato illuminato che ad uno psicotico: proprio questa esperienza procurava loro le forze necessarie per farla finita con la dipendenza. A partire da questi risultati, Osmond e Hoffer si applicarono per sviluppare e affinare il potere terapeutico degli psichedelici per trattare le dipendenze, sino a formulare un "trattamento ispirato" che si fece conoscere con nome di "Psicoterapia Psichedelica al culmine".

Anche K.E.Godfrey29 riporta una serie di esperimenti con LSD effettuati su pazienti trattati per alcolismo durante l’anno 1963-64 nel Topeka Veterans Administration Hospital. Nel corso di un programma terapeutico della durata di 90 giorni furono somministrate dosi di LSD da 300 a 900 microgrammi: l’autore ha messo in evidenza l’importanza di un ambiente accogliente e confortevole per l’esito delle esperienze con l’LSD, e si è convinto di come le reazioni conseguenti siano largamente condizionate dall’atteggiamento di aspettativa dello sperimentatore. Conclude che se l’autodistruzione dell’alcolista è rivolta contro l’introietto dentro di sé, l’esperienza psichedelica, attraverso la parte osservata dell’Io, permette di percepire questi introietti e rende possibile al paziente di neutralizzarli o di assimilarli. Osserva che "Queste ipotesi potrebbero costituire la base per nuovi indirizzi nella ricerca con l’LSD. Questa, però, a causa di ignoranza e pregiudizi, viene spesso attaccata, sicché, pur di fronte a risultati incoraggianti, dobbiamo esortare alla riservatezza. Da parte mia sono persuaso che il trattamento con l’LSD sia un prezioso strumento terapeutico che merita innanzitutto l’interesse degli psichiatri".

In seguito si tentò di estendere la tecnica alla cura delle nevrosi e delle psicosi. Busch e Johnson30 sono stati tra i primi in questo campo.

Lo stesso Godfrey31 riporta di un trattamento in cui, in aggiunta alla psicoterapia di orientamento psicanalitico, è stato applicato l’acido-d- lisergico. L'effetto dell'LSD nella terapia analitica viene riassunto come segue: facilitazione della regressione e della memoria, intensificazione del transfert, riduzione del tempo di resistenza, aumento della capacità d'introspezione e di autosservazione. Inoltre mettono in guardia dal pericolo della generalizzazione e insistono sulle premesse a loro avviso indispensabili per il trattamento. A questo proposito vanno menzionate due tecniche, quella psicolitica e quella psichedelica, praticate per lo più negli Stati Uniti, benché tale denominazione sia posteriore32, fatta dagli storici e dagli psichiatri che nei decenni a seguire ripresero in mano la storia dell’uso di questo farmaco. La prima, praticata da H.Abramson già nel 1960, consisteva nella somministrazione di piccole dosi, circa 30 microgrammi di LSD, per accelerare e facilitare le sedute. Si ricollegava direttamente alla narcoanalisi, che era la pratica già diffusa di effettuare la psicoanalisi con pazienti in stato alterato di coscienza, in seguito alla somministrazione di sostanze o all’ipnosi o ad una combinazione di entrambi. Si cercava di ottenere un rilassamento della coscienza perché durante l’analisi potessero emergere più facilmente i ricordi dell’infanzia, le esperienze traumatiche ed in generale i contenuti inconsci latenti, repressi e patogeni. A detta degli psichiatri più entusiasti, grazie alla particolare azione del LSD, in meno di dieci ore si potevano far emergere ed analizzare i contenuti che in una normale terapia richiedevano anni di lavoro. Uno degli psichiatri presenti alla conferenza del 1959 ad esempio riferiva: "Ho speso sette anni e mezzo sul lettino e 20.000 $, e così credevo di essere stato psicanalizzato. Ma poche sedute con l’LSD mi hanno convinto del contrario"33.

Quella psichedelica, molto usata da J.K.Adams nella West Coast, avveniva invece con dosi elevate (con un minimo di 100 microgrammi), che provocavano al paziente esperienze di depersonalizzazione e di stravolgimento del normale vissuto soggettivo, permettendo una nuova visione della propria vita e del proprio mondo circostante. Durante queste psicosi indotte le percezioni divenivano particolarmente significative e si esperivano numerosi insight in un processo di accumulazione che eccezionalmente sfociava in una sensazione beatifica di comprensione universale per cui ogni cosa sembrava venire compresa nella sua armonia con il "Tutto".

Gregory Bateson, il filosofo, rispettivamente negli anni 1958 e 1959, le sperimentò entrambe: "Entrai nella ricerca sull’ LSD con l’intenzione di pensare ai problemi dell’ordine estetico, in quanto distinti da altri tipi di ordine che nella scienza ci sono più familiari "34. Proprio in California, dove lui viveva, la sperimentazione e l’uso dell’LSD e di altre sostanze psichedeliche si stava spargendo a macchia d’olio, grazie soprattutto all’opera di diffusione di un gruppo di psichiatri, letterati e filosofi, agevolati da un entusiasta mecenate milionario Alfred M. Hubbard che si diceva aver iniziato all’LSD circa 6.000 individui. Il gruppo da lui fondato, il Commission for the Study of Creative Immagination, comprendeva i filosofi Gerald Heard e Jhon Smithyes, gli psichiatri Humprey Osmond, Abram Hoffer e Sidney Choen e il letterato Aldous Huxley. La diffusione delle loro idee avvenne grazie soprattutto alla notorietà di Osmond che aveva trovato un’affinità strutturale tra le molecole della mescalina e dell’ LSD con quelle dell’adrenalina, agevolandone la diffusione nel mondo psichiatrico, e grazie al coinvolgimento di importanti personalità del mondo mediatico, tra cui i fratelli Luce, editori della popolare rivista LIFE, alcune celebrità di Holliwood, e numerosi artisti.

Bateson si dimostrò comunque sempre scettico nell’utilizzo dell’LSD nelle psicoterapie, dato che la logica e le dinamiche mentali e comunicative sottostanti erano ancora troppo poco conosciute per essere applicate, e riteneva che i rischi potevano dimostrarsi maggiori dei benefici: scardinare le premesse epistemologiche dell’individuo non garantiva in nessun modo una ricostruzione di premesse migliori. Egli infatti non entrò mai a far parte dell’MRI, il Mental Research Institute di Palo Alto, California, in cui venivano compiute ricerche su LSD e mescalina, e altalenanti furono i suoi rapporti con l’Esalen Institute, baluardo della controcultura fondato su premesse strettamente connesse all’epistemologia psichedelica californiana.

Anche M.Rinkel35 era contrario all’utilizzo di queste droghe sui pazienti malati di mente, e aveva osservato che potevano peggiorare in seguito alla somministrazione dell'LSD. Personalmente, ritengo lecito che un ricercatore si chieda se una persona che non può comunicare normalmente sia in grado di rendersi molto utile durante un'esperienza che spesso riduce al silenzio dei volontari, nel pieno possesso delle loro facoltà, che si sono impegnati a fare del loro meglio per riferire le loro impressioni.

Altro psichiatra illustre nell’utilizzo dell’LSD nella psicoterapia è Stanislaw Grof36: egli condusse i primi trattamenti in Cecoslovacchia, nell’Istituto di Ricerca Psichiatrica di Praga, e poi si trasferì negli Stati Uniti dove ha continuato queste sedute di viaggi psichedelici anche con malati di cancro e malati terminali, partecipando all'ultimo sopravvissuto programma americano di ricerca psichedelica al Centro di Ricerca Psichiatrica Maryland a Baltimora dopo la messa al bando di queste sostanze. Egli nel 1967 si era unito al gruppo di Menlo Park, in California, di cui facevano parte Abraham Maslow, Anthony Sutich, James Fadiman, Miles Vich, e Sonya Margulies, e loro intento era creare una nuova psicologia. Tale necessità nasceva dall’insoddisfazione per i due paradigmi dominanti all’epoca in America: la psicoanalisi e il comportamentismo. A questa nuova disciplina venne dato il nome di Psicologia Transpersonale, su suggerimento dello stesso Grof. La teoria umanistica di Maslow venne arricchita di due punti: il riconoscimento della spiritualità come un aspetto legittimo ed importante della psiche umana, e lo studio dello spettro intero dell'esperienza umana, incluso gli stati non-ordinari della coscienza (di cui Groff era esperto). Dal 1975, impossibilitato a proseguire nei suoi studi con l’LSD, ha lavorato con la respirazione olotropica, un potente metodo di terapia e di auto-esplorazione che ha sviluppato insieme a sua moglie Christina. Groff è arrivato ad alcune conclusioni estremamente importanti e significative. Particolare importanza assume l’esperienza autobiografica nel viaggio psichedelico, che corrisponde al riemergere nella coscienza trasformata di eventi di rimembranza emozionale, magari eventi che erano stati cancellati, spesso traumatici. Questi  eventi della vita di un individuo, sono tutti collegati tra loro dalla stessa situazione emozionale con la quale si sono presentati la prima o l'ultima volta: Groff li chiama sistemi COEX, cioè Condensed Experience, Esperienza Condensata. Egli sostiene che seguendo a ritroso nel tempo una propria sensazione sotto LSD o in ipnosi, il soggetto arriva al momento della propria nascita, secondo lui un momento centrale dell’esistenza, la prima esperienza di morte o di quasi morte. I soggetti si accorgerebbero così della non autenticità di molti loro atteggiamenti, credenze e comportamenti, giungendo alla consapevolezza che essi derivano dalla paura della morte e dai residui del trauma irrisolto della morte. Successivamente alla morte dell'Io, la capacità di godere la vita aumenterebbe considerevolmente, e l'entusiasmo per il processo della vita verrebbe a sostituire la coazione ripetere. Groff sostiene che questo si può adattare a qualunque esperienza di trasformazione della coscienza. Anche Kenneth Ring è giunto alle stesse conclusioni, lavorando con coloro che hanno superato la morte in senso materiale e fisico.

5. Psichedelici e arte

 

A livello aneddotico o clinico esistono molti dati, come anche si può evincere dal paragrafo precedente, che tendono a dimostrare che l’esperienza psichedelica può facilitare l’atto creativo, per un effetto di "espansione della mente", ma ciò nonostante risultano scarsi gli studi per una loro conferma sul piano sperimentale.

Secondo i meccanismi neurofisiologici già accennati queste sostanze provocherebbero un’alterazione della barriera che fa da filtro agli stimoli sensoriali, per cui i limiti abituali dello stato di coscienza normale verrebbero superati e le impressioni più disparate e vivaci risulterebbero amplificate. Tendenzialmente si è osservato negli esperimenti degli anni ’50 e ’60 che gli psichedelici (LSD, mescalina, psilocibina i più usati) rappresentavano un fattore favorente l’esperienza creativa, in quanto aumentavano la sensibilità artistica ed estetica, la ricchezza d’immaginazione e delle esperienze sensoriali, ma non aumentavano le capacità artistiche dei soggetti sul versante produttivo37. Gli psichedelici potevano sì stimolare l’apparizione di materiale grezzo originale, che poi però solo l’artista era in grado di utilizzare ed esprimere, grazie alla sua personale capacità di creare un’opera d’arte. Scrisse a proposito Krippner, citando un giovane artista che aveva avuto un’esperienza con LSD38: "Ci vogliono anni per diventare artista, un viaggio psichedelico non trasforma automaticamente uno in artista...Io avevo imparato la disciplina artistica, ma mancavo del contatto con l’anima e lo spirito che rendono viva l’arte. Ciò può essere fornito dall’esperienza psichedelica".

Allo stesso modo, parlando della follia invece che di esperienze indotte di alterata coscienza, K.Jaspers giustamente notava: "La personalità, il talento preesistono alla malattia, ma non hanno la stessa potenza. In queste personalità la schizofrenia è la condizione, la causa possibile perché si aprano queste profondità"39.

Come abbiamo già visto, l’esperienza psichedelica può spesso trascendere il semplice effetto di un dato obiettivo, per situarsi in quelle regioni, scriveva H.Ey nel 1969, dell’essere dove sorge il puro vissuto, il radicale della soggettività, come un prototipo sperimentale di esperienze come quelle mistiche o estetiche.

Forse proprio in seguito a questo vastissimo movimento, negli anni Settanta si modificò anche l’idea di arte e creatività, che grazie anche alla riflessione fenomenologica venne estesa all’attività espressiva dei malati mentali, con interessanti dibattiti sulla relazione tra genio e follia.

Non sorprende, quindi, che queste droghe abbiano avuto una parte importante nell’evoluzione di un’intera cultura e dei suoi mezzi espressivi, e di un nuovo stile di vita. Una cultura ben diversa dal modello distruttivo e violento che si accompagnò all’uso degli stupefacenti, eroina in particolare, che caratterizzarono la successiva situazione sociale, a partire dagli anni Settanta.

. Il movimento psichedelico e la fenomenologia in Italia

Abbiamo visto che la psichedelia come movimento di espansione della coscienza attraversò gli anni Sessanta e ne fu lo sfondo culturale. In Italia un punto di elaborazione autonoma di questo movimento fu la rivista Il Re Nudo che organizzò anche concerti, feste ed eventi in cui si voleva rendere visibile la realtà di un movimento che cercava nuove forme di consapevolezza e di comunicazione.

Questo movimento nel nostro Paese si mescolò alla diffusione delle radio libere e al teatro di ricerca che veniva dal Living e dall’Odin Theatre per poi costituire il cosiddetto "terzo teatro". Nella eccezionale vicenda di Marco Cavallo e del manicomio di Trieste, esperienza o mito fondatore della legge di riforma psichiatrica, si trovano tracce di questa esperienza. Marco Cavallo, un cavallo azzurro di cartapesta, creato da G.Scabia, conteneva tutti i desideri nel ventre e un giorno volle uscire dal manicomio. Si narra che vennero abbattute le porte per farlo passare e poi si formò un corteo da S.Giusto composto da chi era al di qua e al di là delle mura. Una confusione creatrice, il mito che distrugge il manicomio. Un mito psichedelico? Una nuova forma di coscienza? Forse.

6.1 G.E. Morselli

 

Giovanni Enrico Morselli, clinico e uomo di cultura, va ricordato come il più significativo psichiatra italiano della prima metà del Novecento. Ha transitato silenzioso ed inosservato per la breve stagione della psichiatria clinica classica, contemporaneamente a figure che hanno avuto ben altro destino, come Jaspers, Minkowski e De Clerambault. A differenza del panorama italiano, prevalentemente organicista, egli è stato il solitario rappresentante di una visione dinamica e totalitaria del disturbo psichico.

Egli si rese noto con l’articolo Sulla dissociazione mentale40, in cui aveva presentato forse la prima lettura in chiave antropologica di un caso clinico. Tuttavia, in Italia, venne accolto con sufficienza e criticato dai più, nonostante il grande interesse della comunità psichiatrica estera per la sua opera. Elena era una giovane pianista, allucinata e delirante grave, dotata di un’incredibile sensibilità, che egli incontrò nel 1925 presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali di Milano. Assistente e allievo del famoso Prof.Besta, neurologo, gli chiese che fosse affidata a lui. E’ estremamente interessante questo passaggio di consegna, dove l’interesse della più genuina psichiatria clinica si costituisce proprio su quella terra incognita da dove la neurologia si ritira, dove la neurologia non riesce a costruire teoremi semiotici semplici, cioè fondati sulla corrispondenza tra segno e lesione. A partire da un certo punto in poi, il giovane medico non si interessò più della classificazione diagnostica, quanto piuttosto dello snodarsi della sua relazione con Elena e della rilevanza psicopatologica ed umana degli eventi. Morselli non riusciva, per quanto si sforzasse, ad afferrare fino in fondo la vera malattia di Elena, nonostante i suoi continui tentativi di afferrare brandelli di quest’altro mondo di cui lei gli parlava. Cucirle addosso un’etichetta, di isterica piuttosto che di schizofrenica, non sembrava aiutarlo in questo senso.

Questo caso, divenuto poi un classico della letteratura psichiatrica, come quelli di Freud e Binswanger, per la prima volta mostrò come l’Io schizofrenico si distacchi dal mondo da noi conosciuto per immergersi in quello popolato dall’immaginario e dal sogno, mostrando il fascino stregato e misterioso delle esperienze psicotiche creative. Scriverà nel 194841: "La metamorfosi dell’io schizofrenico è ben lungi dall’essere un fenomeno di passivo automatismo regressivo o una pura conseguenza reattiva psicogena; l’ammalato, pur subendo il peso della dissoluzione e dei fattori psicogeni, vi costruisce una forma di vita, così come l’eschimese costruisce, per proteggersi, l’igloo, la capanna di neve". Fu quindi una premessa fondamentale alla fondazione di un approccio terapeutico centrato sulla radicale fenomenologia dell’incontro, sostenuto da un concetto "attivistico" della psicopatologia.

Sorprendendo la comunità scientifica presente al Secondo Congresso Internazionale di Neurologia, tenuto a Londra nel 1935, G.E.Morselli presentò un’insolita relazione, dal titolo Contributo allo studio delle turbe da mescalina42. Era il resoconto diretto della sua esperienza personale con la mescalina avvenuta tre anni prima, in cui descriveva minuziosamente il processo di modificazione del corso, della forma e del contenuto dei suoi pensieri e delle sue percezioni sotto l’effetto della sostanza. Egli voleva attirare l’attenzione sulla produzione, da parte di questa sostanza, di turbe assai simili ai sintomi schizofrenici, oltre a quelle di tipo propriamente "catatonico", meravigliato di come il problema di una "schizofrenia sperimentale" fosse stato sino ad allora poco sentito dai ricercatori. Gli unici autori che si occupavano di questa materia all’epoca, da lui citati, erano infatti solamente tre: K.Beringer, Mayer Gross e l’italiano Ceroni. Questa esperienza fu per lui importantissima, e gli consentì di scorgere gli stretti legami tra gli stati indotti da sostanze psichedeliche e i fenomeni psicotici di depersonalizzazione, fornendogli una migliore e più ravvicinata comprensione di questi ultimi. Egli, come anche M.Bleuler e lo stesso Mayer-Gross, non sosteneva un’identità tra quadri mescalinici o da LSD e schizofrenia, ma poneva il problema delle psicosi sperimentali in riferimento a determinate alterazioni mentali acute di aspetto schizofrenico43. Partendo da taluni fenomeni della sua autoesperienza mescalinica, egli confutò la teoria jacksoniana che vedeva la schizofrenia essenzialmente come un processo di disintegrazione, e quella kraepeliniana che si concentrava sull’aspetto deficitario della malattia, giungendo a considerarli un mondo a sé stante di organizzazione psicologica: non illogicità né difetto di raziocinio, ma al di là della logica e del raziocinio, con manifestazioni autenticamente costruttive.

Ponendo nuovamente al centro del suo lavoro l’idea di attivismo psicopatologico, ho trovato molto interessante la sua riflessione in tema di allucinazione. Morselli rifiuta che i suoi caratteri possano essere ricondotti a degli errori di giudizio o percettivi, o a delle immagini patologiche: "Chi oggi dopo i lavori di Mourgue, di Quercy ed i contributi da me recentemente pubblicati insiste ancora nel considerare l’allucinazione quale prodotto di puro automatismo disgregativo non possiede, evidentemente, esperienze personali sull’argomento"44. Come il sogno è una seconda vita, l’allucinazione è una seconda percezione: non un falso percepire ma un altro modo di percepire, in cui si intrecciano fenomeni dissolutivi e costruttivi: un’ "immagine provvista di materia". Il fattore dissolutivo tinge del proprio colore le manifestazioni costruttive e le sollecita, mentre la loro origine risiede nella natura stessa, intrinsecamente produttiva, della cerebro-psiche. In sintesi, la sua definizione dell’essenza delle manifestazioni schizofreniche è metamorfosi attiva sullo sfondo dissolutivo45.

G.E.Morselli si occupò molto anche della relazione tra patologia mentale, arte, creatività ed espressione già dagli anni Cinquanta, convinto che lo studio dell’espressione plastica schizofrenica potesse dare alla psicopatologia un cospicuo contributo. Un campo che, come vedremo (CAP.VI, par.5), proprio in quegli anni stava subendo una radicale trasformazione: le opere dei malati mentali, che prima erano considerate riduttivamente segnali, espressione della loro malattia, iniziarono ad essere apprezzate come prodotto della loro creatività e sensibilità, del loro modo altro di vedere e di essere nel mondo. A proposito scrisse nel 196246: "In molti ammalati di schizofrenia noi sospettiamo qualcosa di primitivamente positivo e di intrinsecamente originale, che sfugge alle rigide maglie della cosi detta dissociazione, rivelando vere e proprie metamorfosi strutturali. .. E le espressioni plastiche osservabili in questi malati sono un po’ come il diagramma di tali metamorfosi". Lo studio delle espressioni plastiche di schizofrenici lo indusse a confermare la sua idea di un mondo psicopatologico autonomo. Infatti vedeva i loro disegni e le loro pitture come riferibili ad un mondo, di cui rispecchiavano per intero la struttura formale, riferibili cioè ad una strutturazione a sé dell’esistenza. Scorgeva la soggettività nell’oggetto, ritenendo che il fatto espressivo divenisse tale solo grazie ad un atto comprensivo da parte dell’osservatore che ne intuisse il significato.

6.2 Modificazioni nel test dell’albero in malati mentali

 

Per quanto riguarda l’azione psicotropa della dietilamide dell’acido-d- lisergico, oltre ai già citati studi, vanno aggiunte le ricerche che hanno indagato le modificazioni psichiche da essa indotte sia mediante l’uso di test mentali, soprattutto proiettivi, come il Rorschach o il T.A.T., e sia con l’esecuzione di disegni su temi fissi o liberi. Il primo contributo è rappresentato dal lavoro di Matefi, del 195247, il quale, sperimentando su di sé gli effetti dell’intossicazione da LSD-25, eseguiva disegni a tema obbligato a varia distanza nel tempo: come esito, notò la tendenza all’espansione delle forme. Altri contributi provengono da Tonini e Montanari48, Rinkel49, e Berlin50.

Il contributo in merito su cui voglio invece soffermarmi è di G.Gomirato, G.Gamna ed E.Pascal del 1958, effettuato presso la Clinica per le Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Torino51. Esso rappresenta il primo, o forse l’unico, studio sistematico sulle modificazioni espressive di pazienti psichiatrici sotto l’effetto dell’LSD. Il test utilizzato è quello dell’albero. Ideato da Jucker e introdotto nella pratica psicopedagogica da Koch nel 1949, il Baumtest venne in seguito applicato da altri autori anche nella psicopatologia e nella diagnostica dei malati mentali. La prova è molto semplice, e consiste nel chiedere al soggetto di disegnare un albero su un foglio. F.Marzi e F.Biagiotti52, in un lavoro su 200 malati mentali, notarono che "per le sue caratteristiche lineari e spaziali il disegno di un albero permette più di ogni altro una libera espressione della personalità.. Esso ha il vantaggio di non essere circoscritto e di non avere linee chiuse, di non essere compreso in determinato limiti, rendendo quindi evidente l’impronta personale di ogni soggetto esaminato". I pochi lavori in campo psichiatrico relativi al Baum test tuttavia si concentravano maggiormente in ricerche formali complesse, secondo schemi vicini a quelli della grafologia, trascurando per lo più l’elemento globale che per altro non era sfuggito allo stesso Koch, che nella sua monografia parla di proiezione dello "spazio che in noi portiamo"53.

In un primo lavoro54, gli autori G.Gomirato, G.Gamna e P.C.Besusso scelsero di considerare il test dell’albero rilevando l’interesse per un’interpretazione globale, ritenendo che potesse così permettere lo studio della rappresentazione della struttura spaziale e, dalla considerazione di questa, un tentativo di ricostruzione fenomenologica del modo alterato di "essere nel mondo" (o "essere nello spazio") alla base di molte psicosi. Lo scacco della comunicazione, infranta ma non dissolta per sempre in questi disturbi, in cui non è più possibile articolare l'abituale (spontanea) reciprocità di significati e di gesti, e la metamorfosi della intersoggettività, che è la condizione radicale di questo franare della comunicazione, sono, secondo la prospettiva fenomenologica, dialetticamente correlate con la metamorfosi delle strutture spaziali e temporali soggettive.

Gli AA. accolsero 200 test dell’albero in malati mentali con diverse diagnosi: 70 schizofreniche, 40 distimiche, 20 epilettiche, 20 frenasteniche, 20 personalità psicopatiche, 20 senili e 10 psicosi organiche. Fu subito evidente che le produzioni più interessanti appartenevano alla categoria degli schizofrenici, soprattutto di quelli in fase terminale, ed erano significative come mezzo di espressione grafica del mondo formale ed ancor più della struttura spaziale. Esse presentavano caratteristiche peculiari che ben simboleggiavano il mondo di questi soggetti, a volte stereotipatamene cristallizzato, altre surrealistico, ma spesso informe e impoverito sino a ridursi ad una negazione della categoria spazio-forma. E’ da considerare che, in questi soggetti, lo spazio ed il tempo, due coordinate essenziali per lo svolgersi della nostra esistenza, sono profondamente alterate nel loro vissuto. Lo spazio schizofrenico è razionalizzato, dominato dal geometrico e dal simmetrico, emozionalmente ed esistenzialmente vuoto, non affettivamente direzionato, proprio di chi non esiste. Il significato che questo spazio così vissuto assume nella strutturazione del mondo è costituito non da un’alterazione sul piano percettivo, ma dal rappresentare la situazione di rottura tra il mondo e l’Io. I disegni degli altri gruppi di malati erano invece assai meno significativi: nella maggior parte di essi la struttura spaziale è conservata, tranne in quei casi in cui il danno di tipo demenziale o la limitazione originaria (frenastenia) sono così gravi da impedire ogni tipo di interpretazione, e nei casi più gravi si registra un’incomprensione del compito assegnato.

L’indagine fenomenologica pose in rilievo come le coordinate spazio-temporali della vita psichica individuale fossero primitivamente alterate in alcune psicosi, con alterazioni dello schema formale, soprattutto nella schizofrenia, dando ragione della distorsione del mondo vissuto di questi malati mentali.

6.3 Uno studio di Torino con l’acido-d-lisergico

 

Il precedente studio fu preliminare a quello sulle modificazioni del test dell’albero in psicotici sottoposti agli effetti della dietilamide dell’acido-d- lisergico55. I soggetti erano 23 pazienti schizofrenici di sesso maschile, degenti dell’Ospedale Psichiatrico di Collegno. Essi venivano sottoposti all’azione della LSD 25, introdotta per via venosa alla dose di 100 gamma, e veniva loro richiesto di disegnare l’albero prima e sotto l’azione del farmaco. Lo studio mirava a stabilire un raffronto tra le modificazioni del test dell’albero e quelle mentali che si instaurano sotto l’azione dell’LSD. Lo scopo era sia quello di ottenere risultati di interesse psicopatologico, sia per verificare eventuali impieghi di questa sostanza nella diagnostica differenziale.

La ricerca contiene precise osservazioni sulle reazioni dei soggetti, riportate a ogni ora dalla somministrazione della sostanza, per circa 7-8 ore, il tempo della durata degli effetti; in certi casi è riferito anche lo stato in cui si sentono il giorno dopo e cosa ricordano dell’esperienza. I disturbi registrati sono i seguenti:

  1. neurologici: spasmi, tremori;
  2. vegetativi: malessere, nausea, parestesia, midriasi;

    timici: ansietà o euforia, spesso alternatesi;

    dispercettivi: dello schema corporeo, allucinasi elemtari(rari);

    della coscienza: stati sognanti, depersonalizzazione;

  3. l’accentuazione della sintomatologia mentale precedente: aumento della dissociazione, dell’autismo, del negativismo.

Dai risultati emerse che non vi era un costante parallelismo tra le modificazioni vegetative e quelle mentali indotte dall’acido-d-lisergico, tranne la considerazione che i casi con meno alterazioni neurovegetative erano anche quelli meno alterati dal lato mentale. La sintomatologia schizofrenica apparse nettamente accentuata sotto l’effetto della sostanza, ma il fenomeno risultava difficilmente schematizzabile, visto che le modificazioni mentali non erano univoche, e potevano apparire a diversi livelli strutturali. In alcuni soggetti, inoltre, venivano in superficie situazioni conflittuali che non erano mai state rivelate prima.

Il disegno dell’albero, sotto effetto dell’LSD, risultò quasi sempre modificato notevolmente rispetto al controllo, anche quando non vi erano modificazioni neurovegetative, neurologiche o mentali in atto o quando la sintomatologia clinica dell’intossicazione lisergica era già molto ridotta o scomparsa. Tuttavia neanche le alterazioni nel disegno si presentavano in modo univoco.

In alcuni casi si constatava un impoverimento con riduzione dei particolari, la rappresentazione era sommaria e tendeva ad ingrandirsi, venendo a occupare tutto il foglio. Oltre a elementi di natura motoria, come i tremori, intervenivano elementi psichici a rendere difficile l’esecuzione.

In altri casi, al contrario, si assisté a una scheletrizzazione, talvolta accompagnata da rimpicciolimento, tipica dei disegni di schizofrenici in fase terminale. Le variazioni del senso di grandezza sarebbero da imputare, più che a elementi motori, all’accentuazione del deterioramento della personalità dello schizofrenico.

Altre modificazioni, più rare, erano testimoni della disgregazione del senso della struttura spaziale: in questi casi l’elemento psichico determinante era quasi sicuramente l’alterata coscienza.

Gli autori misero poi in relazione queste modificazioni espressive alla dottrina fenomenologica, per la quale le alterazioni primitive nelle psicosi riguardano proprio la struttura spazio-temporale nella quale inseriamo il nostro vissuto. Secondo Minkowsky, una alterazione di queste coordinate produrrebbe tutta una serie di sintomi secondari riguardanti il contenuto. Quindi le alterazioni formali sarebbero primarie, e quelle contenutistiche secondarie.

Secondo gli AA. i risultati validerebbero questa ipotesi, visto che l’unico elemento in comune riscontrabile nelle varie modificazioni indotte dall’ intossicazione è quello della struttura spaziale alterata. Altra sorprendente analogia riguarda le modificazioni del disegno dell’albero osservate in questa ricerca e le alterazioni della forma e della struttura delle tele di ragni intossicati con varie sostanze, tra cui anche l’LSD 25, riscontrate da Witt56 nel 1951.

Gli AA. conclusero che le manifestazioni mentali prodotte dall’LSD 25 non erano ravvicinabili ad una sindrome clinica ben definita, come invece all’epoca ritenevano i moltissimi sostenitori delle psicosi modello o sperimentali57. Preferirono descriverle come effetto di un’azione di tipo tossico a carattere psiconeurotropo che avviene più con il coinvolgimento dei vari livelli di strutture psichiche: timica, poetica, ecc., che non di una particolare azione psicotropa su un più ristretto livello strutturale a carattere dissociativo. Il quadro clinico, a loro avviso, sarebbe da ravvicinare più a quelle sindromi a tipo cosiddetto esogeno di Bonhoeffer con alcuni elementi di tipo "alterata coscienza" che non a una psicosi tipica. Tuttavia, l’intossicazione lisergica produce alterazioni dello stato affettivo in parte ravvicinabili alle sindromi distimiche; alterazioni di aspetto dissociativo che in parte ricordano quelle schizofreniche, ed alterazioni dello stato di coscienza a carattere oniroide. Soprattutto queste ultime sarebbero le responsabili delle modificazioni del disegno dell’albero sotto l’effetto della sostanza in questione.

6.4 Un caso più unico che raro

 

Negli anni Sessanta, si verifica il caso della guarigione di una giovane donna con diagnosi di schizofrenia paranoide, in seguito a somministrazione di LSD58. Parlo di caso più unico che raro in quanto nella letteratura non se ne trovano di analoghi.

La donna, Giuseppina, era ricoverata nel manicomio di V.Giulio, a Torino, nel reparto di malate tranquille e croniche, da oltre sei anni per un delirio persecutorio sostenuto da vivaci allucinazioni acustiche; tuttavia conservava intatte la sua risonanza affettiva e la sua emotività. G.Gamna, primario di un altro reparto, si meravigliava di una paziente così produttiva dopo anni di ricovero. "Forse questo era ormai il solo modo che le rimaneva di comunicare con gli altri, per sentirsi presenza viva in quel mondo di morte"59. Proprio per questo nucleo profondo della sua personalità ancora così vitale la scelse per osservare le sue reazioni all’LSD, prendendo le solite precauzioni ed eseguendo accurati controlli prima durante e dopo la somministrazione.

Giuseppina, sotto l’effetto della sostanza, divenne subito loquace e sovraeccitata. Dopo un flusso enorme di pensieri, ininterrotto, quasi una fuga di idee per oltre otto ore, la ragazza si addormentò. Sembrava che finalmente il pensiero avesse potuto scorrere liberamente, senza più ingorghi od ostacoli, e veniva alla luce la sua espansività e la sua grande vitalità; non era possibile rintracciare una precisa direzione di tutte quelle parole e frasi spezzate, ma non si erano più presentate le solite tematiche deliranti, grandiose e mistiche.

Il mattino seguente Gamna andò a visitarla. Lei gli andò incontro sorridendo e disse: "Sono guarita". Con molta serietà aggiunse: "Che strano e orribile sogno ho fatto per tutti questi anni! Chissà quante sciocchezze dicevo!". Il dottore rimase senza parole, non era la prima volta che assisteva alla quasi miracolosa guarigione improvvisa di malate croniche ritenute irrecuperabili, ma sarebbe stata la prima e ultima volta che l’avrebbe visto succedere dopo un "viaggio" psichedelico. "Forse per Giuseppina il viaggio aveva rappresentato la via di ritorno da un’esplorazione di altri mondi e modi di esistere, in cui solitamente ci si smarrisce per sempre, o forse erano accaduti complessi fenomeni biochimici che avevano mutato il suo destino. In fondo noi che sappiamo veramente della follia?"60.

Dopo un periodo di osservazione di 15 giorni venne rilasciata e tornò a casa. Provocando peraltro grande disagio al marito che dovette frettolosamente cacciare l’amante da casa. Gamna la seguì per oltre vent’anni, ma non si presentarono più disturbi psichici.

Tempo dopo, in una delle sedute dell’A.D.E.G., a cui erano invitati personaggi illustri di varie materie, un famoso farmacologo francese diede un’interpretazione dell’accaduto. La sua risposta fu che, siccome l’acido-d-lisergico veniva dato in dosi dell’ordine di millesimi di milligrammi (gamma), simili a quelle dei neurotrasmettitori, e data la sua struttura chimica simile alla serotonina, era possibile che si fosse verificato una sorta di shock biochimico, un improvviso rimaneggiamento di neurotrasmettitrici che aveva dato luogo, casualmente, alla guarigione.

6.5 Considerazioni62

 

Nel giugno del 1973, alcuni collaboratori del centro di controinformazione Stampa Alternativa, in sede al Convegno Libertà e Droga, denunciarono l’uso sconsiderato che alcuni medici della Clinica per le Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Torino avevano fatto dell’LSD, somministrandolo a malati schizofrenici dei loro reparti. La stampa colse prontamente l’occasione per montare uno scandalo di larga eco, che sfociò in un'isterica polemica e in una condanna del mondo "civile" nei confronti di questo tipo di esperimenti, nei quali dei malati erano utilizzati come cavie. Nel pieno degli anni della contestazione la scoperta di esperimenti a base del potentissimo allucinogeno, su pazienti non consenzienti, malati mentali, rinchiusi con la forza in manicomio, apparve inaccettabile, raccapricciante, per di più se svolto sotto la minaccia di elettroshock. Blumir asserisce in proposito che la data del ’58 "non diminuisce di una virgola la gravità degli episodi".

Il dott.Mossa, allora direttore dell’O.P., dichiarò di non essere a conoscenza dei fatti. Gomirato, all’epoca "aiuto" nella clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Torino, dichiarò che non c’era niente di strano in studi o episodi di quel genere. Il prof.Gamna dichiarò che ai pazienti fosse stata sempre chiesta la disponibilità a provare un nuovo farmaco, spiegando che "all’epoca molti preparati venivano usati a scopo psicodiagnostico su indicazione delle stesse case farmaceutiche", mettendo in luce un complicato rapporto tra gli interessi e la politica delle ditte produttrici, la scienza medica, la deontologia, l’interesse e la salute dei pazienti. Non condivido l’opinione di Pascal che si descrive nel ’58 come un cittadino, uno studente alienato alla stessa maniera dei malati mentali, anzi "più alienato dei cosiddetti malati perché li sfrutta e li tiene in suo potere"63. Trovo paradossale che si dica "maggiormente alienato perché, a differenza di loro, è dotato dell’efficienza e della difesa psichica che gli permette di non farsi coinvolgere dall’altro e di osservarlo come cosa". Ma forse al giorno d’oggi, lontano il periodo delle contestazioni, abbattute le mura dei manicomi, può risultare effettivamente molto difficile cogliere gli aspetti di situazioni così complesse, in cui si intrecciano i caratteri di epoche storiche, sociali e umane così diverse. La distanza tra la situazione manicomiale degli anni ’50 e le lotte che attraversarono la società negli anni ’70 pare incolmabile.

Può essere utile a questo scopo riportare un brano della lettera aperta del prof. E.Pascal risalente al periodo della polemica scoppiata negli anni Settanta: "(..) in manicomio era raccolto un ottimo "materiale" di studio. L’indirizzo rigidamente organicista non consentiva – almeno allora- alcuno spazio per considerazioni sulla comprensibilità o guaribilità dei malati di mente, specialmente per i cronici, irrimediabilmente confinati in manicomio. Lo stimolo universitario era unicamente quello di indagare more scientifico sulla popolazione manicomiale. (..) Ricordo chiaramente che da più parti, all’interno del manicomio, il malato di mente, soprattutto lo schizofrenico, era definito: "inerte, privo di sentimenti, anaffettivo, insensibile, rigido dal punto di vista neurovegetativo", e perciò capace di tollerare dosi enormi di farmaci. (..) Parlare di eventuale collaborazione degli ammalati ad una ricerca, nel contesto manicomiale, è certamente un controsenso. Il malato è portato a forza, contro la sua volontà, dentro l’istituzione, destinato a subire una continua manipolazione. Il solo atto di libertà resta la fuga dal manicomio, definita evasione, o la ribellione, definita crisi e repressa spesso brutalmente. Quando mai avrebbe potuto collaborare a uno studio? E dunque esatto affermare che i 23 pazienti hanno "subito" questa come mille altre ricerche, senza ribellarsi, così come sempre subivano tutto all’interno dell’istituzione (dal vitto allora pessimo e insufficiente, alla totale mancanza di spazio e assurda promiscuità, alla mancanza di cure, ecc.) perché ormai non avevano più la forza di ribellarsi a niente e nemmeno di capire le loro reali condizioni. Erano tutti degenti da molti anni, resi cronici e tranquilli dalla violenza istituzionale. (…) Tuttavia, mentre questa, assieme a molte altre denunce effettuate da più parti, ha portato alla scomparsa delle forme più aperte e rivoltanti di violenza all’interno del manicomio (..), resta tuttora in piedi, forse intatta, un’altra forma di violenza: quella esercitata dai tecnici in nome della scienza, che prevede un’infinità di manipolazioni occulte. Per quanto amareggiato dalla riesumazione scandalistica di questa pagina del mio passato, sono contento che mi si "usi", così come io allora ho "usato" gli ammalati. (..) Esiste probabilmente una pazzia dei sani, un delirio scientifico degli psichiatri. Chi li curerà, se non gli stessi utenti con la partecipazione libera e critica all’atto terapeutico?"

Le critiche mosse ai lavori di Gamna, Gomirato e Pascal da Blumir sono riassunti in alcuni punti:

  1. Ai soggetti non veniva detto cosa sarebbe stato loro somministrato;
  2. In quasi tutti i casi, i pazienti non avevano nessun interesse a disegnare;

    Gli oggetti di studio si sentono analizzati e quindi non sono liberi nelle loro espressioni;

    Incapacità dei dottori di capire i bisogni di questi soggetti, e quindi di aiutarli, sotto effetto dell’LSD (corrispondente alla più generale incapacità di capirli in altre situazioni);

    L’ambiente è un ospedale psichiatrico del 1958 (ambiente non adatto all’assunzione di questo tipo di droga)

    I soggetti sono 23 schizofrenici

    I quadri clinici con cui vengono descritte le esperienze indotte sono decisamente restrittivi

    Allargando il discorso a considerazioni più generali, questi lavori controversi si rifanno a tematiche ben più complesse: l’LSD allora era un farmaco, ora una droga illegale; i pazzi che popolavano i manicomi erano "materiale di studio", erano corpi inermi che subivano di tutto; i dottori e gli infermieri erano dotati di strapotere su questi esseri indifesi e ne abusavano; il mondo esterno si disinteressava totalmente di quella realtà disumana, di quelle vite consumate in nome della scienza psichiatrica; la droga subisce da sempre una sorta di demonizzazione nella nostra società; le case farmaceutiche hanno un interesse enorme nel diffondere i loro prodotti a fasce sempre più consistenti della popolazione e nel divulgare una certa "cultura delle droghe" (ovviamente quelle legali), come qualsiasi altra ditta sul mercato.

    .

    Gli psichedelici come simbolo di un’epoca

     

    Negli anni ’50 -’60 un altro possibile impiego delle sostanze psichedeliche era stato intravisto nell'addestramento e nell'educazione di coloro che operavano nei campi della psichiatria e della psicologia, proprio per quanto riguardava la comprensione di strane forme mentali, o per esplorare la mente in circostanze inconsuete. L’interesse della prospettiva psichedelica, infatti, oltre a risiedere nella possibilità di riorganizzare rapidamente il comportamento durante la psicoterapia, era divenuto con il tempo anche la comprensione stessa di questa particolare esperienza soggettiva, definita di volta in volta mistica, trascendente, estetica, che stava all’origine delle terapie riuscite. L’epistemologia legata a questa pratica trovava radici in certi atteggiamenti romantici che denotavano bisogno di trascendenza e rifiuto del razionalismo moderno. Quello dell’antropologia rispettosa della cultura mistica dei popoli primitivi, visti come custodi di dimensioni ultraterrene. Quello di simpatia verso la schizofrenia, intesa come normale reazione comportamentale a particolari ambienti sociali, se non addirittura come dignitoso rifiuto delle ipocrite categorie della società e dell’intelletto, che avrebbe portato ad uno stato in un certo senso più genuino, più profondo, superiore. Sicuramente anche l’ottica della comprensione, tipica della psicologia fenomenologica e umanista, ed in un certo senso propria anche dell’ottica sistemica proposta dall’équipe di Bateson, unita all’esperienza soggettiva del significativo stato di coscienza lisergico, diedero manforte a quell’atteggiamento romantico.

    E’ anche seguendo questo filone che va compreso e riconsiderato il forte movimento antipsichiatrico che si affermò sul finire degli anni Cinquanta in tutta Europa, caratterizzato dal netto rifiuto di ogni psichiatria di impianto medico-scientifico, e dal suo tentativo di comprendere la follia come un fenomeno non disgiunto dalla normalità, per entrare in empatia con gli psicotici.

    San Francisco per tradizione era aperta alle nuove culture, alle nuove esperienze, come testimoniava la passata Beat Generation, la quale aveva trascinato la città a vivere un periodo di rinascimento dell'arte e della creatività personale e collettiva. Questo risveglio dal torpore artistico aveva fatto fiorire, sulle ceneri della scena beat, una nuova cultura, quella hippy del flower power. Nella gioventù americana si stava radicando un atteggiamento anticonformista ed autarchico che s’inspirava ad un misticismo orientale e che tramite il sesso, la droga e la musica riusciva a stimolare la creatività. La nuova concezione di vita riprendeva in parte la filosofia beat, opportunamente trasformata, modernizzata ed americanizzata, tramutando l'amore fraterno in sesso libero, ed aveva come obiettivo costruire una realtà sociale differente e pacifista. L'utopia di una società alternativa, con queste premesse, era cominciata ad apparire meno irreale. Il movimento hippy, nato all'interno dei centri culturali, nei campus, come nuova forma di bizzarria intellettualistica californiana, ben presto era diventato un fenomeno politico-sociale nazionale. Ricordiamo l’enorme successo del libro di A.Huxley Le porte della percezionedel 1954, che era diventato in breve tempo un simbolo della controcultura psichedelica. Essa aveva trovato in Timothy Leary il suo "guru": psicologo e ricercatore all’Harvard University, aveva sperimentato gli psichedelici su sé e su migliaia di volontari, anche sui carcerati, convinto degli effetti catartici e sempre meravigliato del conseguente sentimento di fratellanza ed empatia che sprigionavano. Ken Kinsey, un ragazzo squattrinato, aveva partecipato ad un programma della CIA che garantiva, già dal 1953, circa 100$ a chiunque avesse voluto sperimentare l’LSD per poi rispondere a delle domande sull’esperienza. Dopo aver risanato in questo modo le sue finanze, tre anni dopo, scrisse Qualcuno volò sul nido del cuculo, testo che presto divenne sacro per la nuova generazione hippy, ed elemento d’apprezzamento per la vecchia guardia beat. Anche C.Castaneda, antropologo e scrittore di culto per quanto riguarda le sostanze psichedeliche nei riti sciamanici del Messico, era all’epoca ricercatore all’Università in California, allievo di H.Garfinkel, fondatore dell’etnometodologia.

    L’attore Cary Grant faceva una pubblicità entusiastica dell’LSD, confessando quanto meschino e incapace di amare fosse stato prima della «cura» con l'Lsd. Questa sostanza dilagava così tra milioni di giovani nel mondo, compresi quelli che riempirono le piazze della "Primavera di Praga" (tra i quali l'ex futuro presidente Václav Havel)63.

    In campo musicale il movimento psichedelico ebbe enorme influenza: ricordiamo i 13th Floor, i Beach Boys, i Grateful Dead, i Jefferson Airplane, i Doors (il cui nome riprende il citato libro di Huxley), i Pink Floyd, sino ai Beatles con la poco ambigua canzone Lucy in the Sky with Diamonds (acronimo di LSD).

    Sicuramente il profeta meno gradito che l’LSD abbia avuto è stato Charlie Manson, che consigliava alle donne della sua setta di prenderlo molto spesso, anche una volta la settimana.

    Il dato che mi ha stupito maggiormente è stato scoprire che anche il Vaticano, negli anni Sessanta, si fosse interessato di controcultura: yoga, psichedelia e oriente erano visti come segni di tendenze spiritualistiche in aumento, e per tanto degne di attenzione, nelle gioventù occidentali. La Chiesa si era messa così in opera per elaborare forme di recupero e di convogliamento di questi dati fuori dai canali eterodossi e dentro i canali tradizionali: sembra ci fosse l’intenzione di somministrare l’LSD a dei gruppi di seminaristi, per provocare esperienze a coloriture fortemente mistiche e religiose. Tuttavia la messa al bando dell’acido-d-lisergico mise fine a questi programmi prima che avessero inizio64.

    Le iniziative personali come quelle dei Merry Pranksters, il gruppo itinerante fondato da Kinsey, o come quella di Augustus Owsley Stanley III che produsse, a proprie spese e senza scopo di lucro, milioni di dosi, contribuirono a rendere la nuova droga un fenomeno di massa. Quando il fenomeno dell’LSD cominciò ad assumere dimensioni impreviste, le autorità cominciarono a preoccuparsi, e corsero ai ripari demonizzando, colpendo ed infine vietando. Tramite gli organi di stampa, l’opinione pubblica, anche poco padrona della materia, venne manipolata trasformando i dubbi in assoluta certezza: questa droga doveva essere proibita. Alcuni fautori tra i più famosi dell’utilizzo dell’"acido" furono messi in carcere per detenzione o spaccio di stupefacenti, come Ken Kensey e Timothy Leary. Nel 1965 la Sandoz tolse dal mercato l'LSD, e il 6 Ottobre 1966 lo Stato della California dichiarò fuorilegge l’LSD, mettendo gli psichedelici sullo stesso piano di droghe come eroina e cocaina, nonostante le enormi differenze tra i due gruppi di droghe, per quanto riguarda tossicodipendenza e danni cerebrali.

    McKenna delinea in un suo recente libro65 cosa abbia comportato per l'umanità l'essersi preclusa l'accesso all'esperienza estatica: l'affermarsi di una cultura e una società autoritaria, basata sul controllo e sulla paura di perderlo; il travisamento del rapporto che ci lega al pianeta, che da simbiotico è diventato parassitario, con conseguente distruzione dell'ospite (e prima o poi del parassita). una feroce repressione del principio femminile e della sessualità.
    "Negli ultimi 500 anni, con le combattute guerre per l'oppio, il caffé, il cacao, il tè, lo zucchero, milioni di persone sono state ridotte in schiavitù, deportate, torturate e uccise. Queste sono droghe a tutti gli effetti, danno assuefazione e dipendenza. In nome di che dunque l'Occidente cristiano ha innalzato roghi per donne armate di mandragora, datura stramonio, belladonna? Per quale motivo flagelli come l'alcool e il tabacco (ne ammazzano più loro che le guerre e le altre droghe) ricevono miliardi in sovvenzioni statali mentre si rischia la galera a coltivare uno Stropharia cubensis sul davanzale di casa? Evidentemente dietro le roboanti prese di posizione dei vari paladini della «guerra alla droga» si nasconde qualcos'altro. Quello che si vuole a tutti i costi è impedire il ripristinarsi dell'esperienza estatica: la societa' del dominio non sopravviverebbe".

    8. I 100 anni di Hofmann

     

    L’LSD può essere usato, con le dovute cautele, come si è visto nei precedenti paragrafi, a scopo terapeutico, psicoanalitico, e creativo. Ma è una droga estremamente delicata e ha bisogno di un rapporto di fiducia tra il somministratore (o compagno di "viaggio") e la persona che, spontaneamente, ha preso la droga, e di un ambiente adatto, cioè sicuro e tranquillo. La cultura italiana psichiatrica, e non solo, degli anni ’50 – ’60 è un esempio tipico di come una cultura alienata possa sprecare le possibilità offerte da un "nuovo" strumento, in questo caso la categoria dei farmaci psichedelici, allo stesso modo in cui oggi vengono demonizzate le droghe leggere, marijuana e hashish, e quindi bandite dalla medicina.

    Proprio in questi giorni in cui scrivo, gennaio 2006, Albert Hofmann compie 100 anni (e sta benissimo!), e per questa occasione è stato organizzato dalla Gaia Media Foundation un simposio di tre giorni: The spirit of Basel. Lsd: problem child and wonder drug. "Tutto ha avuto inizio negli anni Sessanta negli Stati Uniti in connessione alla campagna contro le droghe. Sono stati tirati fuori dei casi di danni cerebrali, ma erano tutte balle, perchè dopo queste prime dichiarazioni, amplificate dalla stampa, in vari laboratori, non in uno solo, è stato dimostrato scientificamente che l'Lsd non procura alcun danno fisiologico, né al corpo nè al cervello. I risultati di queste ricerche sono stati pubblicati sulle maggiori riviste scientifiche. L'Lsd non dà dipendenza, non brucia cellule, i pericoli dell'Lsd nascono solo da un suo cattivo uso, dal non rispetto della sua natura - racconta in un intervista recentissima66 il dr.Hofmann. L'Lsd è già stato usato con grossi benefici dagli anni ‘50 fino all'inizio degli anni `60 nel campo della psicoterapia, perché aiuta a migliorare le condizioni del paziente infrangendo le barriere che esistono tra paziente e terapeuta, facilitandone il rapporto. Aiuta a tirar fuori, a fare emergere il materiale inconscio represso, dove magari sono sedimentate esperienze drammatiche, su cui è necessario intervenire per progredire nel processo terapeutico. Ma al di là degli aspetti medici, le sostanze psichedeliche possono svolgere una funzione essenziale nella prospettiva di arrivare a un superamento del dualismo che è alla base della cultura materialista ora dominante. Se non si giungerà a questa ricomposizione non si potrà guarire dalla malattia del materialismo, l'uomo scisso in se stesso, con l'altro e con il mondo. È necessaria una nuova connessione con la natura, condizione irrinunciabile per impedire la catastrofe ecologica incombente. La situazione sociale, economica, psicologica del mondo sta diventando talmente drammatica che la gente sarà costretta a cambiare direzione".

    IV.

    Leggi manicomiali in Italia

     

     

    parlano, parlano di libertà ,

    ma quando incontrano un individuo veramente libero,

    allora ne hanno paura

     

    Easy rider,1969

     

    1. Introduzione

     

    La Psichiatria, come tutte le discipline che hanno notevole ricaduta sul sociale, può essere analizzata solo tenendo conto dell’ideologia e dell’assetto culturale e politico dominante in quel particolare periodo.

    Il secolo XIX fu caratterizzato da profondi mutamenti socioculturali, accompagnati da pesanti crisi economiche. In Italia come nel resto d’Europa si assistette alla nascita e allo sviluppo del processo d’industrializzazione che provocò una forte migrazione verso i nuclei urbani e il dilagare della povertà nelle campagne e nelle periferie.

    Dai primi decenni sorsero e vennero ristrutturati in tutto il Paese moltissimi "Spedali de’ Pazzarelli" che svolgevano la funzione che F.M.Ferro1 definisce di "ambulanze di feriti sociali", e la politica manicomiale diventò sostanziale per i suoi intendimenti repressivi e di esclusione sociale delle classi subordinate.

    Il panorama psichiatrico italiano non si presentava omogeneo, ma con diversi paradigmi dominanti: a Torino, Milano e Firenze prevaleva la linea clinico-sperimentale, al sud come Aversa e Palermo, vigeva ancora l’interpretazione morale della follia.

    La psichiatria italiana nacque ufficialmente nel 1872, quando C.Livi, in occasione del II Congresso degli Scienziati Italiani, propose di istituire una disciplina autonoma alla medicina, esprimendo un bisogno molto sentito dai medici alienisti.

    La nascente psichiatria concentrava i suoi interessi sulle indagini anatomopatologiche e sulle ricerche neurologiche per tentare di spiegare il mistero della follia. Il disturbo psichico veniva considerato il sintomo di una lesione o alterazione organica, sotto l’influenza del positivismo tedesco, e venne abbandonato ogni interesse per i fattori soggettivi e ambientali. La preoccupazione primaria era di gestire i pazienti, e il paradigma organicista portò a considerare la malattia mentale incurabile, cronica.

    Scopo fondamentale era dimostrare che la malattia mentale, e la devianza in genere, non andava messa in relazione con le contestuali condizioni economiche e sociali, ma era sempre di natura endogena: ereditaria, genetica o costituzionale. Inoltre, il modello medico-neurologico serviva a fornire uno statuto e un riconoscimento scientifico, di cui la disciplina andava in cerca. Vennero così respinte le idee innovative provenienti dalla Gran Bretagna che consideravano i manicomi come fabbriche della follia, e che avevano portato alla creazione delle open doors, le prime comunità terapeutiche libere.

    Verso la fine dell’Ottocento la popolazione manicomiale andava subendo un deciso incremento; fra i motivi va annoverata la diffusione della pellagra, considerata una malattia sociale in quanto colpiva ampie fasce della popolazione, soprattutto tra i più poveri. Le principali manifestazioni erano costituite dall'eritema cutaneo ("mal della rosa", descritto dallo spagnolo Casal nel 1735), dalla diarrea e dai disturbi nervosi ("con astenia, depressione, irritabilità e difetto di concentrazione nei casi lievi, con psicosi acute o con la demenza cronica nei casi gravi"2, oltre a turbe della sensibilità e della motricità), in un quadro generale di dimagrimento e prostrazione fisica e frequenti complicanze di ordine infettivo che determinavano spesso la morte, quando questa già non si verificava per suicidio. L'autorevole Cesare Lombroso, professore nella Regia Università di Torino, che in quegli anni andava conducendo esperimenti sulle cause della malattia, era giunto alla conclusione (condivisa da altri pellagrologi europei del tempo) che essa fosse dovuta ad un principio di avvelenamento da una sostanza tossica, denominata pellagrozeina, generata dalla degradazione, per ammuffimento o putrefazione, del granturco, che era il principale se non unico alimento, sotto forma di polenta, di vaste popolazioni dell’Italia centro-settentrionale. Oggi invece si sa che era determinata dalla carenza di alcuni principi vitaminici essenziali, tra i quali la niacina (vitamina PP, pellagra preventing). Inoltre, la già citata tendenza della scienza medica dell’epoca spingeva verso l’ospedalizzazione della cura; non ultima ragione dell’aumento dei ricoveri era rintracciabile nei nuovi comportamenti famigliari: "..anni or sono […] ritenevano un disonore l’aver un congiunto ricoverato, e vi si piegavano solo nei casi di necessità assoluta. Oggidì la maggior parte va a gara per liberarsi dell’incomodo peso e riversarlo sulla Pubblica Amministrazione" (La vita amministrativa della provincia di Torino, 1861-1911). D’altra parte, alcuni episodi tragici, in cui erano coinvolti malati di mente, ingigantiti dalla stampa, avevano destato un forte allarme sociale. Si parlava più frequentemente, fra la gente, del problema della pazzia, e veniva assumendo un rilievo crescente la questione della difesa sociale dei pazzi. Tuttavia l’esigenza della sicurezza della società si pose sempre preminente sull’esigenza della giustizia nei confronti degli internati. Giolitti, in un discorso ai senatori nel 1903 così parlò dell’urgenza di una legge sul tema psichiatrico: ".. la libertà dei cittadini è in balia di arbitrii così enormi .. sequestri di persona diventano di una facilità straordinaria. Un individuo non molto acuto dì ingegno, non molto energico, ma che sia dotato di una pingue sostanza che eccita la cupidigia dei parenti lontani e vicini, può essere con grandissima facilità soppresso .."

    . "Legge Bianchi"(36/1904)

     

    Nel 1904 venne promulgata la legge 36, cosiddetta Legge Bianchi, che prevedeva l’internamento obbligatorio e coatto delle "persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose per sé o per gli altri o di pubblico scandalo", poi regolamentata nel 1909 con la specificazione che gli istituti avrebbero dovuto essere organizzati secondo i "progressi della scienza psichiatrica". Il ricovero aveva luogo con provvedimento provvisorio, sulla base di un certificato medico; finita l’osservazione, il direttore del manicomio ne riferiva l’esito al tribunale che emetteva la sentenza definitiva senza intervento di difesa. La polizia, in caso di assoluta urgenza o su denuncia di un qualsiasi cittadino, poteva ordinare il ricovero provvisorio immediato.

    Attorno alla gestione degli "alienati" si svilupperà la psichiatria ospedaliera: situazione che rimarrà pressoché immutata sino agli anni ’60. Nel giro di pochi anni sorsero in Italia ben 59 manicomi pubblici, 50 istituti privati e 3 manicomi giudiziari.

    Veniva così confermato il ruolo coattivo di internamento e custodia per le persone indesiderate dalla società o dalla famiglia, e nello stesso tempo è chiara la funzione di campo d’osservazione e di sperimentazione scientifica a discapito dell’interesse per la salute dei ricoverati. Ma da questo momento gli alienisti si rinchiusero, e vennero rinchiusi, dentro le mura dei manicomi, insieme ai pazienti e agli infermieri.

    Nonostante che la conseguenza di questa legge fu di incrementare i ricoveri, l’intenzione del legislatore, specificando i soggetti da internare, era di ridurli per salvaguardare l’economia delle Province, su cui il manicomio gravava con costi insostenibili, circa l’11% del bilancio.

    La legge del 1904 prevedeva inoltre l’iscrizione permanente nel casello giudiziario, e la perdita di ogni diritto civile.

    Nel 1908 si registravano sul territorio italiano 45.000 ricoverati, nel 1915 erano 54.000, su una popolazione totale di circa 45 milioni; cifre ben superiori a quelle dei carcerati.

    Per quanto riguarda il piano accademico, la psichiatria rimase legata a un’ottica biologista, al massimo costituzionalistica, tanto che sino al ’69 esisterà solo la neuropsichiatria. Altri fattori, inoltre, come il neo-idealismo di Gentile e Croce e il cattolicesimo imperante in Italia, impediranno l’emergere di una cultura psicologica e psicoterapeutica: il primo bollava la psicoanalisi come perversa e incoerente, il secondo confinava la dimensione patologica nell’area del male e del peccato. Nel ’23, con la riforma Gentile, la psicologia venne addirittura abolita come forma di insegnamento; questa situazione si protrarrà sino agli anni Cinquanta.

    3. La Psichiatria italiana dal fascismo agli anni Sessanta

     

    Con l’avvento del fascismo non pochi psichiatri italiani furono partecipi dei più retrivi atteggiamenti razzisti, conferendo base scientifica a mitologie razziali, mentre il manicomio venne investito anche della funzione di impedimento della riproduzione di elementi inadatti. Ritardi gravi sull’introduzione della psicoterapia e della psicoanalisi, mantenimento di metodi repressivi e invenzione di trattamenti di shock punteggiano il dominio dei fascismi in Europa. Nel ’38 U.Cerletti e L.Bini, sostituendo il cardiazol con l’energia elettrica, inventarono l’elettroshock, che assieme all’insulinoterapia ed altri metodi disumani e violenti quali la lobotomia, venne usato indiscriminatamente anche nei paesi democratici di tutto il mondo. Incapace di fornire una autentica giustificazione scientifica al proprio operato, la psichiatria legittimava l’impiego di metodi coercitivi non soltanto inutili, ma antiterapeutici e generalmente dannosi. Essi a lungo andare provocavano perdita della memoria, apatia, alterazione grave della personalità. Quelle misure che avrebbero dovuto essere sostenute da valutazioni scientifiche rigorose finivano per fondarsi su regole autoritarie e repressive, commiste a un complesso di pregiudizi: incomprensibilità, inguaribilità, pericolosità del malato di mente. I ricoveri nei manicomi italiani dal 1926 al 1941 passarono da 60.127 a 96.423.

    In Italia i manicomi si differenziarono nel trattamento dei pazienti ebrei; a Torino, per esempio, va riconosciuto il merito ai medici e all’amministrazione di allora di averli protetti cambiandone i cognomi o la religione sui registri, o trasferendoli altrove3. Segni di persecuzione e decimazione apparsero, invece, in Germania, in Francia, a Venezia e Trieste. Solo in Germania tra il 1939 e il 1947 il nazismo provocò lo sterminio di oltre 275.000 individui ritenuti malati di mente, all’interno di un progetto eugenetico effettuato dagli psichiatri stessi, secondo quanto testimoniato dal dottor von Cranach nell’XI Congresso Mondiale di Psichiatria della W.P.A. (World Psychiatric Association), tenuto ad Amburgo nel 1999. Von Cranach svelò l’esistenza di un meticoloso e ufficiale programma nazista di svuotamento delle strutture, tramite una sistematica riduzione dell’alimentazione, camere a gas o somministrazione di farmaci quali Luminal, Trional e Morfinscopolamin. Alcuni sono arrivati a conclusioni decisamente estreme circa i programmi eugenetici dell’epoca: "Ho studiato molto questo argomento per vent’anni e c’è una cosa che ho capito solo ora. Credetemi, la sterilizzazione di massa di persone considerate inferiori e la loro uccisione non ha niente a che fare con il nazismo; è un’idea più remota. La psichiatria non è stata costretta a fare alcunché dai nazisti. Essa ha utilizzato Adolf Hitler e il nazismo, se posso dirlo in termini estremi, per poter realizzare il suo programma omicida e continuare la distruzione delle persone inutilizzabili; essa distingueva tra i pazienti che riteneva inutilizzabili e quelli che essa credeva di poter curare per renderli nuovamente utilizzabili. Per il programma di distruzione di questi ultimi la psichiatria usò il nazismo. Nessuno venne costretto a fare alcunché; gli psichiatri lo facevano di propria iniziativa e volontà"4.

    Nel Secondo Dopoguerra la Psichiatria italiana volse verso un cambiamento tra modernizzazione e democratizzazione5; nel 1948, con l’entrata in vigore della costituzione repubblicana, la legge giolittiana divenne d’un tratto espressione di un tempo superato. Si susseguirono convegni di studio e proposte di aggiornamento che però solo marginalmente influirono sul concreto stile di lavoro e sull’organizzazione della pratica psichiatrica, e niente cambiò in campo giuridico.

    Nel ’52 furono introdotti in Italia gli psicofarmaci con l’utilizzo della cloropromazina, somministrati indiscriminatamente senza interesse per i tutt’altro che secondari effetti collaterali di natura fisica. Ma il problema principale delle "camicie di forza chimica" era ed è tuttora sul piano psicologico, cioè di inchiodare l’individuo alla sua identità malata per il resto dell’esistenza facendo calare una nebbia che ottunde le menti, lascia inebetiti e azzera la personalità. I pazienti più docili avevano invece la possibilità di intraprendere l’ergoterapia: una progressiva riappropriazione di sé attraverso il lavoro, che però troppo spesso si trasformava in sfruttamento.

    E’ nel corso degli anni ’60 che varie correnti della psichiatria si caratterizzarono per la dura critica al vecchio concetto di malattia mentale e di cura della psichiatria classica, incolpata di essere al servizio del sistema consolidato reazionario, anche sotto l’effetto dei prodromi della contestazione che la portava al centro di dibattiti pubblici. Le terapie convulsivanti vennero sottoposte a dure critiche, e la popolazione manicomiale andò diminuendo.

    Importante fu la diffusione dei libri denuncia di E.Goffman e delle idee di R.D.Laing e D.Cooper, che promossero anche in Italia l’ampia corrente che va sotto il nome di antipsichiatria.

    La concreta innovazione di quegli anni è da ricercare nell’operato di alcuni pionieri, quali Franco Basaglia, esponente del pensiero fenomenologico-esistenziale e sostenitore della cosiddetta sociogenesi, che mette in primo piano la relazione della malattia con la società consumistica, alienante, capitalistica. Presero l’avvio le prime comunità terapeutiche sul modello inglese di Maxwell Jones. "La Comunità Terapeutica è un luogo in cui tutti i componenti -malati, infermieri, medici- sono uniti in un impegno totale dove le contraddizioni della realtà rappresentano l’humus da cui scaturisce l’azione terapeutica reciproca"6. Ripudiando ogni tipo di contenzione e trattamento, dimostrarono come fosse possibile trasformare non solo la relazione medico-paziente, ma la stessa condizione dei ricoverati anche prima di una nuova legge organica, che invece veniva chiesta a gran voce proprio dagli psichiatri più tradizionali come garanzia per il mantenimento dello status quo e come alibi per non impegnarsi quotidianamente per la trasformazione7. L’opera di F.Basaglia, a Gorizia, è un sasso nella palude, e spaventa soprattutto la comunità accademica.

    Contemporaneamente, nel 1965, venne introdotta la Psichiatria di Settore su influenza francese, progetto che molti trovarono seducente8 in quanto auspicava la psicoterapia istituzionale e soprattutto proiettava all'esterno del manicomio, cioè sul territorio, l'attività degli operatori. Ma il progetto fallì nella messa in pratica, probabilmente per essere stato imposto dall’alto e fondato più su criteri tecnici che non sui reali bisogni della popolazione. Fu anche molto criticato per l’elevato numero di ricoveri che si registrarono a seguito della creazione di ambulatori nel territorio, che avrebbero dovuto invece avere una funzione profilattica di evitamento dell’esperienza negativa del ricovero.

    I fautori del Settore e della Comunità Terapeutica entrarono rapidamente in conflitto: i secondi rimproverano ai primi, forse giustamente, una politica gattopardesca.

    Tuttavia, nella maggioranza dei casi, il manicomio si configurava ancora come una vera e propria "città della follia: la vita degli internati trascorre nell’inerzia più assoluta. Rare visite dei parenti a lunghi intervalli, rarissime distrazioni. I più fortunati - anche se sfruttati - sono [...] quelli [...] adibiti ai lavori interni [...]. Gli altri passano le loro vuote giornate passeggiando senza fine in pochi metri di spazio o sdraiati sulle panchine. Se poi sono sottoposti a "vigilanza speciale", sono guardati a vista, ammassati a decine entro cameroni spogli, arredati solo da panche e tavoli massicci fissati al suolo, quando non rimangono in letto per mesi e mesi, senza interruzione"9. Solo con la riforma del ’68 si attenuarono le norme più restrittive.

    4. "Legge Mariotti"(431/1968)

     

    La Legge n.431 del 1968, chiamata anche con il nome del ministro della sanità, Mariotti, che aveva definito lager e bolge dantesche gli ospedali psichiatrici, fece espliciti riferimenti alle esperienze di Gorizia e Trieste in corso.

    Venne introdotto il concetto di ricovero volontario "per accertamento diagnostico e cura", senza limitazioni delle libertà personali, nella direzione di un graduale superamento della condizione di ricoverato coatto. Da un punto di vista teorico, fu importante in quanto incrinò il concetto psicopatologico, di origine tedesca, di "non coscienza della malattia". Per altri versi veniva esteso all’istituzione pubblica un esistente che aveva costituito (e che continuerà a costituire) la fonte di ricchezza delle numerose cliniche psichiatriche private, che spesso non si differenziavano in nulla dai manicomi, se non per il ceto sociale dei ricoverati. Bisogna infatti sempre ricordare che il manicomio è abitato da poveri, uomini e donne appartenenti alle classi lavoratrici e al sottoproletariato, economicamente irrilevanti, quindi socialmente molesti.

    L’idea di fondo di questa miniriforma era di migliorare l’istituzione manicomiale avvicinandola a un ospedale generale a connotazione psichiatrica, anche per le pressioni dei sindacati medici per l’equiparazione della retribuzione. Il numero massimo di posti letto fu stabilito in numero di 600.

    Importantissima la sostituzione dell’iscrizione al casello giudiziario con l’anagrafe psichiatrica, che finalmente distingueva la figura del malato di mente da quella del criminale.

    Ma, nonostante la modernizzazione, il manicomio rimase un sistema incivile di gestione della sofferenza mentale dei cittadini con minor potere sociale.

    L’articolo 4 fu un’innovazione per quanto riguarda l’istituzione del servizio sanitario nazionale, e previde l’apertura dei "centri o servizi di igiene mentale"con funzione ambulatoriale. La legge Mariotti aveva anche previsto l’incremento numerico del personale, che doveva essere in rapporto 1 a 3; di conseguenza gli ospedali che si vollero adeguare ai parametri volsero il loro interesse verso un progetto di deospedalizzazione per affrontare i costi che tale riforma imponeva. A Torino, per esempio, in cui gli Ospedali Psichiatrici furono tra i primi a mettersi a norma, ci si accorse che dei 3.344 pazienti, 2.284 avrebbero potuto essere dimessi per essere seguiti nel territorio. La legge non abolì la violenza del ricovero coatto; introdusse la figura dello psicologo negli ospedali psichiatrici, ma trascurò l’esigenza di dare dignità professionale agli infermieri. Non superò, in sostanza, la legge 36/1904 e rappresentò un provvedimento parziale e provvisorio.

    5. "Legge Basaglia"(833/1978)

     

    Gradualmente in Italia avvenne un progressivo ridimensionamento del numero dei ricoverati fissi, e contemporaneamente l’esperienza basagliana stava raggiungendo i risultati più significativi a Gorizia.

    L’opinione pubblica si divise tra chi voleva che si continuassero a tenere i matti dentro le strutture idonee alla loro custodia e chi si accorgeva della necessità di chiudere l’era del "paleomanicomialismo" (D.De Salvia). Nella cronaca degli anni ’70 si susseguirono scandali riguardanti le condizioni in cui si trovavano i pazienti: primo fra tutti quello di Villa Azzurra, a Grugliasco, Torino, in cui il primario, il prof. Coda, praticava elettromassaggi lombo-pubici a bambini legati, ricoverati per enuresi notturna, con lo scopo dichiarato di "addolcirne il carattere"10.

    Queste notizie si alternavano ad altre, in realtà ben più sporadiche, che spingevano nella direzione opposta, circa delitti commessi dai primi pazienti dimessi. Tuttavia sempre più si diffuse la consapevolezza che la violenza fosse generata all’interno stesso dell’istituzione, per i suoi effetti altamente iatrogeni, con numerosi articoli di giornale sugli orrori del manicomio. Divenne un famoso slogan il titolo di un servizio: "Entrano uomini, escono matti".

    E’ un fatto relativamente isolato nel panorama europeo e di grande portata la riforma realizzata nel nostro Paese dalla Legge 180 del 1978, chiamata anche "Legge Basaglia", sugli "Accertamenti e trattamenti volontari e obbligatori" confermata dalla legge 833 dello stesso anno, frettolosamente stilata e votata (soprattutto da cattolici e comunisti) per evitare il referendum abrogativo della legge del 1904. Essa sancì da una parte il superamento e la chiusura degli Ospedali Psichiatrici, e dall’altra la creazione di servizi territoriali adeguati per la prevenzione, la cura e la riabilitazione del disagio psichico. Si realizzava così la definitiva inclusione della Psichiatria nel nuovo Servizio Socio-Sanitario Nazionale.

    Bisogna notare, tuttavia, che nel passaggio dalla legge 180 alla 833 erano intervenute alcune modifiche. Prima di tutto sul numero di posti letto nei nuovi reparti ("servizi") negli ospedali generali, passato da un massimo di 15 alla sua regolazione da parte di un "piano sanitario regionale", con il rischio che tali spazi continuassero ad essere funzionali più alle esigenze personali dei primari e della loro clientela privata che ai bisogni reali della salute mentale della popolazione. Inoltre il tetto massimo di 15 rispondeva all’esigenza di non sovraffollare un luogo che avrebbe dovuto mantenere uno stretto collegamento con i servizi territoriali.

    Altro elemento importante di variazione tra le due leggi si riferisce al richiamo al dettato costituzionale sui diritti degli ‘infermi’: mentre la 180 si richiamava ai "diritti civili e politici garantiti dalla costituzione", la 833 limitò il riferimento alla costituzione al solo art.32 sulla salute come fondamentale diritto dell’individuo, espressamente citato insieme al "rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura".

    Tale normativa, che restava comunque decisamente garantista, si inseriva nel panorama degli anni ’60 -’70 delle lotte anti-autoritarie degli studenti, dei lavoratori, delle donne, di critica dei poteri repressivi, e non mancarono i collegamenti tra questi movimenti e il processo di chiusura dei manicomi, che infatti in Italia si colorì di forte tinte politiche.

    Il nodo politico era rappresentato dai ricoveri non consensuali, e, nonostante la forte opposizione, venne istituito il Trattamento Sanitario Obbligatorio, che assumeva le connotazioni di un "fermo" medico in cui resistevano elementi coattivi ed autoritari della "vecchia" psichiatria, e della concezione di pericolosità della malattia mentale.

    Per assurdo, il T.S.O. sembra echeggiare la vecchia distinzione dei manicomi tra pazienti cronici e agitati, e la 180 sembra occuparsi prevalentemente di questi ultimi.

    Complici i neurolettici, il T.S.O. diventò lo strumento giuridico per sancire la negazione della malattia mentale nei suoi caratteri di pericolosità e pubblico scandalo.

    Le condizioni perché esso venga applicato sono 3:

  3. se esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici;

se gli stessi non vengono accettati dall’infermo;

se non vi sono le condizioni e le circostanze che consentono di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere.

Quest’ultima fu suggerita dallo stesso Basaglia, che voleva sottolineare come la necessità dell’internamento dipendesse da un’insufficiente organizzazione territoriale; l’introduzione del terzo punto aiutò inoltre ad abbassare il numero dei T.S.O., risparmiando a molti l’esperienza negativa del ricovero coatto. Nella 833 venne aggiunto inoltre un comma che prevede un’azione esplicita dell’USL per ridurne l’uso, "sviluppando le iniziative di prevenzione e di educazione sanitaria ed i rapporti organici tra servizi e comunità". Specificazioni di questo genere vanno nella direzione di posticipare il più possibile l’ingresso del soggetto "debole" nell’iter psichiatrico, quindi il suo etichettamento con conseguente stigmatizzazione: le persone sono rese pazze giorno dopo giorno, trattandole come tali. D.Cooper era solito dire che la differenza tra il sano e il malato di mente fosse solo che il secondo era passato dal reparto "Osservazione".

Queste trasformazioni vanno anche collegate a innovazioni nel campo stesso della psichiatria, come l’approccio fenomenologico-esistenziale e la psicoterapia delle psicosi. Si presentarono così le condizioni per un radicale cambiamento, e almeno una parte della psichiatria, quella più di sinistra e basagliana, prese una posizione sempre più decisa contro le chiusure, le contenzioni fisiche, l’uso massiccio di psicofarmaci, rivalutando l’importanza del contatto con la società informale senza il tramite della psichiatria. Allo stesso tempo, si nota un improvviso interesse per Freud e la psicoanalisi, e presto sorsero innumerevoli tecniche psicoterapiche che invasero il "mercato dell’angoscia"11.

In questa fase si consolida il processo di deistituzionalizzazione, e i pazienti dimessi furono destinati alle famiglie di origine o a strutture residenziali con finalità terapeutiche e riabilitative. Nel 1978 i ricoverati registrati nei manicomi italiani erano circa 100.000, nel 1994 erano ancora 20.000. Oltre al blocco dei ricoveri, va anche citato l’altissimo tasso di mortalità nelle strutture asilari, che si attesta al 6%. Poco prima del 2000 si può dire che non ce ne erano più.

Ovviamente non mancarono applicazioni paradossali delle nuove norme; ad esempio alcuni medici ordinarono il trasferimento coatto di pazienti nei paesi di origine da cui mancavano da decenni per "affidarli al sindaco"; altri provocatoriamente lasciarono semplicemente porte e cancelli aperti senza nessun altra modifica nel trattamento dei pazienti. E infatti nella generalità dei casi non vi furono modificazioni sostanziali del carattere carcerario degli OP., e molti istituti si limitarono a cambiare nome. A dimostrazione del fatto che gli psichiatri tradizionali erano incapaci a gestire il rapporto coi pazienti in modo diverso, basta considerare le continue richieste da parte loro di ulteriori leggi quadro applicative e chiarimenti.

Fu dunque un mutamento solo ideologico e interpersonale, che non permetteva di uscire dalla enorme distanza di potere nella relazione medico-paziente, e differenziò enormemente i veri fautori del cambiamento che, con o senza l’appoggio degli amministratori, avevano già forzato l’interpretazione delle vecchie norme e trasformato la realtà manicomiale, rompendo gli ostacoli fisici e culturali al cambiamento. Nella pratica, infatti, tutti i diritti costituzionali sono stati ignorati o soppressi in modo disinvolto e brutale: il diritto a non subire violenze delle "persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà" (art.13 cost.), il "diritto dell’infermo a comunicare con chi ritenga opportuno"(legge 833, art.33, comma 6).

Alla mancanza di sensibilità, volontà o capacità di cambiamento da parte degli operatori, va aggiunto il clamoroso insuccesso delle ideologie a cambiare le cose, l’esigenza di non rompere con le alleanze di potere vigenti, con i ceti proprietari, con la cultura "borghese", cioè con l’establishment.

Negli ultimi anni si assiste a una ripresa di potere da parte della psichiatria istituzionale, potere esercitato sui soggetti non utili al mercato, sui più deboli o sugli emarginati. Il processo di psichiatrizzazione colpisce sempre più ampie fasce della popolazione, dai bambini disattenti e iperattivi ai disturbi di personalità, che colpiscono soprattutto poveri , violentati e oppressi, con lo scopo di emarginarli o di consegnarli al mercato delle industrie farmaceutiche. Simmetricamente, il potere psichiatrico torna ad occuparsi dei criminali, se danarosi per sottrarli alle condanne nei processi, altrimenti per analizzarli davanti al pubblico televisivo. Ma, sostanzialmente, si tratta di un processo che unisce i poteri in gioco sul destino di molti che risultano totalmente inascoltati, fuori da ogni opportunità, soggetti a cui è stato sottratto ogni potere sulla propria vita: migranti, gente in rivolta, persone chiuse nel proprio mondo o, al contrario, reattivi e "irrispettosi"- come dicono le nosografie psichiatriche12.

V.

Movimenti antimanicomiali in Italia

 

 

perché un pazzo è anche un uomo che la società non ha voluto ascoltare

e a cui ha voluto impedire di pronunciare delle insopportabili verità

V.Van Gogh

 

 

1. Psichiatria di Settore e Comunità Terapeutica in Italia1

 

Nella seconda metà degli anni ’50 penetrarono in Italia il modello della socioterapia anglosassone e quello francese del settore. Il carattere concreto e molto pragmatico della comunità terapeutica sembra richiedere solo uno sforzo di applicazione, e in quanto tale esso appare un metodo accessibile, immediatamente utile a trasformare l’organizzazione della vita quotidiana dei ricoverati. Viceversa, il modello del settore si presenta complicato nei principi; al tempo stesso è vago e impreciso nelle strategie, autorizzando ben presto, nella realtà italiana, un suo uso tutto ideologico, di astratto riferimento a criteri di decentramento che, peraltro, nessuna legge in Italia autorizza. Mentre per la comunità terapeutica si tratta di mobilitare le risorse dell’istituzione manicomiale, mettendone in discussione regole e procedure in un’impresa tutt’altro che facile, e tuttavia praticabile dal potere medico, per la strategia del settore si sarebbe costretti a puntare su improbabili cambiamenti programmatici, amministrativi e legislativi, in una sfida di lungo periodo a sostenere la quale non esistono né premesse credibili, né modelli consolidati.  

È singolare che, nonostante ciò, la diffusione in Italia dell’ideologia del settore abbia avuto una risonanza molto più ampia e d’effetto di quanto non sia accaduto per la comunità terapeutica. Singolarità retorica: l’ideologia del settore consente, nella genericità della nozione, un uso un po’ indiscriminato dei suoi contenuti di riferimento. Lascia immaginare l’attivazione di un rapporto dentro/fuori l’istituzione psichiatrica che, raramente preso alla lettera come urgenza e possibilità reale di applicazione, viene propagandato come una delle modalità evolutive, di naturale sbocco e sviluppo dell’organizzazione psichiatrica

Il modello settoriale si diffuse inizialmente nelle province di Torino e Milano, in seguito anche in alcune aree metropolitane, come Bologna e Firenze. Il Settore sembrava rappresentare il necessario corrispondente in campo psichiatrico della tanto auspicata assistenza sociale capillare, basata sulle nascenti Unità Sanitarie Locali, non organizzate attorno all’ospedale ma sul territorio, per focalizzare l’attenzione sui fattori psicosociali che favoriscono l’insorgenza della malattia. Una rottura rispetto a una situazione manicomiale e psichiatrica italiana statica e tradizionale, che avrebbe potuto essere un valido strumento di degerarchizzazione e di superamento della logica istituzionale dei ruoli e dei livelli di potere corrispondenti. Invece, la sua introduzione rimase strettamente intrecciata al ritardo culturale della psichiatria italiana, come importazione di un modello organizzativo totalmente estraneo alla sua tradizione asilare, che per di più non trova, neppure all’esterno dell’O.P. e analogamente a quel che accadeva in Francia, prototipi o sostegni organizzativi derivati dalla medicina sociale. D’altra parte l’adozione "teorica" di questo modello non obbligò lo psichiatra italiano a sostenere un processo di profonda trasformazione del rapporto tra il malato di mente e la società; né coinvolse in un dibattito pubblico approfondito la questione legislativa o l’assetto amministrativo e istituzionale dell’ospedale psichiatrico.  

Nei risvolti deboli del "settore amministrativo" (Firenze, Torino, Milano) accadrà su piccola scala in Italia quello che pare essere, anche in Francia, uno dei problemi principali di questa politica: il carattere forzoso delle sue procedure d’autorità (prima di tutto amministrative), le quali finiscono col far prevalere – sotto forma di risposte astratte a bisogni che tali forse non sarebbero all’origine – una logica di ammodernamento tecnologico. I bisogni della popolazione vengono, in queste procedure, interpretati in chiave di governabilità: adattati a modelli e a tecniche di governo secondo una logica calata dall’alto che prescinde completamente, ed anzi accuratamente evita, la critica pratica delle istituzioni esistenti e il coinvolgimento dei soggetti interessati alla trasformazione.  

Nei rari casi in cui si andò oltre la definizione di facciata, i tentativi di applicazione del settore si scontrarono con amministrazioni locali che posero il veto e non ressero, alla prova dei fatti, l’iniziale concessione di margini di manovra (così fu dell’esperienza del settore di Varese). C’è stato, al contempo, nel modello triestino, una proposta originale di utilizzazione dei criteri del settore che ne rovescia il tracciato. Da un lato l’instaurarsi di una continuità dentro/fuori l’O.P. ha socializzato le risorse dell’istituzione: ha fatto del manicomio – dei suoi spazi, delle sue iniziative culturali – un’impresa produttiva aperta alla città, un laboratorio sociale accessibile a tutti. Dall’altro la divisione dell’O.P. in settori, così come compare nel progetto originario e come è stato messo in pratica, ha immediatamente legato le diverse équipe a specifiche zone d’intervento nella città (calcolate attorno ai 50.000 abitanti).   Per quanto riguarda il modello della Comunità Terapeutica, esso ha avuto in Italia sostanzialmente due matrici: da una parte quella inglese, e dall’altra la psicoterapia istituzionale presente nella psichiatria di settore francese. Le prime comunità erano già presenti sul finire degli anni Sessanta, come Villa Serena a Milano, ma sono esperienze d’avanguardia; per lo più si sono sviluppate solo molto più tardi, in seguito allo svuotamento dei manicomi e all’azione apri-pista delle comunità per tossicodipendenti e per adolescenti problematici. Sul finire degli anni ’60, solo Gorizia ha fornito, dopo anni di lavoro silenzioso, un modello credibile di trasformazione del manicomio, dimostrando la pratica applicabilità della socioterapia di derivazione anglosassone. Al tempo stesso ne svelò i limiti e ne criticò i presupposti, rovesciando una posizione di tradizionale subalternità della psichiatria italiana ai modelli terapeutici europei. E’ da notare che in Inghilterra le prime Comunità videro la luce all'interno di strutture ospedaliere militari e fu solo successivamente, sull'onda dei fermenti antipsichiatrici messi in moto anche dalle straordinarie esperienze di pionieri quali T.Main, M.Jones, W.R.Bion, S.H.Foulkes, J.Richman, che si realizzarono i primi esperimenti per pazienti psicotici. Fu principalmente a questi successivi sviluppi che, in Italia, si guardò con entusiasmo, con una ventina d'anni di ritardo.

La forza di Gorizia è consistita, in primo luogo, nella visibilità dei risultati e nella costanza di una pratica critica sviluppata lungo quasi un decennio. La quantità di significati e implicazioni che porranno questa esperienza al centro del nascente movimento nazionale, le sono derivate da una serie di convergenze nella società civile e nelle lotte istituzionali e operaie. Il modello della comunità terapeutica è stato interpretato e agito alla lettera, come una prassi che modificava completamente la vita quotidiana dell’istituzione, scomponendone le leggi interne e svelando, con i mezzi della realtà, l’artificio del "doppio istituzionale". In questo sforzo, l’équipe che lavorava a Gorizia ha potuto sottrarsi alle ideologie di modernizzazione della psichiatria nel sociale, interrogando la collocazione speciale nel manicomio e lo statuto d’eccezione della psichiatria nell’alveo delle scienze mediche.  

I fautori della CT entrarono presto in conflitto con quelli del Settore, accusati di attuare una politica gattopardesca.

La Psichiatria di Settore venne osteggiata e criticata da più parti, e si colloca in un periodo in cui la psichiatria italiana stessa è divisa da forti contraddizioni interne, spesso inconciliabili: da una parte quella accademica, fortemente legata all’istituzione manicomiale, dall’altra la "nuova psichiatria", a sua volta divisa dalla corrente più moderata, identificabile con Jervis, da quella basagliana o democratica, e da quella "ultra-basagliana" o antipsichiatrica.

2. La rivoluzione (o l’utopia) basagliana

 

Franco Basaglia condusse negli anni ’60 - ’80 una grande battaglia sociale, culturale e politica oltre che medica. La sua battaglia, d’avanguardia a livello mondiale, è stata l’apertura dei manicomi, il togliere la costrizione a star chiusi dentro, eliminare metodi e trattamenti violenti e disumani, l’apertura dei cancelli.

Il pensiero di Basaglia era vicino alle correnti psichiatriche di ispirazione fenomenologica ed esistenziale, rappresentate da K.Jaspers, E.Minkowski e L.Binswanger. Importante influenza ha anche avuto la lettura di E.Husserl, M.Heidegger e M.Merleau-Ponty. Inoltre, puntuali e numerosi i riferimenti a J.P.Sartre per quanto riguarda il concetto di libertà, e a E.Goffman e M.Foucault per la critica all’istituzione manicomiale. Il primo Basaglia riteneva l’indirizzo antropofenomenologico diretto verso la totalità dell’essere umano, e poneva in evidenza il dramma esistenziale del soggetto che vive in sé la sensazione della caduta e della rottura.(F.Basaglia, Il mondo dell’incomprensibile schizofrenico attraverso la Daseinanalyse: presentazione di un caso clinico, Giorn.Psichit.e Neuropatol., 81, 1953)

Il modello che egli perseguì nella pratica psichiatrica ospedaliera era quello della Comunità Terapeutica di origine inglese.

Nel 1961, anno in cui vinse il concorso per la direzione dell’OP di Gorizia, il suo impatto con la realtà manicomiale fu durissimo: cancelli, porte e finestre sempre chiuse, e le "terapie" praticate erano la segregazione nei letti di contenzione, la camicia di forza, i bagni freddi, l’elettroshock, la lobotomia. Dopo aver definito le sue teorie e coinvolto gli operatori, medici e non, più sensibili al problema e alle innovazioni, iniziò il processo che doveva portare all’eliminazione di ogni tipo di contenzione e delle terapie elettroconvulsivanti; i cancelli vennero aperti e si adoperò affinché il trattamento farmacologico venisse affiancato dalla psicoterapia, insistendo con il personale perché avesse rapporti umani e paritari con i degenti. I pazienti dovevano essere considerati degli uomini "in crisi", una crisi esistenziale, familiare, sociale che non era più malattia, diversità o inferiorità. La cronicità veniva riconosciuta come prodotto dell’essere rinchiusi in quel non-mondo chiamato manicomio. Doveva essere restituita una dimensione soggettiva al problema, in opposizione al concetto di diagnosi, il cui valore categoriale conduce inevitabilmente sia all’oggettivazione del sintomo sia alla stigmatizzazione del "malato mentale": così, nell’inseguire il fantasma di una malattia, il medico non vedrà mai l’uomo, codificato in un ruolo passivo che lo cancella. Era impensabile che negando istituzionalmente la soggettività dei folli li si potesse guarire, cioè restaurarli nella loro soggettività. Quindi ogni pregiudizio doveva essere messo tra parentesi, sospeso; e nello stesso modo in cui il malato andava considerato nell’unicità e totalità della sua persona, così gli psichiatri dovevano dimenticare di esserlo per riscoprirsi persone, in una relazione che non doveva più presentare i caratteri gerarco-autoritari su cui la vita manicomiale si era sempre basata, bensì quelli della reciprocità. Secondo la filosofia esistenzialista, la "cura" è un modo di essere che si avvicina a quello dell’amore; il rapporto con il malato si attua su un piano umano, restituendo dignità di cosa umana anche alla malattia.

Queste idee confluirono nel volume Che cos’è la psichiatria?2, e che segnò l’inizio dell’appassionante dibattito sulla situazione italiana, con una lucida critica delle finalità e funzioni dell’O.P.. Vi si trova una denuncia dell’ideologia psichiatrica "chiusa e definita nel suo ruolo di scienza dogmatica che, nei confronti dell’oggetto della sua ricerca, ha saputo definirne la diversità e incomprensibilità, venute a tradursi concretamente nella sua stigmatizzazione sociale". La psichiatria asilare doveva riconoscere di aver fallito il suo incontro con il reale, essendosi limitata a fare della "mera" letteratura (ovvero teorie ideologiche), mentre il malato si trovava a pagare le conseguenze di ciò, rinchiuso nell’unica dimensione ritenuta adatta a lui: la segregazione. La psichiatria, come una "letteratura di propaganda", aveva giocato un ruolo essenziale nel processo di esclusione del malato mentale, del diverso, voluto da un sistema politico convinto di poter negare ed annullare la proprie contraddizioni allontanandole da sé, rifiutandone la dialettica, per potersi riconoscere ideologicamente come una società senza contraddizioni, sana.

Nel 1968 Basaglia pubblicò l’Istituzione negata. Rapporto da un OP3, con cui diffuse al grande pubblico l’esperienza innovativa dell’OP di Gorizia, ottenendo uno strepitoso successo editoriale e riuscendo quindi a raggiungere un pubblico vasto e variegato con un argomento così specialistico e fino ad allora marginale. Il libro introduce una rottura epistemologica di grande portata, con la denuncia di quelle che venivano definite "istituzioni della violenza", svelandone il ruolo oppressivo. L’interesse dell'esperimento goriziano era andato molto al di là del settore specialistico della psichiatria: gli autori dimostravano che il problema della malattia mentale e della sua gestione sociale riguardava i rapporti di potere della società. Descrive la trasformazione di un manicomio tradizionale in una situazione operativa dove, per la prima volta in modo completo, si dimostrava che l'immagine comune della follia era errata.

Nel ’71 Basaglia divenne direttore dell’OP di Trieste, dove erano ricoverati oltre 1200 persone, dopo le dimissioni drammatiche da Gorizia per i dissensi con l'amministrazione democristiana, e la breve e difficile parentesi di Parma. A Trieste istituì laboratori di pittura e teatro, e il cavallo di cartapesta colorata fatto sfilare per le strade della città insieme a medici, pazienti, infermieri e artisti divenne il simbolo della speranza per tutti i rinchiusi. Qui, come prima a Gorizia, i pazzi andavano quasi del tutto liberi per la città, e il fatto era messo continuamente in evidenza sui giornali e sulle televisioni di tutto il mondo.

Questa novità era basata sulla teoria e prassi basagliana della "libertà come terapia" e del rispetto dei diritti dei pazienti mentali. Egli riteneva che lasciarli liberi, cioè aumentare il più possibile il loro margine di libertà, fino appunto a uscire parzialmente o definitivamente dal luogo di reclusione, o a prendere decisioni autonome, aumentasse di molto le loro possibilità di tornare con i piedi per terra, di "guarire", di tornare a svolgere un ruolo attivo nella propria vita e nella società. Di fatto, negli ospedali basagliani, erano organizzate assemblee pressoché permanenti di medici, infermieri e pazienti per discutere insieme qualsiasi problema, come avveniva anche in Inghilterra nelle cliniche in cui operava Ronald D.Laing.

Il grosso della battaglia antistituzionale non fu tuttavia di tipo medico, ma politico. Egli dovette battersi contro quegli infermieri, che erano allora la maggioranza, che non volevano cambiare modo di lavorare e di trattare con i pazienti, in particolare riguardo alle costrizioni; contro quegli psichiatri che volevano continuare nella loro prassi principale delle diagnosi-cura di tipo medico; contro quei partiti locali e parte dell’opinione pubblica impauriti dei pazzi in giro; contro i politici per modificare le leggi statali; contro lo stigma prodotto dai mass media… Questo, forse, fu il suo maggior autentico capolavoro.

Per quanto riguarda l’azione curativa, l’aspetto medico era messo in secondo piano, addirittura tra parentesi, e il nucleo dell’iniziativa era rappresentato dalla "liberazione", dalle assemblee, dai diritti restituiti ai pazienti. Però gli psicofarmaci, da alcuni anni introdotti massicciamente in Italia, erano usati anche negli ospedali di Basaglia; a questo proposito, si riscontrano oggi, come allora, pareri discordanti per quanto riguarda i dosaggi somministrati.

Il più grave dei compromessi, nell’aspetto politico della sua lotta, fu forse il non aver messo in dubbio né l’aver delegittimato formalmente la psichiatria quale branca della medicina, mentre altri psichiatri che conducevano una battaglia parallela di chiusura dei manicomi, come Laing o Szasz, mettevano profondamente in discussione i fondamenti stessi di tale (pseudo) scienza, cioè che ci fosse una vera malattia medica del cervello. O, almeno, non lo fece esplicitamente, visto che tutta la sua opera è stata non medica, quindi non psichiatrica

Questa volta, comunque, sentì il bisogno di andare oltre la trasformazione della vita e dei rapporti all’interno delle mura del manicomio: esso andava chiuso, e al suo posto andava costruita una rete di servizi esterni per provvedere all’assistenza delle persone con disagi psichici. Lo smantellamento dell’Ospedale Psichiatrico, suo obiettivo prioritario, era anche considerato come un’operazione di per sé terapeutica, di per sé eticamente giusta e culturalmente e legalmente necessaria.

Il complesso ospedaliero psichiatrico era chiaramente una struttura fine a se stessa, senza scopi terapeutici né riabilitativi; ciò che vi veniva fatto sembrava servire solo per mantenerlo in vita, e non si intravedevano spiragli che lasciassero intravedere un progetto a venire, un cambiamento verso qualcosa che ne avrebbe giustificato l’esistenza e il suo persistere. L’unico scopo apparente era il malato, che però non esisteva in quanto l’individuo sfuggiva dietro la diagnosi, in un’istituzione totale che cancellava ogni individualità e portava alla depersonalizzazione, alla disintegrazione della propria identità attraverso processi di alienazione4.

Nel 1973 Trieste venne designata "zona pilota" in un esperimento rivoluzionario nella ricerca dell’O.M.S. sui servizi di salute mentale. Nello stesso anno Basaglia fondò il movimento di Psichiatria Democratica. Nel 1977, in un’affollatissima conferenza stampa, venne annunciata la chiusura dell’O.P. di San Giovanni entro l’anno. Nelle critiche a tale operazione di liberazione da parte degli psichiatri più tradizionalisti, o delle voci più fuori dal coro, si è sostenuto che essa fosse diventata possibile principalmente per l’uso massiccio e continuativo di sedativi sui pazienti5. I suoi sostenitori, invece, dichiarano che nel corso della deistituzionalizzazione sperimentavano bassi e decrescenti dosaggi di psicofarmaci, e mettono l’accento sulla partecipazione collettiva dei pazienti alle iniziative sociali, di lavoro e di svago6. A loro favore citano degli studi dell’O.M.S. che hanno dimostrato come l’uso degli psicofarmaci non sia mai riuscito, da solo, a produrre significative diminuzioni dei ricoveri.

Comunque, la tecnica "curativa" (o riabilitativa) di liberazione sembrava funzionare: ridare loro parola e ascolto, rispettare i loro diritti, restituirli alla società. Molti resuscitavano pienamente, altri barcamenandosi per uscire finalmente dal luogo in cui erano stati costretti e maltrattati, se non sfruttati, per tanti lunghi anni.

Il 13 maggio del ’78 fu approvata in parlamento la "legge 180" di riforma psichiatrica; di recente, nel 2003, l’O.M.S. l’ha indicata come "uno dei pochi eventi innovativi nel campo della psichiatria su scala mondiale". Comunemente oggi il nome di Basaglia viene legato a questa legge, ma non va dimenticato che le sue lotte avevano mire ben più ampie. In seguito egli analizzò con grande acutezza le due possibili vie del periodo "post-manicomiale", quella più emarginante che relega (una volta chiusi i manicomi) i malati in una situazione di abbandono e di annullamento, e quella invece dell’"offerta di un'alternativa di cura", volta a reinserire nel tessuto sociale il malato. La chiusura dei manicomi fu un passo importantissimo, benché nel campo limitato dei disagi mentali, per chiedere alla società di non aver paura della diversità che ospita, e che, in questa o in altre forme, sempre più dovrà ospitare.

Nel ’79 Basaglia fece un viaggio in Brasile, dove incontrò psichiatri, psicologi, infermieri, studenti, ai quali, attraverso una serie di seminari raccolti successivamente nel volume "Conferenze brasiliane", riferì della propria esperienza. L'importanza di questo insegnamento fu infatti notevole proprio in un'America latina tormentata da dittature, guerre civili e violenze tali da essere la causa principale di squilibri e disturbi della psiche di molti cittadini, nel difficile passaggio da regimi autoritari a fragili forme di democrazia. La tesi di fondo di questa nuova concezione della psichiatria che andava spiegando, era la responsabilità sociale sia nell'insorgere del disturbo, sia nella terapia, sia infine nell'accoglienza da parte della rete sociale della persona psichicamente sofferente. "Il manicomio – diceva in questi incontri – ha la sua ragion d’essere nel fatto che fa diventare razionale l’irrazionale. Infatti, quando qualcuno entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato, e così diventa razionale in quanto malato".

Psichiatria Democratica in quegli anni dovette andare oltre la chiusura dei manicomi, ed affrontare quel disagio sociale attraverso il quale miseria, indigenza, tossicodipendenza, emarginazione, delinquenza venivano trasformate in follia. Diceva: "La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente tanto quanto lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere." 7.

Nel 1979 Basaglia lasciò la direzione di Trieste, e si trasferì a Roma per assumere l’incarico di coordinatore dei servizi psichiatrici della Regione Lazio. La situazione psichiatrica romana era allora rappresentata da un manicomio enorme e da innumerevoli case di cura private, con una forte resistenza al cambiamento. In seguito, infatti, nella capitale suscitò scandalo il fatto che solo tre ospedali si resero disponibili per ospitare i nuovi "Servizi", per un totale di soli 45 posti letto.

Nella primavera del 1980 si manifestarono i primi sintomi di un tumore al cervello, che in pochi mesi lo portò alla morte, avvenuta il 29 agosto 1980. In una conversazione tenuta pochi mesi prima con T.Lainé, che si batteva per il protagonismo dei pazienti, disse: "…in Italia c’è una diffusione periferica del potere .. che favorisce una maturazione democratica leale dei problemi. Quando spiego che un malato mentale non è solo schizofrenico o alcolista, ma è anche una persona umana che ha gli stessi bisogni delle persone normali, si favorisce la presa di coscienza del problema. Quando la popolazione fa l’esperienza concreta di riconoscere che il folle ha bisogno di amore, denaro e casa come me, allora vede in lui un suo simile, e ciò è un punto di partenza per l’evoluzione della maturazione della coscienza sociale e della democrazia"8.

La legge 180, ottenuta grazie al suo instancabile lavoro di tutta una vita, sempre più spesso viene attaccata dalle correnti psichiatriche più reazionarie, soprattutto dalla corrente organicista. Tuttavia lo stesso Basaglia non era pienamente soddisfatto di essa, soprattutto riguardo sia al T.S.O., che andava di nuovo verso la medicalizzazione del comportamento deviante, e sia al superamento dell’O.P., dal momento che non erano previsti dei termini precisi per la chiusura, né lo stanziamento di fondi per attuare necessari programmi di deistituzionalizzazione.

Altre critiche, provenienti dalle associazioni di utenti e sopravvissuti della psichiatria, riguardano i compromessi, o le concessioni, già citati, che allora rappresentavano dei capolavori politici ma che ora gravano come macigni sulle spalle di molti. Di fatto egli diceva ai colleghi psichiatri: "basta che usiate la terapia della liberazione e siete con me". Quindi indicò implicitamente nella psichiatria l’unica professione competente per la cura, con il compromesso dell’aggiornamento dei metodi. Un’idea in netto contrasto con la sua prassi, visto che nei suoi ospedali non era la medicina su cui poneva l’accento, ma il dialogo, la liberazione, i diritti, le assemblee.

Quindi, non ci sono più muri da abbattere, né cancelli da aprire. La terapia basagliana della liberazione non è più attuabile. Non essendoci più un luogo di soggiorno obbligato, le assemblee non sono più state fatte.

Il sistema dei Distretti di Salute Mentale obbliga di fatto lo psichiatra a fare un processo inverso, non più di liberazione dal sistema psichiatrico ma di richiamo e di controllo sul territorio, con una forte tendenza all’imposizione del trattamento farmacologico. A volte sotto minaccia del TSO.

I diritti sono ancora calpestati o aggirati; per esempio non c’è la libertà di scegliere l’équipe di cura, se statale, dato che non si può cambiare D.S.M.. Il farmaco è ancora il mezzo principe necessario in quasi tutti i casi, anche presso gli psichiatri democratici contemporanei. D’altra parte anche gli stessi familiari richiedono cure quanto più possibile. E’ qui che pesa la mancata presa di posizione circa la fondatezza del paradigma medico in psichiatria, per cui ancora molti basagliani, dichiarandosi essenzialmente medici, devono curare medicalmente come gli altri psichiatri. Per gli psichiatri c’è anche il rischio che un paziente, poco attutito o sedato, faccia una minima mossa pericolosa che rechi danno "a sé o agli altri", rischio che può provocare denunce e ostacoli nell’esercizio della professione.

Sono ancora minimizzati i danni a lungo termine degli psicofarmaci, l’assuefazione, i rischi per il corpo e per la mente. E’ ancora minimizzato, nella pratica quotidiana, il potere terapeutico di un contatto umano, dell’interesse per i problemi di vita (e non medici) del paziente. Scrive G.Gamna: "Il prendersi cura con amore di una persona e la possibilità di esprimere la sua creatività può guarire; amore e creatività sono le molle che spingono l’essere umano a dispiegarsi, a crescere, a esprimersi"9.

Il connubio tra il buon nome della psichiatria, le ampie distorsioni e l’ inquinamento dell’industria farmaceutica, sommato alla maggioranza di psichiatri non basagliani, rende attualmente gli utenti dei Servizi di Salute Mentale italiani in una posizione di svantaggio, con basse probabilità di ritrovare se stessi come persone valide e inserite nella società. Ancora, in Italia, non esiste nessuna associazione utenti/ex-utenti/sopravvissuti. Ancora, i media (televisione, giornali, pubblicazioni) forniscono un’immagine della psichiatria e della malattia mentale alquanto stereotipata quanto arretrata, trattando la prima alla stregua di una scienza inattaccabile e la seconda come una malattia medica, classificabile in base ai sintomi e curabile con appositi farmaci.

Da un punto di vista legislativo, molti hanno trovato molti modi per aggirare la "legge 180", svuotandola di significato e di azione. Non sono stati fatti passi in avanti nella direzione indicata da Basaglia: Servizi di Salute Mentale sul territorio, residenze comunitarie, gruppi di convivenza, e solo in pochi luoghi attori motivati hanno dato vita a cooperative sociali efficienti. Queste mancanze non sono tuttavia da additare alla legge in sé, ma al disimpegno e alla sciatteria di certi operatori, e soprattutto alla mancanza di fondi. Se infatti l’O.M.S. ci informa che un giovane su cinque in Occidente soffre di disturbi mentali, il nostro Ministero della Sanità destina alle cure psichiatriche solo il 5 per cento delle risorse. Se con questa legge il nostro Paese si è lavato la coscienza di una ignobile vergogna sociale, la funzione di emarginazione dei malati mentali è ancora ben svolta dalle cliniche e case di cura private10. Gli abusi ancora si perpetrano ai danni dei pazienti.

La terapia della liberazione, l’attenzione ai problemi di vita, roccaforti basigliane, vacillano sempre più. Quella che sembrava e doveva essere una rivoluzione, al giorno d’oggi ci appare come un’utopia. La chiusura dei manicomi è stato il mezzo attraverso cui la società ha potuto fare i conti con le figure del disagio che da sempre la attraversano quali la miseria, l’indigenza, la tossicodipendenza, l’emarginazione e la delinquenza. Ma forse la difesa dei diversi, dei pazzi, dei più deboli, un’atmosfera diffusa negli anni Settanta, non è più un ideale della nostra cultura, che si sta invece dimostrando sempre più sensibile ai rapporti di forza che ai rapporti di sostegno. Forse si sta perdendo fiducia nel carattere terapeutico che la comunicazione e la relazione sociale possiedono come tratto specifico.

3. Psichiatria Democratica

 

Nell'ottobre del 1973 si costituì, a Bologna, un primo nucleo di lavoro che assunse il nome di "Psichiatria Democratica", in risposta alla crisi del paradigma manicomiale dell’internamento che la psichiatria istituzionale aveva fornito per affrontare il tema della malattia mentale. Il gruppo era costituito da Franco Basaglia, Vieri Marzi, Michele Risso, Piera Piatti, Franca Ongaro, Nico Casagrande, Agostino Pirella, Lucio Schittar, Tullio Fragiacomo, Franco Di Cecco, Gianfranco Minguzzi e Antonio Slavich. Il nome stava ad indicare nelle intenzioni del gruppo una svolta nella distribuzione dei poteri in gioco nella salute mentale ed insieme l’esigenza insopprimibile di trasparenza, comunicazione, simmetria nell’informazione tra chi cura e chi è curato, tra chi detiene poteri tecnici e chi è solo l’utente passivo di questi che storicamente si sono dimostrati assai minacciosi, e producendo sofferenza e nocività anziché salute11. Questo movimento si collegava al movimento antipsichiatrico per l’attenzione alle tematiche dell’antiautoritarismo, del rifiuto del mito della scienza neutrale, della denuncia delle istituzioni repressive, ponendo come fondamentale il punto di vista del paziente. Esso si fonda su un’esperienza collettiva che parte dall’analisi dei livelli di potere in gioco e della loro distribuzione nel campo sociale. Si riconosce nelle finalità del documento programmatico che dichiara:

"Compito dell’operatore psichiatrico è riportare alla propria specificità un’istituzione e un rapporto che - sotto l’alibi di codificazioni scientifiche diverse - prevedono, invece, solo la genericità del controllo. Questo compito si attua attraverso la riappropriazione della funzione terapeutica specifica di organismi sanitari che non hanno mai svolto un ruolo terapeutico nei confronti della malattia mentale; e, al tempo stesso, attraverso una ‘depsichiatrizzazione’ di questi servizi, rendendo esplicito il processo repressivo e discriminante che essi attuano e che con la malattia non ha niente a che fare".

In esso si delineano i compiti e gli obiettivi degli operatori:

  • Individuazione e lotta contro il proprio ruolo nei confronti dell’utente del Servizio

Individuazione degli strumenti terapeutici impliciti nel loro ruolo specifico,una volta liberato della strumentazione che il sistema sociale attua attraverso la delega del controllo e del potere

Individuazione nella persona di bisogni sociali non soddisfatti,che l’internamento cancella, occultandosi sotto la diagnosi di malattia

Individuazione e riconoscimento delle persone e delle forze sociali coinvolte e da coinvolgere in questa lotta

Come si può notare, sin dalla sua costituzione PD ha posto al centro dei suoi programmi temi che ancora oggi interessano gli operatori del settore oltre che vaste aree del sapere e della cosiddetta società civile, nella lotta all’esclusione ed alla perpetuazione di meccanismi istituzionali separati e separanti anche nelle strutture psichiatriche extramanicomiali.

La legge 180 era ancora lontana, ma le pratiche di smascheramento dell’imbroglio psichiatrico istituzionale erano ormai consolidate nelle cosiddette esperienze avanzate; infatti in quegli anni si registra sul territorio italiano una vasta gamma di iniziative psichiatriche in vari settori, quasi sempre separate l’una dall’altra.

Già nel brano sopracitato si trovano i due poli tra i quali oscillerà tutta la pratica del movimento antistituzionale italiano: la valorizzazione dello specifico terapeutico, nel senso del "prendersi cura", e l’uscita dal "sistema psichiatria" ritenuto repressivo e inadeguato, se usato da solo, a rispondere alla complessità della sofferenza psichica. Iniziò a considerare idee quali migliori condizioni di vita, difesa della salute, gestione sociale della medicina, crisi dei ruoli, ponendoli non solo più come obiettivi terapeutici ma anche politici. Sin dal suo nascere PD rifiutò con fermezza ogni forma di contenzione, meccanica e farmacologica, e l’elettroshock.

La legge del 1978 che sancì la chiusura dei manicomi rappresentò quindi solo un momento di un percorso che era già iniziato negli anni ’60, di cui l’esempio paradigmatico è l’esperienza di Gorizia con Basaglia, e che davanti aveva (ed ha tuttora) ancora molto da percorrere. Essa ebbe il merito di fornire un quadro di riferimento, degli stimoli, rispetto al cambiamento in atto; rappresentava un riconoscimento alle dure lotte contro l’ospedale psichiatrico, e al faticoso lavoro per la costruzione di nuovi servizi in cui gli psichiatri che avevano aderito a PD erano impegnati. La classe politica accompagnò e sostenne in quegli anni gli sforzi del movimento, incentrati nell’empowering ecologico dei rapporti tra istituzione e utenza, tra i malati e il loro contesto, e nel fornire risposte down-top al disagio: da ciò scaturisce la dimensione politica che lo caratterizzò.

I "nuovi" psichiatri volevano aggiungere nuovi servizi qualitativamente alternativi, che avessero come obiettivo primario la ricostruzione della persona e della sua identità sociale, insieme al recupero dei suoi diritti giuridici. Inizia così un periodo difficile, per il superamento dei manicomi e nello stesso tempo per la necessità di creare nuove istituzioni.

Infatti il movimento antistituzionale rappresenta il tentativo di trasformare e aprire gli ospedali psichiatrici con lo scopo di sostituirli attraverso un processo di aggiustamento alle attuali esigenze del sistema sociale, e soprattutto in questo si differenzia dal pensiero antipsichiatrico e non-psichiatrico, che da sempre hanno mostrato un certo scetticismo per quanto riguarda la gestione del disagio psichico all’interno di un contesto istituzionale.

Lo stesso Basaglia, tuttavia, non era soddisfatto della legge 180, e aveva piena consapevolezza che non era con una legge che si potevano cambiare le cose, ma solo con un diverso modo di lavorare.

Gli anni ’80 vedono affermarsi l’impegno per la costruzione dei nuovi servizi di salute mentale sul territorio, nel tentativo di non creare meri ambulatori psichiatrici, dispensari di medicine, bensì luoghi d’incontro, in cui l’enfasi è posta sulla normalità e sulla valorizzazione delle risorse.

PD in prima linea si occupa di rendere più vivibili i quartieri più degradati, entra in carcere per curare i detenuti ed evitare i ricoveri negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ed i T.S.O., mette in atto forme di reale partecipazione della gente comune per programmare e gestire attività di riabilitazione e risocializzazione, favorisce la costituzione di cooperative di lavoro. In questi anni si riescono a scorgere i primi risultati positivi di quest’opera: i familiari non richiedono più ricoveri, ma servizi aperti 24 ore, inserimenti lavorativi, centri accoglienti. La pratica reale, centrata sul riconoscimento di persone titolari di diritti, muta radicalmente la domanda. L’enfasi sui diritti ha sempre caratterizzato la presenza di PD nel sociale.

La "presa in carico", negli anni ’90, diventa la principale metodologia per attivare collegamenti al di fuori del servizio psichiatrico, per intessere reti di supporto nel sociale allargato. Il lavoro di rete ha permesso di individuare nuovi ambiti di intervento: il sistema sanitario, per sensibilizzarlo a rispettare i diritti del malato e per incrementare nei suoi confronti i livelli di tolleranza; l’ambiente; le scuole; le fabbriche. Una nuova frontiera è rappresentata oggi dalla lotta per la chiusura dei "Centri di permanenza temporanea", veri e propri lager moderni, in cui i rinchiusi, migranti, non hanno commesso reati né sono considerati malati mentali, ma subiscono una condizione di segregazione e di privazione di diritti, in cui si assommano le caratteristiche dei manicomi e delle carceri, per il fatto di essere ritenuti "persone illegali", cioè sprovviste di appositi documenti.

E’ proprio in questo ambito, cioè nel lavoro di rete, che si è aperta la possibilità della partecipazione di nuovi soggetti quali familiari, utenti, ex pazienti o persone marginali che hanno contribuito a dare senso al disagio come espressione di bisogni e desideri di persone in carne ed ossa, con l’obiettivo più generale di lottare l’esclusione sociale. PD svolge quindi una funzione di interfaccia tra il servizio di salute mentale e la comunità, intesa come l’insieme reticolare di persone portatrici di diversi bisogni.

Nel 1994, dopo una serie di proposte di revisione della legge 180, non accolte, viene approvato il primo Progetto Obiettivo "Tutela Salute Mentale", che istituisce il Dipartimento di Salute Mentale, definendone strutture, funzioni ed attività.

Il progetto di PD si concretizza in azioni dirette all’emancipazione delle persone, all’esercizio della libertà, ma è sempre vivo lo sforzo di non perdersi nel pragmatismo. Essa vuole trasmettere una cultura ben precisa, nuova, centrata sul contenuto delle esperienze, ben agganciata alla realtà precedente sulla quale poter inserire un discorso riferito alla pratica già esistente. Basaglia intravedeva il pericolo che tutta la volontà di produrre cultura, tipica degli anni ’70, finisse per produrre solo un aumento di ideologia: "non credo si faccia cultura scrivendo libri, si fa cultura solo nel momento in cui si cambia la realtà". Quindi, un obiettivo di questi ultimi anni, ribadito da Canosa al Congresso Nazionale di PD del 2000, è quello di rilanciare il ruolo "politico" di PD per mettere in campo azioni trasformatrici radicali delle istituzioni, dei servizi, delle relazioni cosiddette terapeutiche, dei rapporti di produzione, ecc., per contrastare la rassegnazione di molti di fronte all’omologazione della politica e delle culture, nella consapevolezza che il benessere non è qualcosa che riguarda solo tecnici e specialisti, ma è anche il risultato della capacità della comunità di tollerare, sostenere, fare emancipare le persone in difficoltà.

PD si è formata dentro e contro il manicomio, tra conflitto e mediazione, occupando gli interstizi delle istituzioni per romperne le logiche cristallizzanti o fungendo da collante nelle situazioni di contrasto. Oggi si propone di lottare per la dissoluzione della psichiatria, intesa come apparato di strutture specifiche e tecnici specializzati. Case – famiglia, strutture residenziali, centri diurni, CSM, ecc., che sono state essenziali come supporto allo smantellamento dell’istituzione manicomiale, devono essere il nuovo oggetto della politica di deistituzionalizzazione, in nome della difesa della diversità. Bisogna interrogarsi su come superare la situazione attuale, e cercare soluzioni innovative; per esempio considerare la possibilità di affidare centri diurni alla gestione diretta degli utenti, o che siano utenti e familiari a portare avanti una struttura residenziali, ecc. E proprio l’attenzione e il sostegno a tutte queste esperienze, consolidate o puntiformi che siano, differenzia questo movimento dagli ordini professionali, molto più impegnati a rafforzare il loro ruolo politico–culturale nella collettività in strutture e attività che ancora si rivelano essere strumenti di controllo e repressione.

Gli strumenti critici di PD hanno conservato un’attualità e una coerenza interna tali da poter essere utilizzati tuttora nella risoluzione di questioni ancora aperte. Essi sono riassumibili, come sostenuto nel Manifesto per la Salute Mentale del 2000, in:

  • Soggettività: in contrasto con il concetto di "norma" che vuole la naturalizzazione arbitraria di un modello sociale (con conseguente negazione giuridica dei diritti di chi non si adatta a tale modello), P.D. ha spostato l’attenzione pubblica dalla pericolosità sociale alla soggettività della persona.

Etica: senza occultare ma anzi combattendo la funzione normalizzatrice della psichiatria, P.D. vuole rendere il rapporto terapeutico aperto allo scambio, al confronto, nel rifiuto dell’esercizio del potere, mirando alla liberazione dalla repressione e dal dominio.

Politica: P.D. vuole intraprendere insieme ai pazienti, alle famiglie, alla comunità, reali percorsi riformistici, di emancipazione e autodeterminazione, di lotta contro la stigmatizzazione e l’esclusione, di riconoscimento e tutela dei diritti delle persone, criticando e opponendosi ai vari tentativi di neoistituzionalizzazione (per esempio, la proposta di legge Burani-Procaccini).

Quotidianamente si è a contatto con storie di violenza, miseria e solitudine all’interno delle nostre città opulente, i cui poteri tendono a relegare nei ghetti le persone più svantaggiate, rinchiudendole nei nuovi manicomi: cliniche, comunità, pensionati, residenze assistite. Ancora la diversità è tenuta lontana e separata dalla "gente comune", ma non bisogna mai abituarsi a questo: gli utenti della psichiatria sono diversi non perché strani o pericolosi, ma perché deboli, perché non interessano a nessuno.

4. Altri protagonisti

4.1 Giorgio Antonucci

 

G.Antonucci individua nel panorama psichiatrico italiano moderno tre correnti alternative al pensiero tradizionale: il movimento chiamato antistituzionale, iniziato a Gorizia da Basaglia, che rappresenta il tentativo di trasformare e aprire gli Ospedali Psichiatrici con lo scopo di eliminarli totalmente; quello antipsichiatrico, in larga misura collegato con l’antipsichiatria inglese, che vuole interpretare le concezioni psichiatriche in modo diverso; e un terzo, rappresentato dal pensiero non-psichiatrico, che considera la psichiatria un’ideologia priva di contenuto scientifico, una non conoscenza, il cui scopo è eliminare le persone invece di provare a capire le difficoltà della vita sia individuale che sociale, per poi difendere gli individui stessi, cambiare la società e costruire una cultura veramente nuova. Secondo quest’ultimo punto di vista, in cui Antonucci si identifica, coloro che sono le vittime della violenza sociale, e in particolare di quella psichiatrica, devono tornare ad essere persone libere di scegliersi la propria vita13.

Antonucci concorda con Szasz nel considerare l’antipsichiatria valida solo per la critica che ha saputo attuare contro la psichiatria classica e le sue prassi violente, nella sua denuncia dei fattori sociali coinvolti nell’insorgere della malattia mentale e rilevanti per il loro decorso, mentre in altri aspetti cade nei suoi stessi errori, in quanto afferma che la schizofrenia non esiste ma che loro sanno curarla. Infatti, come si è visto, il movimento antipsichiatrico era stato abbandonato dai suoi stessi padri, in quanto col tempo si era venuto ad identificare con un metodo terapeutico alternativo a quello tradizionale, arrivando a eccessi e all’ideologizzazione della malattia mentale, senza negare il ruolo professionale dello psichiatra. Per esempio, non è accettabile il concetto molto vago di violenza come trauma all’origine di disturbi psichici, che, nel caso della famiglia, può indicare non solo violenze vere e proprie, ma anche solo l’educazione impartita da genitori che svolgono la loro funzione. La famiglia in sé diventa, in questa prospettiva, un’ "istituzione della violenza".

Tuttavia, questa suddivisione rigida dei campi risulta piuttosto inaccettabile, in quanto le posizioni degli antipsichiatri non sono mai state omogenee, e anzi con gli anni sono andate radicalizzandosi, cosicché anche Laing e Cooper approdarono a quella negazione estrema che Antonucci definisce non-psichiatria.

La distinzione acquista però un senso in riferimento allo scontro politico avvenuto tra lui e Giovanni Jervis, agli inizi degli anni ’70, che in un certo modo rifletteva quello tra il movimento extraparlamentare ed il P.C.I.: Jervis ragionava in termini di psichiatria e ordine pubblico, distinguendo i casi più pericolosi, da internare, da quelli da assistere a casa. Antonucci ragionava invece nei termini di conflitto tra individuo e società, e di diritto dell’individuo ad essere rispettato nella sua libertà nel contesto di una società più aperta e tollerante.

Jervis, nel suo "Manuale critico di Psichiatria" del 1975, esprime un punto di vista critico, di stampo marxista, nei confronti della società e della psichiatria, di cui però non ne supera l’ideologia scientifica né il ruolo dell’intellettuale professionista. Nello stesso libro, vi si trova anche una polemica nei confronti di posizioni tipiche di operatori come Antonucci: "[..]Se per antipsichiatria s’intende un’azione organizzata per abolire non solo i manicomi ma anche tutte le terapie psichiatriche mistificanti, integranti ed oppressive, occorre dire che un’azione del genere (sul cui realismo ci sarebbe da discutere), non può comunque essere condotta da chi è operatore psichiatrico.[..]quell’operatore tecnico che -così egli dice- nega il proprio ruolo".

Antonucci, già collaboratore di Basaglia, aprì tutti i reparti in cui lavorava come direttore, ma in seguito trovò impossibile continuare a lavorare come psichiatra in luoghi chiusi e coercitivi, proprio per il suo rispetto profondo verso ogni altro.

"Il mio pensiero ed il mio lavoro non hanno origine da convinzioni teoriche elaborate a tavolino, ma sono il risultato di anni di esperienza con uomini e donne in un modo o nell’altro implicati in trattamenti psichiatrici"14; egli visse per 23 anni all’interno del manicomio Osservanza di Imola, dove si raccoglievano tutti i ricoveri della Romagna, ben 14.000 persone.

Egli critica duramente e rifiuta la terapia farmacologia come soluzione ai problemi di vita, non medici, delle persone, e da sempre si rifiutò di accettare i ricoveri coatti e i TSO, in cui riconosce una violenza fisica, ovvero prendere una persona e portarla via dalla propria vita, e una violenza ideologica, ovvero il classificare una persona come se non fosse uguale agli altri.

Si fece conoscere nei primi anni ’70 con il "il gruppo della montagna", composto da più di cinquecento persone, che fece entrare al S.Lazzaro, per dimostrare che i ricoverati si trovavano in ospedale psichiatrico per ragioni estranee ai loro problemi e alle loro esigenze reali: ciò che li aveva condotti lì erano il potere e le idee degli psichiatri. Gli effetti positivi di tale esperienza non mancarono, e si riscontrò una diminuzione dei ricoveri, oltre il fatto che molti, anche tra gli operatori, smisero di usare il gergo psichiatrico e, soprattutto, di pensare in termini di psichiatria. La psichiatria, infatti, dal suo punto di vista, non guarda all’individuo ma al controllo, e instaura rapporti di potere con l’altro; e le strutture di potere, come già sosteneva Macchiavelli, non sono fatte per il bene dei sudditi, ma per mantenere questo potere e proseguirlo. Secondo lui, la via d’uscita dove riporre le speranze per un cambiamento dello stato attuale delle cose, sta nel fatto di considerare la società non come un sistema determinato, bensì un mare con tante onde che può generare un’infinità di cose nel futuro.

Antonucci non si stanca mai di denunciare la situazione attuale degli ex manicomi, che sono tanti, con condizioni identiche a quelle di una volta, situazione riscontrata anche da Cestari del Comitato dei Cittadini dei Diritti dell’Uomo, che ha fatto un giro di recente nelle cliniche italiane: esse sono chiuse, sono con camicia di forza, a volte si fanno ancora elettroshock, si usano psicofarmaci sino al decadimento fisico, le persone non sono ascoltate, né rispettate, senza gabinetti né altre cose che servono a un essere umano.

Per lui il giudizio psichiatrico è un giudizio che non ha niente a che vedere con la psicologia della persona; è piuttosto un giudizio sul rapporto che ha la persona con le convenzioni sociali, quindi la diagnosi si dà quando c’è un problema sociale. Allora non è il disagio che interessa, ma è il fatto di fare qualcosa che non rientra nei costumi. In un intervista radiofonica del 200112, egli prende ad esempio il caso di Antonin Artaud, che "[..] non aveva nessun disagio, era un poeta con la sua ricchezza d’immaginazione, però il disagio lo avevano gli altri, perché lui era un tipo originale e lo psichiatra lo ha preso e gli ha fatto l’elettroshock. Questi, avrà avuto tanti disagi anche lui, ma non era entrato in conflitto con le convenzioni sociali".

"Non ci sono né la saggezza né la pazzia, ma soltanto scelte motivate da diversi punti di vista e da differenti concezioni": questa è la tesi principale di Antonucci, con la quale egli attacca il sistema penale e quello psichiatrico, spesso uniti nel segregare l’individuo.

Nel suo ultimo libro, Le lezioni della mia vita, del 1999, egli avanza due proposte come alternative possibili e auspicabili all’attuale Servizio di Salute Mentale. Le alternative, storicamente, sono due: una è un servizio come si faceva in montagna e anche in certi quartieri della città, a Reggio Emilia: si andava sul posto e si cercava di risolvere i problemi anche con provvedimenti pragmatici, senza dover prendere la persona, classificarla e strapparla dal suo ambiente. Questa alternativa è esistita per tre anni e ha avuto un suo significato, e i ricoveri erano diminuiti.

L’altra alternativa non è il Centro di Diagnosi e Cura come quello attuale, ma una struttura simile a un reparto Centro di relazioni umane. Un luogo per chi ha un problema e non ce la fa in famiglia, non per prendere medicine, ma per parlare, discutere e provare a risolvere il problema.

4.2 Giuseppe Bucalo

 

Altro autore di spicco nel panorama "antipsichiatrico" italiano è Bucalo, che, sulla scia di D.Cooper, alterna ad impegni di denuncia e lotta contro gli abusi psichiatrici, momenti di analisi e studio, tra cui il recente "Sentire le voci", che affronta un tema del tutto trascurato dalla pubblicistica italiana. La sua posizione di assoluta negazione nei confronti della pseudoscienza psichiatrica ha il merito di sfiorare quasi l’indifferenza. La sua esperienza è legata al contesto territoriale arcaico e rurale di Furci, un paesino siciliano in provincia di Messina. Nel libro "Dietro ogni scemo c’è un villaggio", del 1993, narra dei casi in cui si è evitato il ricorso alle istituzioni, grazie ad una diffusa educazione alla tolleranza e alla comprensione, nonché alla messa il gioco di una rete interrelazionale di appoggio per i soggetti deboli, che hanno portato alla gestione non autoritaria della cosiddetta devianza.

Tuttavia tale modello comunitario difficilmente si adatta alla realtà delle metropoli e delle province urbanizzate, considerata ad alta potenzialità schizogena, che rappresentano proprio le aree più deterritorializzate.

Egli afferma che la malattia mentale non esiste, intendendo dire che alla base dei nostri comportamenti, delle nostre relazioni e delle nostre esperienze vi è sempre la nostra sensibilità, la nostra storia, le nostre scelte, e non un processo patologico o un’alterazione delle nostre funzioni a noi estranei. La sua negazione è rivolta alla malattia mentale, non alla sofferenza psichica, perché anche l’amore, ad esempio, provoca sofferenza, ma non è una malattia. E che un estraneo decida se e quanto stiamo soffrendo è inaccettabile; affermare che alcuni pensieri e comportamenti siano espressione di un corretto funzionamento cerebrale e che altri denotino una patologia è puro e cieco arbitrio, quindi è un giudizio, che può essere morale, etico, religioso, politico, ma non medico. Per esempio si dice matto a chi si arrampica su un palo per meglio comunicare con Dio, ma non si sono mai considerati malati quelli della Santa Inquisizione né gli psichiatri che hanno sezionato cervelli e praticato torture su loro simili, imprigionati in base a ipotesi; sono pericolosi quelli che sentono le voci, ma certo S.Teresa d’Avila non venne mai considerata tale, e sicuramente non soffriva nell’udirle, né vengono considerati pericolosi i medici che hanno distrutto centinaia di migliaia di vite umane, bensì i loro utenti, che invece erano e sono rinchiusi, controllati, sedati, resi incapaci di agire e scegliere.

Bucalo dice: "la scelta non è tra psichiatria e antipsichiatria, tra terapie dolci e terapie da shock, tra psicofarmaci e psicoterapia: la scelta è tra il negare e l’accettare che questo è solo uno dei mondi possibili, che il nostro è solo uno dei modi possibili di vivere, di sentire, di vedere."

Bucalo rifiuta ogni forma di psichiatria, anche quella recente e alternativa, che, dice, sembra aver scoperto che la libertà, il lavoro creativo, la casa propria, abbiano effetti terapeutici: sembra dire che la quotidianità, la vita curano. Non vede comunque emancipazione nel passaggio dal manicomio al circuito psichiatrico alternativo, costituito da una vita protetta, una fotocopia di vita, che imprigiona i suoi utenti in un mondo parallelo che riproduce quello reale, il mondo del "come se"17. Non più una linea netta di demarcazione tra sanità e follia che era costituita dalle mura del manicomio, ma una linea incerta, diffusa, che passa fra e dentro di noi: una linea di cui ci si accorge solo dopo averla attraversata.

PARTE SECONDA

 

2. Il Regio Manicomio di Torino

2.1 La fondazione

Il Regio Manicomio, con sede a Torino, in via Figlie dei Militari, ora via S.Domenico, era stato fondato nel 1728 da Vittorio Amedeo II. Egli ne aveva affidato la direzione alla Confraternita del S.S. Sudario e Vergine S.S., con l’ordine agli altri ospedali e a chiunque tenesse in casa o in pensione un malato mentale di rimetterlo alla Confraternita, previa dichiarazione di un medico. Al medico veniva così conferito un doppio ruolo di tutela, sia verso il malato e sia verso lo Stato: un ambiguo mandato certamente non scevro di preoccupanti implicazioni.

Un primo accenno tecnico si avverte nella distinzione tra alienati fatui (innocui, indifferenti) e  furiosi, e si invitano i parenti dei fatui a riprenderseli, poiché occupano il posto necessario per i furiosi ed i vagabondi, in eccesso rispetto ai posti disponibili. Per la prima volta si parla di un'assistenza medica, poiché l'esecuzione di questa decisione era demandata al “signor Medico dello Spedale”.

La prima statistica, relativa al decennio 1791/1800, rivela 921 ricoveri e ben 403 decessi. Nel 1818, dati i sempre più gravi problemi di affollamento e di vitto da parte di un ospedale senza fondi e senza redditi, Vittorio Emanuele I emanò un editto con cui stabiliva che le Province di provenienza dei mentecatti poveri avrebbero dovuto pagare all'Ospedale le spese di mantenimento, fissate in Lire 150 annue per ciascun ricoverato.

In considerazione dell'eccessivo affollamento, della necessità di suddividere i malati a seconda del sesso e del tipo di malattia, e dell’antico problema della collocazione di un manicomio tra abitazioni civili, viste le numerose lamentele degli abitanti di zona, l'Amministrazione decise la costruzione di un nuovo grande ospedale.

A metà degli anni ’20 del secolo XIX era agli inizi il metodo di compilazione della storia clinica: l'Amministrazione dell'Ospedale stabiliva che: “insieme ai documenti generici per l'ammissione, sia anche una relazione del medico e chirurgo che  curò e visitò e riconobbe il ricoverando in stato di mania furiosa; la quale indichi il principio, il progresso e stato della malattia e dell'individuo; la probabile causa della malattia stessa, i rimedi dati e i loro effetti, il sentimento di chi ne ebbe la cura e il modo che crede poterlo guarire”.  La Direzione sottopose all'approvazione del Re il progetto Talucchi, di cui già correva voce sotto il Governo di Francia, per cui l'Ospedale si sarebbe trasferito negli edifici della Certosa di Collegno. Intanto,  la Città di Torino aveva concesso un largo quadrilatero di circa 6 giornate di terreno, a nord-ovest della città, già occupato dalle fortificazioni, delimitato da via della Consolata, da via San Massimo (ora Corso Regina Margherita), da via Valdocco e da via Giulio. 

Finora i medici in carica erano stati tre, tutti con servizio esterno; l'Amministrazione decise di avere un medico interno, stabile: venne indetto un concorso, procedimento nuovissimo, e venne nominato il dottor Benedetto Trompeo. Questi rappresentò l’uomo di “rottura” nella psichiatria istituzionale torinese. Attuò nella pratica il concetto del lavoro come cura dei malati (ergoterapia), decidendo di utilizzare i ricoverati nella costruzione del nuovo ospedale di via Giulio. Si affermò sempre più la gestione diretta dei servizi: già esistevano il forno pane, la sartoria, la calzoleria e la materasseria all'interno, cui erano adibiti anche i ricoverati. Nell'Istituto erano ricoverate più di 300 persone. Il dottor Trompeo fece adottare dei mezzi contentivi “dolci”, tendendo alla loro abolizione, combatté l'uso dei salassi nella cura delle alienazioni mentali, elaborò un progetto del prof. Hildebrand dell'Università di Pavia per l'istituzione di una clinica psichiatrica. Trattamenti fisici come docce gelate, salassi, bagni a sorpresa caldi o gelati, ecc., erano reputati da Trompeo pericolosi. Nel 1929 pubblicò un “saggio sul Regio manicomio di Torino con alcuni cenni intorno all’indole ed alla cura delle malattie mentali”. Egli analizzò le conseguenze di tali trattamenti “per subito turbamento che ne può derivare al organismo vivente”. Erano tempi in cui perduravano cure assurde quali quelle descritte da Guislan  e da De Freminville: contenzione su letto orizzontale o verticale con catene; applicazione di corsetti di ferro con o senza rivestimento in cuoio, cinture di haslam, camicie e cinture di forza, poltrona di contenzione o “tranquillizzatore” di rush; macchina rotatoria; isolamento in camera oscura con pareti e soffitto tinti di nero; urticazione ottenuta percuotendo con rami di ortica; applicazione di mignatte o ventose. La maggior parte di questi trattamenti furono in Piemonte vietati solo con il regolamento per l'Amministrazione del Regio Manicomio di Torino nel 1837. I salassi erano considerati una sorta di panacea (Lanza, 1863). Di essi era fatto uso tanto abituale nel manicomio torinese che, secondo C.G. Tallone (1884), era stata suscitata un’inchiesta governativa. La ludo ed ergoterapia (descritta per l'esperienza torinese da A.Marro, 1903), appaiono oggi "esperienze romantiche", se confrontate con le torture indiscriminate dianzi menzionate. Tuttavia il dott.Trompeo venne obbligato a licenziarsi in seguito a disaccordi con l’Amministrazione: da allora fu chiaro quanto poco contassero i medici, a favore dello strapotere della Direzione amministrativa.  

Nel 1830 venne assunto come Medico Assistente il  dottor Bonacossa, che sarà Primario per 32 anni; nello stesso periodo si formò la nuova biblioteca dell'Ospedale con l’acquisto di libri e abbonamenti a numerose riviste, come al prestigioso giornale de la Societé de Phrenologie.

In seguito alla minaccia del colera,  la Città di Torino chiese di utilizzare i locali già costruiti come lazzaretto; anche il Governo chiese di affittare una delle ali dell'edificio per alloggiarvi delle truppe. I lavori vennero quindi completati  sollecitamente, per far occupare metà del fabbricato dagli alienati mentali, lasciando ai militari il vecchio Ospedale.  

Il Re Carlo Alberto visitò il nuovo edificio, accompagnato dal celebre alienista francese Esquirol. Il Re espresse la sua soddisfazione autorizzando la prosecuzione dei lavori, e, il 13 maggio 1834, alla presenza dei due, fu inaugurato il manicomio. Il nuovo istituto fu criticato da Esquirol, direttore della Salpétrière succeduto a Pinel, dove l’interesse principale era per le cause e le cure morali della pazzia, mentre il Regio Manicomio si inseriva nella tradizione organicista della città. 

Due anni dopo nacque il primo Centro Sociale: il dottor Bertolini attuò "una specie di radunanze fra i pensionari mentecatti, onde trattenerli per la cura morale, in cose di letteratura, letture, lavori di agricoltura, e farli travagliare nel giardino". 

  La Direzione del Regio Manicomio di Torino, per la prima volta in Italia, chiese l’istituzione di una cattedra per l'insegnamento della psichiatria. In Inghilterra esisteva già dal 1758, in Germania dal 1800, in Francia dal 1817. La cattedra di Psichiatria di Torino venne affidata al dottor Bonacossa, che la tenne fino alla morte, avvenuta nel 1878. 

  

 

2.2 Il problema del sovraffollamento

 

Nel 1851 si propose la costruzione di un nuovo ospedale, poiché i ricoverati in pochi anni avevano superato il numero di 500, mentre la capacità dei locali era di soli 400. In una relazione si sostenne che il locale più idoneo sembrava essere quello della Certosa di Collegno. L'Amministrazione, esaminate le planimetrie, si dichiarò favorevole all'acquisto; i Certosini, temendo la ventilata soppressione delle corporazioni religiose, offrirono al Governo l'occupazione gratuita temporanea di una parte del loro convento, per sfollare il Manicomio di Torino, la cui situazione stava diventando sempre più pericolosa a causa del sovraffollamento. A causa della clausura vigente nel convento, si decise di trasferirvi i ricoverati maschi e tranquilli. Nel 1853 anche alcune donne vennero traslocate alla Certosa, negli ambienti prima occupati dai ricoverati maschi, trasferiti ora negli edifici del convento. A quell’epoca la popolazione del manicomio era di 310 uomini e 201 donne, di cui, rispettivamente, 159 e 59 a Collegno, per un totale di 511 ricoverati.

L’Amministrazione presto iniziò gli studi “per l’erezione di un manicomio che onori il paese e sia capace e adatto alle esigenze tutte”, affidando al Medico Primario Dott.Bonacossa l’incarico di presentare un programma completo per il trasferimento dell’intero Ospedale a Collegno. Nel 1855 le corporazioni religiose vennero soppresse, così i certosini abbandonarono definitivamente il monastero, che fu occupato dal Regio Manicomio. Bonacossa vi propose la costruzione di nuovi edifici, per arrivare a stabilirvi una capacità di mille malati circa, ritenendo non convenienti manicomi troppo numerosi.

A Collegno venne istituita  la Colonia Agricola , che diventò una vera e propria azienda, divisa in Cascine ed Orti, con coltivazioni ed allevamento di bestiame. Per il "sollievo" dei ricoverati si ricorreva alla musicoterapia, ancor oggi utilizzata; inoltre venne adottata l’istituzione delle storie cliniche per ciascun ricoverato. 

Alcuni anni dopo, sul finire dell’’800, venne costruita la grandiosa lavanderia a vapore, un solo vano enorme dove si lavavano circa 97.000 capi al mese

A Torino, Cesare Lombroso diventava sempre più importante, e si recava  sovente nel Regio Manicomio con i suoi numerosi studenti. Le sue notissime tesi biologiche ebbero il merito di alleggerire alienati e criminali dal peso della colpa e del peccato, prima ritenute le cause della loro condizione, introducendo così il metodo positivista e sperimentale in psichiatria. Tuttavia i suoi studi erano strettamente legati a una visione naturalistica, e tralasciavano completamente le dimensioni sociali e storiche del disagio psichico. La sua teoria divenne una sorta di darwinismo sociale degenerativo: il delinquente e il folle occupavano una posizione arretrata nella scala evolutiva, e la prova consisteva in anomalie del cranio o in certe proporzioni del corpo. Gli studi di Lombroso influenzarono Bianchi, estensore nel governo Giolitti della legge sui manicomi ed alienati, di cui ne sanciva la “pericolosità ed incurabilità”. 

Verso il 1880 venne proposta l'istituzione della "Società di patrocinio per i poveri dimessi dal Manicomio", primo esempio di una comunità di ex ricoverati, che ancora oggi esiste.

Nel 1885 Golgi e Lombroso inaugurarono l'Istituto Neuro-patologico del Manicomio, fondato per incrementare gli studi psichiatrici: l’insanità mentale entrava così definitivamente nella scienza e nella politica sanitaria. Venne resa obbligatoria l'autopsia e l'indagine microscopica e batteriologica nei laboratori anatomo-patologici di Torino e di Collegno. Venne nominato Medico Capo Divisione e Direttore del Laboratorio Clinico il dottor Antonio Marro, già sanitario del Carcere giudiziario e assistente di Lombroso per la medicina legale.

I continui dissensi tra l’Ospedale, cui appartenevano i beni mobili ed immobili, e  la Confraternita del S.S.Sudario, a cui erano affidate la direzione e l’amministrazione, si risolsero nel 1888, quando venne sancita l’assoluta indipendenza di amministrazione fra i due enti, con l’assegnazione alla Confraternita di una retta fissa annuale da parte del manicomio.

2.3 Il Novecento

 

Nel 1904 venne varata una nuova legge sui Manicomi ed alienati. L'onere del mantenimento dei mentecatti poveri viene assegnato alle Province, per cui il Regio Manicomio assume il servizio per conto della Provincia di Torino. In base a questa legge, chiunque ritenesse un individuo pericoloso a sé o agli altri poteva chiederne l'internamento in manicomio. L'autorità giudiziaria aveva il pieno controllo di ammissioni e dimissioni, il Medico Direttore aveva piena autorità all'interno dell’istituzione. Quattro anni dopo venne emanato un regolamento che modificava la legge del 1904: si previdero locali di isolamento per i ricoverati pericolosi, gli infermieri erano considerati responsabili dei ricoverati loro affidati e non potevano usare mezzi di contenzione senza l'autorizzazione del medico. Si istituirono le dimissioni sperimentali e si aiutarono i familiari che assistevano i malati in casa propria. 

Entrò in carica la nuova Amministrazione che elaborò il "Regolamento Organico dell'Opera Pia", che riorganizzava tutto il servizio medico ed amministrativo.

Ancora una volta si ripresentò il problema del sovraffollamento in tutta la sua gravità ed urgenza: il numero dei ricoverati nelle due case, che fino al 1904 si era mantenuto su una media di 1600, aveva superato nel 1911 la cifra di 2500. Sorse così il Ricovero Provinciale, sullo stradale Pianezza, nel 1913, ma, poiché il numero dei ricoverati continuava ad aumentare vertiginosamente, il nuovo Ospedale si rivelò insufficiente, per cui venne acquistato un terreno a Grugliasco. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale costrinse a posticipare la costruzione del nuovo manicomio.

L’affollamento nelle tre Case, intanto, assumeva dimensioni sempre più allarmanti, raggiungendo nell’immediato dopoguerra il numero di 3300 ricoverati, cifra ben superiore a quella della popolazione carceraria.

Sul finire degli anni ’20, i quasi 3500 ricoverati erano così distribuiti:

Ospedale Psichiatrico di Collegno     2109

Ospedale Psichiatrico di Torino          756

Ospizio Provinciale                             574

                                         TOTALE  3439

In questi anni venne ricoverata nel Regio Manicomio anche Ida Salgari, moglie dello scrittore Emilio; altro caso che si rese famoso fu quello dello “Smemorato di Collegno”, «Ricoverato il giorno 10 marzo 1926 nel manicomio di  Torino (casa Collegno). Nulla egli è in condizione di dire sul  proprio nome, sul paese d’origine, sulla professione. Parla  correntemente l’italiano. Si rileva persona colta e distinta  dell’apparente età di anni 45».

Nel 1928 iniziò la costruzione del nuovo ospedale di Grugliasco, da parte delle amministrazioni delle Province di Torino e Aosta, da poco costituite. 

Nel 1929 venne cambiato il nome all’istituzione, sostituendo il termine “Manicomio” con quello di “Ospedale Psichiatrico”, allo scopo di “cancellare la poco favorevole impressione che l'attuale denominazione di Manicomio produce sia nell'ambiente sociale esterno che tra gli stessi ricoverati”. Con l’entrata in vigore del "Codice Rocco" i malati di mente vennero iscritti nei casellari giudiziari, come i delinquenti.   

Dopo trasferimenti parziali, venne occupata totalmente  la Casa di Grugliasco con 151 ricoverate provenienti da Torino e 40 dal Ricovero Provinciale (Savonera):  la Casa di Torino fu completamente ripulita. Nel ‘34 fu aperto il nuovo Ospedale a Collegno per i pensionanti a pagamento, denominato "Ville Regina Margherita".

Nel 1938, con l’avvento del fascismo e la promulgazione delle leggi razziali vennero denunciati e allontanati dal servizio gli operatori sanitari di origine ebraica; molti degenti, invece, a Torino, vennero protetti, sia cambiandone i cognomi sui registri sia trasferendoli altrove. Per l’imminente guerra, il Regio Manicomio offrì materiali metallici alla Patria: Kg 600 di ferro, Kg 900 di ghisa, e 117 grammi d’oro. Si ottenne l'esonero dall'obbligo della rimozione delle cancellate in ferro esistenti nelle varie case. La razione di pane fu ridotta a 350 grammi al giorno per persona, sino ad arrivare a 230 grammi nel ’41. Addirittura si avrà la produzione autarchica di sapone, ottenuto dal grasso raccolto nelle acque di lavaggio dei recipienti di cucina.

L'ospedale di Collegno, che finora era stato risparmiato, subì violenti incendi che distrussero il teatrino, il parlatorio, la biblioteca scientifica, il laboratorio biologico con tutte le apparecchiature e  gli strumenti scientifici. Intanto oltre 1800 ricoverati, con l'aiuto della Fiat e dei Comandi militari che avevano messo a disposizione gli automezzi, vennero rapidamente sfollati in altri ospedali e case di cura di tutto il Piemonte e di altre regioni d'Italia, ritenute più sicure.

Con la fine della Guerra e della Monarchia, cadde l'appellativo "Regio", “circa l'eliminazione di tutte le intestazioni, indicazioni ed insegne comunque riferentisi alla ex-casa regnante ed ai suoi componenti”, e rientrarono gli ammalati sfollati negli ospedali di varie regioni d'Italia. Fu riammesso in servizio il personale a suo tempo allontanato a causa di provvedimenti razziali o politici. Vennero tolte le mine sparse dai tedeschi nel territorio delle Ville Regina Margherita durante l'occupazione di questo ospedale. 

Il numero totale dei ricoverati riprese a crescere, probabilmente a causa dell’alta incidenza delle cosiddette “nevrosi da guerra”: nel 1945 sono 2270 e nel 1949 sono già ben 3113.

Nel ’45 iniziò la ricostruzione delle parti degli Ospedali Psichiatrici di Torino danneggiate dai bombardamenti, che termina nel 1953.

2.4 Gli anni Sessanta

Nel corso degli anni ’60, iniziati con una popolazione di oltre 4500 ricoverati, si venne a modificare profondamente il contesto sociale e politico; il movimento di contestazione criticava duramente l’istituzione manicomiale in cui ogni forma di libertà e ogni diritto venivano negati. La psichiatria ufficiale stessa venne messa in dubbio, con l’emergere alla luce dei crimini perpetuati da sadici dottori ai danni dei loro pazienti. Gli studenti universitari occuparono Collegno, per la prima volta un giornalista vi riuscì ad entrare, e ne scrisse una cronaca drammatica e raccapricciante. Torino è una delle prime città in cui sorse un movimento culturale trasversale antagonista e contestatrice  della psichiatria ufficiale.  Vanno inoltre citati altri fattori, quali le esperienze basagliane, la diffusione degli psicofarmaci, l’ingente gravo economico di questi istituti sulle province, che spinsero a portare fuori dalle mura l’attività degli operatori, con l’attivazione dei Centri di Igiene Mentale, dei Servizi Socio-assistenziali, come previsto dal modello della Psichiatria di Settore che si andava affermando in Piemonte. Quindi, è già nel corso degli anni ’60 che si verificano i primi segnali di cambiamento in ambito psichiatrico, e le nuove esperienze portano a un calo costante dei ricoverati. Già dal 1965, a Torino, si assisteva al processo di superamento delle modalità assistenziali e di ricovero nelle strutture asilari, con le dimissioni e la ricollocazione di molti pazienti, con qualche anno di anticipo sulla legge Mariotti, sulla brutta copia del modello settoriale francese.

3. L’Associazione contro le malattie mentali

Sull’onda dell’esperienza goriziana, alla fine del 1967 si costituì a Torino l’Associazione contro le malattie mentali. La sua prima attività mirò a sensibilizzare l’opinione pubblica con dibattiti, mostre fotografiche, assemblee per discutere e far discutere sui temi politico-sociali connessi al problema psichiatrico. Lo scopo era mostrare alla società “sana” il carattere irrazionale e repressivo delle opinioni, o meglio pregiudizi, diffusi circa il “pazzo”. In conformità con le idee proprie delle lotte del ‘68, antiautoritarie e antistituzionali, vedevano nella reclusione del malato di mente, dell’emarginato, povero e non produttivo, uno dei modi più scoperti in cui la violenza informa la nostra società capitalistica. Privo persino dell’unica difesa che i poveri dispongono, cioè la capacità produttiva, il pazzo era consegnato a una “scienza” psichiatrica che di fatto non si occupa della sua cura, ma della sua custodia, di tipo scopertamente repressivo. Soffocata la sua personalità, ridotto a un oggetto passivo, dipendente e irresponsabile, il malato viene additato dall’opinione pubblica come meritevole della violenza da lui stesso provocata. Intorno a queste idee, e partendo dalla presa di contatto con alcuni parenti dei ricoverati, l’Associazione riuscì a mobilitare un certo numero di persone, stimolando la presa di coscienza del carattere politico della lotta contro l’istituzione psichiatrica.

Fin dalle prime esperienze della messa in pratica della politica di Settore a Torino, l’Associazione si occupò sempre, a livello pratico, non solo di verificare i benefici che gli utenti potevano trarre realmente da un progetto così ambizioso, ma anche di rivendicare il diritto di tutti i cittadini di controllare l’operato delle pubbliche istituzioni che a quella assistenza erano preposte.  

Forte della crescente protesta popolare, le animatissime assemblee, che erano riusciti a tenere all’interno dell’OP, arrivarono a possedere un reale potere contrattuale nei confronti dei gestori dell’assistenza psichiatrica. Le loro lotte per i diritti civili erano fortemente impegnate a evidenziare le mancanze e le contraddizioni in cui l’Amministrazione rischiava di “inciampare”. Per arginare la loro azione, l’Opera Pia ne querelò per diffamazione la segreteria, ma l’inchiesta mise in luce una serie di elementi a favore dell’Associazione. Insieme ai parenti dei degenti, sulla base di precise richieste da parte dei ricoverati, elaborò una “Carta rivendicativa dei diritti dei ricoverati negli OO.PP. di Torino”. Nel maggio del 1969 venne costituta una Commissione di tutela dei diritti dei ricoverati, con la specifica funzione di controllare e tutelare le condizioni di vita e di lavoro dei degenti, e promuovere assemblee di reparto.  La Commissione di Tutela dei diritti dei ricoverati fu l’unico esempio in Italia di controllo democratico di un’istituzione totale. 

In aggiunta a queste considerazioni, vorrei accennare ad un punto di vista non convenzionale, fuori dal coro, con cui sono venuta a contatto nei miei incontri con il Prof. G.Gamna, direttore dell’OP di Collegno negli anni che vanno dal 1968 al 1971. In quell’ epoca la contestazione era diventato un fenomeno di massa, quasi di moda: per il manicomio si aggiravano donne impellicciate e ingioiellate e studenti di ricche famiglie. I loro discorsi per lo più, come si è già visto, si scagliavano contro gli infermieri, che erano invece di bassa estrazione sociale, provenienti dalle valli circostanti, che per sbarcare il lunario facevano il doppio lavoro. Questa polemica riguardo ai tumultuosi anni Settanta mi ricorda la posizione assunta nello stesso perioda da P.Pasolini, personaggio per definizione anticonvenzionale. Egli contestava, infatti, il movimento studentesco, di cui sottolineava l’estrazione borghese dei componenti, e faceva notare che erano i poliziotti i figli del proletariato moderno, le vere vittime del sistema.     

4. La fabbrica della follia

 

Per avere un’idea chiara su cosa fosse l’Ospedale Psichiatrico in epoca recente, ho trovato utile rifarmi al libro, ormai quasi introvabile, purtroppo, La fabbrica della follia. E’ un libro di denuncia ma soprattutto di testimonianza della realtà manicomiale torinese, redatto dalla Commisione di tutela dei diritti dei ricoverati quando ottenne, dopo travagliate trattative con l’Opera Pia, il permesso di visitare i reparti di Collegno.  La Commissione era stata costituita dall’Associazione contro le malattie mentali, ed era composta da 35 membri eterogenei, come psicologi, studenti, operai, giuristi, casalinghe, ecc.; solo chi apparteneva alla pubblica amministrazione ne era escluso. L’attività della Commissione iniziò nell’ottobre del 1969 e durò sei mesi; rappresenta il primo intervento sistematico dall’esterno su un’istituzione chiusa; si proponeva di analizzare e denunciare la pratica psichiatrica ospedaliera, fondata sull’assenza dei diritti dei ricoverati, in risposta ai problemi della gestione e cura del malato mentale. Il semplice fatto che i membri potessero entrare nell’istituzione in qualunque momento per osservare ciò che vi accadeva all’interno, e parlare con gli indigenti, rappresenta un punto di rottura con la funzione occultatrice del manicomio, ora costretto a scoprirsi, e motivo di speranza per i malati, la cui esistenza riceveva riconoscimento anche dal mondo esterno, che poteva garantire loro diritti come uomini e malati, e concedere loro una prospettiva  per un futuro diverso dal ripetersi senza fine del presente.

L’Associazione per la lotta contro le malattie mentali aveva inoltre lo scopo di verificare se le caratteristiche enunciate dalla politica di Settore come fondamentali per il cambiamento fossero state attuate. 

Nonostante  la Commissione avesse ottenuto dei tesserini di riconoscimento dall’Opera Pia, che permettevano l’entrata in manicomio dalle 7 alle 23, le resistenze da parte del personale erano molto forti; gli infermieri per primi dimostrarono molta ostilità, quasi un rifiuto totale verso il dialogo. 

Quando  la Commissione entrò nell’O.P., la popolazione era di circa 1700-1800 persone nelle sole strutture di Collegno, di cui una sessantina erano donne, adibite ai lavori di guardaroba e lavanderia. Le strutture erano costituite da una ventina di reparti, più le “Ville Regina Margherita”, che ospitavano circa 250 pazienti, per lo più a pagamento, con una sezione femminile. 

Circa l’assistenza vera e propria, venne registrata una profonda incoerenza nella conduzione dei vari reparti, in particolare rispetto a iniziative ed attività quali soggiorni esterni e gruppi terapeutici, spesso revocati all’improvviso senza spiegazione alcuna. I medici dichiaravano di voler cambiare metodo e gestione, ma accusavano gli organi amministrativi della mancata realizzazione di iniziative. 

Negli ampi e bellissimi prati non ci sono degenti, che possono solo stare negli squallidi cortili interni quando viene loro permesso di uscire, di solito solo in estate, mentre durante gli altri mesi rimangono ammassati nei sovraffollati reparti.

Le condizioni di vita dei ricoverati riportate tracciano uno scenario degradante e disumano, ben lontano da ciò che si potrebbe attendere da un luogo deputato alla cura, retto dai progressi della scienza psichiatrica moderna e da rispettabili dottori. Parte dei malati è costretta a letto con fettucce di iuta dalle 17 circa sino alle 8 del mattino, quando vengono lavati, spesso da altri ricoverati. Alcuni sono costretti anche di giorno, se non a letto, con una cintura che immobilizza le braccia, o legati per un piede, persino ai termosifoni. La sporcizia è ovunque, dai tavoli per mangiare che sono puliti con le scope dei pavimenti, ai lavandini, usati come latrine di notte quando i servizi sono chiusi. Il numero dei servizi è decisamente sproporzionale rispetto ai ricoverati: per esempio nei reparti dei lavoratori, ci sono tre docce e dieci gabinetti per 230 persone. I ricoverati sono privati di ogni intimità, non possiedono nessun oggetto personale: le divise stesse e la biancheria sono distribuite casualmente dopo i lavaggi; nei reparti non vi sono armadi, né appendiabiti. Lo squallore delle strutture, a parte significare gravi carenze del luogo ospedaliero in sé, va considerato anche come esperienza soggettiva quotidiana che distrugge la personalità e l’individualità dei malati. Contribuisce al loro abbruttimento e degradazione l’inerzia a cui sono costretti: vivono stivati in camerate, senza nessuna occupazione o attività terapeutiche o di svago, né possibilità di coltivare interessi, a parte la presenza di qualche televisore. Il lavoro era l’unica alternativa alla vita di reparto, e anzi ritenuto un grande privilegio. Alcuni erano addetti ai compiti più sgradevoli, come lavare gabinetti o camerate,  pulire altri malati, o svolgere altre mansioni proprie degli infermieri; solo da poco tempo prima che entrasse  la Commissione erano riusciti ad ottenere una retribuzione fissa anche se scarsa, mentre prima ricevevano solo qualche compenso dagli infermieri: sigarette, alcol, poche lire. Esistono anche due reparti lavoratori i cui degenti si dedicano a lavori esterni al reparto, nei vari laboratori di falegnameria, di materassaio, nella falegnameria, nella colonia agricola, ecc.; lavori indispensabili per la sopravvivenza dello stesso istituto, che si rivelano sfruttamento di una mano d’opera a bassissimo costo. Buona parte di essi usa i soldi guadagnati nell’acquisto di alcol, spesso venduto a prezzo maggiorato dagli infermieri stessi, che rappresenta l’unica scelta possibile per passare il tempo. L’ergoterapia, giustificata dai medici in quanto in grado di dare ai malati un senso di disciplina, di attività,  terapeutica in quanto riproducente la vita esterna, si rivela nel suo inganno se si considera che alcuni erano addirittura addetti alla camera mortuaria: come si può sostenere che l’accudire dei morti coi quali si è condiviso una vita senza speranza sia un’attività terapeutica? Inoltre è da rilevare che ai degenti venivano affidati strumenti obiettivamente pericolosi, come quelli agricoli o della falegnameria, se vi era in gioco il profitto dell’Amministrazione, mentre, in nome della presunta “pericolosità”, si negava loro l’uso del coltello e della forchetta a tavola. E’ da aggiungere anche una considerazione sulla giustificazione data dai medici: non è solo il lavoro, ma l’intera vita reale esterna che dovrebbe essere restituita ai ricoverati, e non sotto forma di finzione, di una vita “come se” fosse una vita reale. La possibilità di lavorare, avere una casa, una vita normale con i suoi alti e bassi, con la sua valenza affettiva, sono esigenze radicali che sono state annientate in questi individui, essi stessi annientati nelle mura dalla cura psichiatrica. 

Le “cure” praticate in nome della scienza sono sadiche e punitive; a Collegno era molto praticato l’elettromassaggio, soprattutto su alcolisti, catatonici, omosessuali e persino sui morti per vederne le reazioni. Le contrazioni causate dalle scariche, provocavano la rottura dei denti, in mancanza dell’apposita gomma tra le mandibole, o di spalle, femori, bacini; altri rimanevano con un arto paralizzato, altri si impiccavano per la paura; basti pensare che per tenere fermo il paziente occorrevano tre o quattro infermieri. Il tutto avveniva alla presenza di coloro che attendevano il proprio turno, distesi sui letti contenitivi, che terrorizzati invocavano pietà al dottore. L’elettromassaggio, oltre che a scopo terapeutico, veniva anche usato come tortura, per estorcere informazioni su furti o fughe, a scopo punitivo per qualsiasi ragione, come minaccia, o semplicemente a scopo scientifico. Altro trattamento largamente sperimentato a Collegno per la cura della schizofrenia, in base a un’ipotetico antagonismo tra questa e l’epilessia, era lo shock insulinico: essa provoca prima rigidità, pallore e sensazione di morte, tremori o raramente convulsioni, e quindi perdita di coscienza. Il soggetto riprendeva coscienza in seguito ad un’iniezione di glucosio al 40%. Entrambi i metodi erano praticati 5 o 6 giorni la settimana, ma mentre il secondo dura almeno 7-8 ore,  la Tec , di più recente invenzione, dura 10-20 minuti. V.Andreoli, psichiatra, le chiama oggi terapie della morte, basate sulla vecchia idea che il matto dovesse morire e poi rinascere: si uccide il cervello per togliere un’idea delirante, si bombarda l’encefalo intero per eliminare un sintomo, ma creando buchi di memoria, alterazioni nella personalità e nell’aggressività. Effetti che non possono essere considerati terapeutici dalla scienza e dagli psichiatri contemporanei, nonostante nel 1996  la Tec sia stata rilanciata dal Consiglio superiore di sanità e dal Ministero stesso. “Talvolta l'elettroshock potrà anche rappresentare un'ultima spiaggia, ma in realtà è il segno della nostra impotenza terapeutica, che si trasforma in cieco accanimento verso la malattia mentale, passando obbligatoriamente attraverso la testa del paziente senza considerare la sua anima”

Nel 1971 l’Associazione aveva presentato un esposto alla magistratura perché indagasse sul ricorso all’apomorfina per gli alcolisti dei reparti 2 e 4. Gli alcolizzati colpevoli di essersi procurati un bicchierino (spesso ricevuto in cambio di denaro dagli stessi infermieri) venivano puniti con la somministrazione coatta di apomorfina, un emetico che produce sete e vomito contemporaneamente, causando sofferenze atroci

Il Prof. P.M.Furlan riporta di altri due particolarissimi metodi: la strozzina, praticata con un lenzuolo ritorto e bagnato con cui si strozzava il degente sino a provocarne il collasso o la “calma”, e lo zolfanello o sulfoterapia, ossia iniezioni di zolfo, dolorosissime, praticate ai più turbolenti, che causavano febbre a quaranta gradi e conseguente spossatezza. Quest’ultimo, molto praticato a Vercelli, era inoltre usato come minaccia allo stesso modo dell’elettroshock: bastava minacciare di usarlo e il paziente si “calmava” per la paura. 

Altri abusi fisici erano costituiti dalla violenza degli infermieri, che spesso picchiavano i ricoverati con bastoni, chiavi o quant’altro se “eccessivamente disturbati” dalle loro richieste, o per punirli, per spaventarli, per obbligarli a tacere o a fare ciò che volevano, contribuendo alla creazione di un vero e proprio regno del terrore basato sulla connivenza tra direttori, medici e sanitari, nella sicurezza che nessuna testimonianza degli ammalati o di loro parenti, quasi tutti poveri, sarebbe mai stata presa in considerazione.  

Gli infermieri sono spesso stati additati come i più diretti colpevoli della situazione dell’ospedale; tuttavia andrebbe considerato il loro ruolo all’interno della struttura. Essi erano paradossalmente responsabili dei danni che la pericolosità dei malati poteva procurare, pur occupando il gradino più basso della rigida gerarchia. Essi non avevano alcuna preparazione specifica, e non avevano difficoltà nell’accettare la concezione proposta dal medico del malato di mente come “incomprensibile e pericoloso”. Probabilmente, l’effetto dell’impreparazione e della paura contribuivano a far sì che essi accettassero il ruolo da carceriere imposto, cercando di compensare la frustrazione che ne può derivare sia con la rivendicazione corporativa di vantaggi economici o di orario, sia con l’abuso del potere che avevano nei confronti dei degenti. Infatti, spesso, in casi di provvedimenti disciplinari o giudiziari, è stata loro offerta una compiacente protezione da parte della direzione sanitaria o amministrativa; la loro mancata identificazione e il conseguente allontanamento     

hanno purtroppo contribuito a mantenere inalterata la struttura manicomiale, ostacolando l’azione innovatrice portata da quegli infermieri che invece presero parte attivamente nei movimenti antistituzionali che si stavano costituendo in quegli anni.   

Altri operatori erano gli assistenti sociali, ma ancora privi di un ruolo ben definito all’interno dell’ospedale, soprattutto considerando la sproporzione numerica: erano solamente in due per una popolazione di circa 1800 persone!

Gli psichiatri  nel manicomio ricevevano conferma del fatto che i malati di mente fossero “incomprensibili e pericolosi” per le condizioni in cui li trovavano: soli, impauriti, senza diritti alcuni, sicuramente dovevano apparire diversi da ogni altro uomo mai visto. La loro azione spesso si limitava a pratiche contenitive, a trattamenti farmacologici o a shockterapie; trascorrono solo poche ore in reparto, vengono informati dal capoinfermiere sui comportamenti dei malati “meno tranquilli”, e  spesso delegano agli infermieri i trattamenti, le pratiche correttive e le punizioni da eseguire.

Da questa prospettiva, l’ospedale diventa un luogo in cui non solo non si curano individui definiti malati, ma si creano le condizioni stesse affinché la loro eventuale malattia venga alimentata e confermata come definitiva.  

Nel semestre in cui si svolge l’operato della Commissione, sono morti 55 degenti; ciò corrisponde a un tasso di mortalità altissimo, pari al 34,3 per mille contro lo 0,91 della popolazione del comune di Torino. La maggior parte dei decessi avviene per collasso o insufficienza cardiocircolatori, dopo una degenza di oltre vent’anni; altri sono deceduti pochi giorni o poche settimane dopo il loro ricovero.  

Poco dopo la pubblicazione, “La fabbrica della follia” viene mandato alla Procura della Repubblica dallo stesso presidente dell’ospedale, Prele, che invita le persone accusate a difendersi per vie legali; in caso contrario avrebbe aperto un’indagine disciplinare. 

Nel 1972  la Provincia di Torino annuncia la riforma per istituire, entro sei anni, i comprensori territoriali; l’anno seguente chiuderà via Giulio, e nel ’74 Villa Azzurra.  

5. Attività espressive non verbali come metodo terapeutico

Vorrei concedere un breve spazio all’arte terapia, che già dalla seconda metà dell’Ottocento fece la sua timida comparsa nei laboratori di ergoterapia dei manicomi. Ne rimangono alcune tracce, a Torino, nel museo di etnoantropologia e in quello di antropologia criminale. Nel primo si trovano singolari opere di cestai dell’O.P. di Collegno, raccolte da G.Marro intorno al 1880; costituiscono strani esemplari di ceste e sedie antropomorfe o zoomorfe, che travalicano chiaramente l’aspetto ergoterapico.   Nel secondo si trova moltissimo materiale eterogeneo ma non ordinato; esso è citato da J.M.Mac Gregor6 come una delle cinque principali mostre di arte psichiatrica in Europa.  

All’epoca le espressioni dei ricoverati, per lo più figurative, erano motivo di curiosità o scandalo, e solo più tardi vennero guardati come possibile manifestazione sintomatica della malattia, fornendo lo spunto per le prime sistematizzazioni cliniche e teoriche7. Un altro filone in merito apparteneva invece alla scuola psicoanalitica: Freud e Jung svilupparono modalità di interpretazione e di analisi dei simboli sessuali o archetipici contenuti nei disegni dei loro pazienti. In entrambe le posizioni, comunque, le attività espressive erano considerate solo, o principalmente, come sintomo di una malattia, costituendo uno strumento conoscitivo e analitico a disposizione dell’analista, se non interpretate in funzione ad una convalida dell’inquadramento nosografico del malato .

Si deve ad autori americani, come P.G.Schube e J.G.Cowell, attorno agli anni ’40, la costituzione dei primi atelier di pittura per gruppi di malati mentali ricoverati al Boston State Hospital, al Saint Elizabeth Hospital e all’Allan Memorial Institute di Montreal, quest’ultimo ad indirizzo psicoanalitico. 

Negli anni tra il 1950 e il 1970 l’ideologia di fondo in questo ambito era ancora caratterizzata dalla cosiddetta psicopatologia dell’espressione. Nel Secondo Dopoguerra era stata fondata a Verona una società internazionale, con migliaia di membri da tutto il mondo,  la Società Internazionale di Psicopatologia dell’Espressione (SIPA), e monografie, volumi, Congressi ed altre iniziative con il coinvolgimento di discipline diverse testimoniano dell’incredibile interesse verso questo campo. In quegli anni si registrava anche il diffondersi di numerosissimi atelier artistici negli  manicomi.

A partire dagli anni Sessanta, parallelamente alla crisi del paradigma psichiatrico, anche la psicopatologia dell’espressione venne abbandonata dai più. La rottura del modello istituzionale promosse lo sviluppo di nuove premesse nell’arte terapia: non più la produzione di espressioni psicopatologiche ma si iniziò a scorgere lo dispiegamento del declinarsi dell’intera esistenza del soggetto. Il malato non era più considerato come oggetto reificato nella sua patologica diversità, e per questo motivo si poté assegnare finalmente un senso più profondo, terapeutico, personale, alle sue produzioni. Secondo la prospettiva esistenzialista di Binswanger, l’attenzione si spostò dal segno, cioè dal sintomo, al contesto generale, alla struttura organizzata, cioè al Dasein (o Gestalt per gli psicologi della forma, o Feld per Lewin). L’accento fu quindi spostato sulla globalità della situazione, e poi sulla fenomenologia del mondo alienato. Questo nuovo punto di vista offrì la possibilità, entrando nell’essere della persona ammalata, di poter penetrare il suo modo di adattarsi alla nuova situazione determinata della malattia. 

Ho già accennato (CAP.III, par. 6.1) all’interesse coltivato in questo ambito dallo psichiatra italiano G.E.Morselli, che, rifacendosi a Jaspers, considerava il fenomeno espressivo come risoluzione dell’antinomia soggetto-oggetto cui filosofia e psicologia devono da sempre un aspetto essenziale delle loro impasses8. Sia nell’opera d’arte sia nelle forme espressive senza attinenza con l’arte vedeva pulsare la vita, il pathos, il divenire, mentre aspetti inesplorati dell’io avrebbero potuto affiorare. Era inoltre fermamente convinto che in numerosissimi disegni e pitture la struttura formale della mente schizofrenica si rispecchiasse per intero, nei suoi due aspetti, negativo e positivo. Essi avevano la capacità di tradurre, accanto ai segni dissolutivi, non separabili da quelli ricostruttivi, la metamorfosi reattiva della personalità, contraddistinta dai fattori costruttività e originalità.

L’arte terapia si costituì come uno studio basato su criteri comprensivi, capaci di restituire non serie di sintomi ma strutturazioni esistenziali, in sé significanti; uno studio diretto verso la totalità dell’essere umano tale quale esso è posto nel mondo, strumento di conoscenza sia del mondo interiore sia del mondo esterno. Qualsiasi attività espressiva può essere infatti considerata una forma di comunicazione peculiare del soggetto, che non avviene mai isolatamente, ma si colloca e si espande in un preciso contesto e all’interno dell’esperienza relazionale. Il fatto che molti malati comincino a disegnare soltanto dopo l’insorgere del disturbo, starebbe a dimostrare che l’esigenza comunicativa, bloccata nei modi espressivi comuni, si apra la strada sul piano plastico, nel tentativo di trovare una possibilità nuova di essere nel mondo. Anche nella intuizione husserliana del vissuto l’atto espressivo è il primo contenuto immediato che incontriamo. Quasi a dire: l’espressività siamo noi, è nel centro dell’esistenza, e Minkoswi  infatti afferma che, affianco alla causalità, esiste un’altra relazione fondamentale, quella dell’espressione e del significato.

Per questo l’attenzione iniziò ad essere diretta al rapporto paziente-mondo, paziente-medico, ecc., cioè al complesso mondo storico-contestuale in cui il paziente si è espresso. “L’arte contemporanea, l’arte terapia, i graffiti metropolitani, la musica punk e tutti i molteplici fenomeni che sfuggono al condizionamento e alla massificazione culturale appaiono accomunati da un elemento di fondo: la funzione maieutica9. In sintesi, l’attenzione si spostò dal prodotto alla persona che l’aveva creato, oltre che al come, con chi, e dove ciò era avvenuto. 

Nucleo principale dell’arte terapia è lo sviluppo e l’estrinsecazione di un’originale attività creativa, pulsione precipuamente umana, di cui non va tralasciata la componente ludica. Anche Marco Cavallo10 può essere preso ad esempio come simbolo di questo “nuovo” ambito. 

Solo su queste nuove premesse l’arte terapia si poté costituire come disciplina autonoma, ed esiste oggi un grande dibattito sulla interdipendenza o complementarietà fra essa ed altre forme di terapia11.  Per affrontare i gravi disturbi che si incontrano, infatti, nessuna disciplina può pretendere di poter fare da sola competendo con le altre. 

Edith Kramer afferma: “L’arte serve come modello di funzionamento dell’Io, diventa una zona franca in cui è possibile esprimere nuovi atteggiamenti e risposte emotive, anche prima che queste modificazioni abbiano luogo a livello di vita quotidiana… Essa crea una zona di vita simbolica che permette la sperimentazione di idee e sentimenti, di portare alla luce la complessità e le contraddizioni della vita, e di dimostrare la capacità dell’uomo di trascendere il conflitto e di creare ordine nel caos, ed infine, di dare piacere”.

Susan Langer, in Philosophical skeches, scrive che la funzione primaria dell’arte è quella di oggettivare sentimenti e sensazioni per essere in grado di capirli. In altre parole, sarebbe una formulazione del concetto di “esperienza interiore”, impossibile da raggiungere per mezzo delle strutture del linguaggio, data la stretta affinità dell’arte con il processo primario.

Oltre ad essere un’attività liberatoria e catartica per il malato, o uno strumento di accesso al suo mondo antropofenomenologico per lo psichiatra, l’attività espressiva può costituire per entrambi uno strumento di ristrutturazione della sua personalità, di riconquista del contatto con la realtà e della capacità di comunicare, e di riappropriazione della sua identità, ponendosi nuovamente come soggetto sociale attivo. Dietro ogni sforzo dell’arte terapia deve esserci il tentativo di mettere in condizione qualsiasi soggetto di produrre materiale, che comunichi in modo vero ed eloquente la sua esperienza all’arte terapista12. 

Quest’obiettivo va raggiunto mediante un’attività motivata e comunitaria, per tentare di far risorgere il sentimento di fiducia di sé, spesso soffocato da tanti anni trascorsi all’interno dell’istituzione manicomiale. La socializzazione di queste attività espressive, anche non prettamente figurative, va messa comunque sempre in relazione a situazioni reali, come l’abbattimento delle mura dell’ospedale psichiatrico, l’uscita dall’istituzione psichiatrica, e l’eliminazione di ogni barriera tra operatori e utenti, tra sani e malati13. La legge 180 segnò la fine degli OO.PP. e favorì la loro sostituzione con esperienze pilota di animazione. 

In una ricerca compiuta tra il 1975 ed il 1977, emerse che in Italia esistevano almeno 74 atelier di pittura per gruppi di malati mentali negli Ospedali Psichiatrici14.

5.1 Il Collettivo di Torino

Sul finire degli anni Sessanta, si costituì a Torino, nell’ O.P. di Collegno, un collettivo multidisciplinare di ricerca sulle attività espressive come metodo terapeutico in ambito psichiatrico. Tra i membri fondatori del “Collettivo di Torino” vi erano R.Bortino (psicologa), G.Gamna (psichiatra e direttore dell’Ospedale Psichiatrico dal 1968), P.Gilardi (arteterapista), e G.Raimondi (architetto); ad essi si unirono molti operatori, nella speranza di trovare un modo di superare  l’isolamento e l’empirismo in cui si trovavano a lavorare. Emerse inoltre subito l’urgente necessità di collocare questa esperienza nel quadro della lotta alle istituzioni manicomiali e delle prospettive di riforma dell’assistenza psichiatrica. Se la psicopatologia dell’espressione considerava i laboratori artistici alla stregua di “atelier di pittura per malati”, questo progetto si proponeva di studiare la possibilità di utilizzare le tecniche espressive non verbali come strumenti finalizzati alla cura e alla riabilitazione13. Vi era inoltre l’intenzione di istituire un centro di animazione sociale di quartiere, calato nella realtà quotidiana concreta, vera, non diretto solo ai malati ma a tutti. 

Teneva l’atelier Gigliola Carretti, artista allieva di Manzio, noto pittore del gruppo dei cinque di Casorati. Benché piuttosto giovane, ella aveva già esperienza in questo campo, sviluppata in un atélier di Torino per bambini disturbati. Seguiva il metodo Stern: ad ogni paziente venivano forniti tre pennelli di grandezza diversa, e una volta usati dovevano lavarli e riporli ordinatamente perché altri li adoperassero. Fogli di carta di varie dimensioni erano appesi ai muri. Carretti si aggirava tra loro, intervenendo solo se richiesto, insegnando come fare una prospettiva o come tracciare una linea. L’atelier era al terzo piano di un reparto, quasi una soffitta; chi cantava o fischiettava, chi disegnava, chi spiegava i propri dipinti, chi recitava le proprie poesie (alcune delle quali venivano pubblicate sul Caffè, un bimestrale “letterario e satirico”). Finito il laboratorio, i dipinti venivano  riposti in grandi cartelle, una per ogni malato. I pazienti decisero anche di organizzare una mostra nell’atrio juvarriano dell’ex O.P., mentre alcuni quadri furono mandati a Città del Messico, per un Congresso Mondiale di Psichiatria. Non mancarono buoni esiti terapeutici: G.Gamna ricorda Eugenia e Giuseppe, entrambi dimessi. Del secondo ripercorre l’iter pittorico: dai primi segni informali connessi alla sua psicosi, ai quadri dove iniziarono ad emergere, seppur rozzamente, antichi ricordi, sino alla riconquista del reale che finalmente gli permise di raggiungere un certo stato di compenso psichico15.

Se è vero che non tutti i disegni di questi ammalati hanno la qualità di messaggio, prevalendo talvolta un aspetto ludico, fine a se stesso, per quanto non meno interessante per lo studio formale, rimane comunque il fatto che il valore maggiore di questi documenti sembra essere la possibilità di fornire attraverso di essi una via d’accesso a quella umanizzazione della psichiatria che talune correnti di pensiero, in particolare quella antropologica, sottolineano come un passo necessario per una migliore comprensione dei nostri pazienti. Le immagini di questo mondo, così stranamente e suggestivamente vicino all’essenza della poesia e della tragedia, testimoniano la condizione umana di questi malati, e di chi, vicino a loro, spesso sul filo di fragili speranze, soffre e lotta contro la malattia16

VII. 

 Anni ’70: il Settore e la deistituzionalizzazione

 

1. Il Settore  a Torino

Dopo il ’68, la storia della psichiatria torinese fu caratterizzata da un periodo di lotte e denunce, alle quali  la Provincia rispose con l’attuazione della politica di Settore, che permise il costituirsi dei servizi psichiatrici di zona.

Nel ‘69 vengono aperte le prime Comunità terapeutiche, a Torino nell'Ospedale di via Giulio dal dottor Luciano, e nell'Ospedale di Collegno dal dottor E.Pascal. In seguito ad un accordo tra il Presidente della Provincia di Torino Borgogno e  la Presidente dell'Opera Pia Ospedali Psichiatrici Vietti, vengono attuati i "Servizi Psichiatrici di Zona". Con la decisione che  la Provincia avrebbe messo a disposizione le strutture e l'Opera Pia il personale, diventa possibile l'apertura degli Ambulatori Psichiatrici sul territorio. Nel 1969,  la Provincia di Torino venne divisa in undici settori (o zone operative), di cui cinque urbani, cioè relativi alla città e alla cintura ( To-Centro, To-Nord, To-Est, To-Sud, To-Ovest), e altri sei relativi alla provincia. Ciascuno di essi faceva capo a un complesso ospedaliero. La divisione delle aree nel 1969 può essere così riassunta nelle seguenti zone:

·          Centro, abitanti 322.287: 3 consultori

·          Nord, abitanti 262.400: 1 consultorio

·          Est, abitanti 350.000: 3 consultori, 5 équipes esterne

·          Sud, abitanti 280.771: 1 consultorio

·          Ovest, abitanti 341.128: settore non assegnato

Nel 1970 venne, in via sperimentale, reso operativo tale disegno, con l’istituzione dei settori 1, To-Centro, e 3, To-Est2

In breve tempo, gli effetti del modello settoriale iniziarono a rendersi visibili sia all’interno della struttura manicomiale, dove si registravano una diminuzione delle presenze e una trasformazione dell’ambiente con assemblee giornaliere di reparto, sia all’esterno, dove si istituivano le prime strutture extraospedaliere. Gli ambulatori venivano creati soprattutto su iniziativa di alcuni operatori settoriali e della Provincia, che rivendicava la sua competenza esclusiva sulle strutture assistenziali territoriali, pur usufruendo del personale fornito dall’Opera Pia. Oltre al servizio ambulatoriale, gli operatori effettuavano visite ai pazienti dimessi, sia a casa che in ospedale, fornendo assistenza psicologica e farmacologica. 

Nel 1973, in conseguenza della riduzione dei ricoverati, fu possibile chiudere la sede ospedaliera di via Giulio in Torino, comunemente chiamata "l'albergo dei due pini", dagli alberi che ne ornavano l'ingresso principale. I degenti bruciarono in un rogo liberatorio le cinghie di contenzione e le camicie di forza; il giornalista inviato dalla Rai rilevò le lacrime di una lungodegente, da anni silenziosa e totalmente chiusa in se stessa. Le donne ricoverate vengono trasferite a Collegno, Ospedale "Ville Regina", nel nuovo padiglione di "Villa Rosa".

Si eliminarono inoltre le condizioni di sovraffollamento dei reparti nelle altre sedi e si ottenne una diminuzione del rapporto ricoverati/medici psichiatrici in servizio nelle strutture dell’Opera Pia.

Vennero aperte le prime comunità terapeutiche e i primi ambulatori psichiatrici sul territorio. Anche un certo numero di reparti dell’OP di Collegno vennero adibiti a “divisione ospedaliera” del settore est, da cui erano separati da una distanza di una ventina di chilometri, contrariamente da quanto previsto dal “settore” che doveva fornire l’assistenza e la cura dei pazienti nelle immediate vicinanze della zona di residenza. Il primo ambulatorio fu proprio in questo settore, ma fu soprattutto il frutto dell’operosità di operatori e infermieri che vi lavoravano, più politicizzati e decisi al cambiamento rispetto ad altri gruppi. Anche un nuovo edificio diventò la divisione di un altro settore, quello centrale; il resto della struttura venne occupato dai malati delle aree non settorizzate e da quelli che nessuno voleva, come i “furiosi” e gli incontinenti. 

Lo spostamento dei ricoverati e del personale avvenne con grandi disagi e inconvenienti, e spesso per i primi risultò essere una sorta di “deportazione” forzata.

Infatti, nella maggior parte dei casi, la politica settoriale riguardava i lungodegenti, la cui unica famiglia era quella che si erano costruiti all’interno del reparto, in una sorta di alleanza per la sopravvivenza. Quindi, dopo anni di manicomio, molti furono costretti a separarsi dagli unici affetti che possedevano, “per il loro bene”, fenomeno che alcuni hanno paragonato a una deportazione. E.Balduzzi parlò già in quegli anni, nel 1971, di una fondamentale incomprensione dell’applicazione del modello settoriale: “Settore significò, per la maggior parte dei nuovi interpreti, una semplice suddivisione di territorio da amministrare, mantenendo l’ospedale psichiatrico al centro del sistema, e procedendo, all’interno dell’istituzione, ad una complicata ripartizione di direzioni, primariati e sottoprimariati, la cui posizione all’esterno si limitava alla solita gestione bisettimanale o mensile dei dispensari. Non si modificava, quindi, in alcun modo la situazione manicomiale”. 

1.1           Un esempio: il settore 3,  Torino-Est3

Il primo nucleo a cui il settore Torino Est farà successivamente capo, nacque verso il 1968, ed era costituito da uno psichiatra ed alcuni infermieri, con aspettative e desideri di innovazione rispetto a una situazione statica e rigidamente controllata dal vertice amministrativo-sanitario. I regolamenti erano inoltre antiquati e impedivano al personale qualsiasi iniziativa originale. Il ’68  fu un anno tra i più turbolenti, con forti pressioni sia dall’esterno (l’associazione per la lotta contro le malattie mentali, il movimento studentesco, l’opinione pubblica) sia da gruppi stessi di operatori psichiatrici che lottavano per progetti di rinnovamento contro una maggioranza conservatrice.  

Il gruppo iniziò ad operare in una sezione maschile interna all’Ospedale Psichiatrico di Collegno, dapprima con discussioni informali sulle condizioni materiali del reparto da migliorare e su tentativi di rispondere alle esigenze dei singoli ricoverati, nell’indirizzo della comunità terapeutica. I rapporti con il resto dell’ospedale oscillavano tra isolamento e dialogo, tra conflitto aperto e alleanze spontanee. Agli inizi del 1970 avevano già raggiunto importanti traguardi nel miglioramento interno del reparto, e iniziarono così a volgere il proprio interesse alla situazione extraospedaliera, concernente cioè la situazione dei pazienti dimessi o dimissibili. Nel marzo di quest’anno si concretizzò l’istituzione dei settori, con l’assegnazione della zona  est di Torino al suddetto gruppo, che ottenne anche la gestione di un reparto osservazione maschile e uno femminile. Loro preciso intento era impedire la cronicizzazione della malattia, e il trasferimento continuo da un reparto all’altro dei soggetti, effettuando così un’efficace azione di filtro all’entrata in manicomio. Per quanto riguarda l’attività esterna, a luglio cominciò l’attività dell’ ambulatorio sito al centro della zona da loro assegnata, in Via Paisiello, il primo di Torino. Questo era stato ammobiliato con ciò che si era trovato nei sotterranei dell’OP di Collegno e con altro materiale proveniente da una struttura della Olivetti di Ivrea non funzionante. Era composto da un grande stanzone, che serviva come sala d’attesa e per le riunioni. Nel frattempo, il gruppo si era modificato, e nuovo personale si era unito: assistenti sociali, psicologhe, oltre che nuovi psichiatri e infermieri interessati alle nuove concezioni nell’assistenza psichiatrica. 

Nel periodo 1971-1972 si assisté ad un progressivo isolamento del reparto interno rispetto al resto dell’ospedale, ma si poterono strutturare nuove équipes esterne fisse ed acquisire due nuovi ambulatori nei due comuni della cintura appartenenti al settore: S.Mauro e Settimo, per un totale di cinque consultori. In totale vi erano impegnati 5 psichiatri, 4 assistenti sociali e 25 infermieri, oltre al direttore, G.Gamna, assunto tramite concorso nazionale, una psicologa e un altro infermiere con mansioni prevalentemente amministrative. Le due équipe interne stabili seguivano le dinamiche dei singoli ricoverati e le loro interazioni. Le cinque esterne operavano per circa un quarto del loro tempo nell’ospedale per assicurare la continuità terapeutica alle persone che passavano dalla condizione di ricoverati a quella di dimessi e viceversa; inoltre ciò consentiva di agire direttamente sulle dinamiche che avevano condotto alla richiesta di intervento psichiatrico. Il servizio era totalmente gratuito e aperto a tutti. 

Nel periodo successivo, 1972-1973, il personale aumentò ancora di numero e si intensificarono le sperimentazioni e gli interventi socio e psicoterapici.

Le scadenze organizzative erano costituite da una riunione mensile di tutto il personale, una riunione settimanale tra il direttore e un rappresentante di ogni gruppo, un incontro settimanale in reparto tra le due équipes dell’ospedale e una delle esterne, per la discussione di casi. 

Il lavoro si articolava in interventi ambulatoriali sui pazienti, visti singolarmente o in gruppo, visite domiciliari al malato ed ai familiari, e alcuni interventi sull’ambiente extra-familiare: fabbrica, scuola, quartiere. Le terapie sono psicoterapeutiche e/o farmacologiche. 

Qualche anno dopo, il gruppo, basandosi sui dati relativi al periodo che andava da giugno 1971 a giugno 1972, analizzò il lavoro svolto fino ad allora, sia per quanto riguardava le varie modalità o tecniche di intervento del settore To-Est, sia il rapporto del paziente con la struttura sanitaria, sia approfondimenti circa aspetti socio-ambientali ed economici della popolazione interessata. Ritengo che alcune conclusioni cui giunsero sono assai significative.     

Risulta una netta prevalenza di soggetti emigrati dal meridione, il 31.4%, seguiti da emigrati veneti(10.7%). 

Il 58% dei soggetti esaminati appartiene alla fascia lavorativa non produttiva; dei lavoratori il 66% è nell’industria. 

Vi sono poi evidenti correlazioni tra scolarità e diagnosi, dove le nevrosi hanno uno spostamento verso forme di cultura più elevate (20.5% al di sopra della scuola dell’obbligo), rispetto alle psicosi(11.7%). Parallelamente, le nevrosi si riferiscono a soggetti occupati in categorie superiori, sino alle impiegatizie (27.1%), che nelle psicosi si ritrovano solo per l’11.3%.

Il 42.6% dei casi ha subito almeno un ricovero in ambito psichiatrico, dato che messo a confronto con la situazione diagnostica e particolarmente con la percentuale di psicosi nell’intera casistica, il 21.9%, indicherebbe come parte dei ricoveri non sia motivata. Il fenomeno, a detta degli AA., sarebbe da addebitarsi ai ricoveri praticati dagli enti mutualistici nelle case di cura private, che sono particolarmente numerose nella cintura di Torino.

Relativamente ai tipi di intervento, vi è ancora prevalenza di terapia farmacologica (38.7%), mentre la psicoterapia è praticata solo nel 12.8% dei casi. Rispetto alle diagnosi, il 50.5% dei casi di psicosi riceve un intervento farmacologico e solo il 9.9% viene curato con una terapia prevalentemente psicoterapica. Nelle nevrosi, il 39.2 riceve terapia con psicofarmaci, il 23.7 psicoterapia. Correlazioni significative si riscontrano anche tra tipo d’intervento e scolarità: quanto più questa è elevata, tanto meno utilizzata sarà la farmacoterapia, e quindi la psicoterapia sarà più utilizzata.

Inoltre le équipe si trovavano in numero di personale insufficiente per le zone assegnate, che vanno da un minimo di 12.643 abitanti per S.Mauro ai 62.023 del settore cittadino T7. Il numero di casi presi in esame per gruppo, che si attesta sempre attorno al 25% indipendentemente dall’ampiezza del territorio e dalla densità della popolazione, rivela che esiste un limite di recettività proprio della struttura. Dai calcoli degli AA., risulterebbe che ogni équipe sarebbe in grado di avere in carico mediamente ai 300 pazienti.  

In seguito l’équipe crebbe sino a comprendere circa 200 infermieri, quasi tutti appartenenti al P.C.I., 20 medici e altrettanti assistenti sociali. Le strutture si arricchirono di una casa-famiglia, situata nei pressi di Via Paisiello.   

Da questi dati emerge tuttavia che, sebbene il settore fosse basato su premesse teoriche innovative, le condizioni obiettive riportate lo relegano ancora all’interno di un modello tradizionale di assistenza psichiatrica, con al centro un approccio farmacologico, medico, al paziente e al disagio psichico. Inoltre, come avveniva all’interno dei manicomi, erano gli infermieri i principali dispensatori di psicofarmaci, così come erano essi stessi i principali operatori che effettuavano le visite a domicilio, scimmiottando il ruolo dello psichiatra4.  

In sintesi, l’attività nel settore psichiatrico Torino-Est era ristretta ad un lavoro socio-sanitario: si davano sussidi, si cercava una casa, un lavoro e soprattutto, benché contro ogni proposito degli operatori, si prescrivevano psicofarmaci. Unico tratto innovativo va riferito all’azione di Piero Gilardi che, pur non appartenendo all’organico, sviluppò in questo ambulatorio un atelier di attività espressive.

1.2 Superamento della politica del Settore

Nel 1972 venne firmata  la Prima Convenzione tra Provincia e Opera Pia, circa la “ristrutturazione assistenziale psichiatrica”, che diede l’avvio all’attività extraospedaliera, gestita dalla Provincia. Gli obiettivi erano: il superamento dell’Ospedale Psichiatrico, applicazione del modello settoriale, diminuzione dei ricoverati e loro collocamento nel territorio, e la ridistribuzione dei degenti nei reparti di Collegno in base all’infermità. L’anno dopo l’Organizzazione Provinciale Confederale dei Sindacati CGIL, CISL e UIL propose un “Protocollo Aggiuntivo” precisando gli obiettivi, le scadenze e le caratteristiche della nuova assistenza territoriale, e la dotazione organica dei presidi extraospedalieri, da attingersi dall’ospedale psichiatrico man a mano che si fosse reso possibile. Il Protocollo fu approvato dall’Opera Pia, ed è testimone della grande influenza che i sindacati riuscirono ad avere sul processo di superamento del manicomio. Questo documento ha delineato l’orientamento della prefigurazione delle USSL e può essere assunto come punto d’inizio del declino della politica del Settore. In un intervista E.Pascal dirà che “dal ’73 la politica di Settore è stata superata dalla politica di impianto delle future USSL. Questo documento è fondamentale perché c’è proprio un cambiamento di rotta, cioè ha ufficializzato praticamente il superamento del Settore”.  

Il Protocollo Aggiuntivo ebbe un’attuazione graduale, e, nel Verbale del Consiglio di Amministrazione degli Ospedali Psichiatrici, ancora nel ’76 si trova una lettera in cui i Sindacati Ospedalieri accusano l’Opera Pia di non tener fede agli impegni presi, date le forti resistenze come, per esempio, per la chiusura dei reparti e il conseguente intasamento degli altri. Ciò perché sembra che  la Provincia non si prese carico dei suoi impegni programmatici e i sindacati si mostrarono fortemente corporativi.

1.3 Cause del “fallimento” del Settore

 

In un momento in cui l’opinione pubblica, le nuove leve di dottori e infermieri e le associazioni premevano per un radicale cambiamento nell’area dell’assistenza psichiatrica e nella pessima gestione delle strutture manicomiali, il modello settoriale ha fornito un pretesto per tacitare le critiche e le proteste, proponendo invece una falsa alternativa, e rimandando ancora una volta la soluzione di un problema che riguardava la vita o la morte per migliaia di persone. L’Associazione per la lotta contro le malattie mentali lo definì un espediente gattopardesco5, offerto per tacitare le crescenti denunce e critiche verso l’istituzione manicomiale. Le sue indagini condotte nel ’69-‘70 verificarono che  non si erano, in sostanza, apportati cambiamenti significativi né all’esterno, dove mancavano le strutture, né all’interno del manicomio, dove si susseguivano spostamenti dei degenti da un reparto all’altro, secondo un metodo che viene definito “selezione di comodo”. A uguale conclusione giunse la seconda indagine compiuta a metà degli anni Settanta, i cui esiti confluirono in un secondo libro, “Una falsa alternativa alla fabbrica della follia: l’espediente gattopardesco della Provincia di Torino”. Si poterono solo registrare lievi miglioramenti strutturali come l’introduzione di armadietti o un’accresciuta pulizia in alcuni reparti, o di alcune condizioni assistenziali dei ricoverati con il Settore. Tuttavia tali cambiamenti erano spesso dovuti solo all’impegno volontaristico e personale di alcuni, mentre da parte di molti altri operatori ci fu molta resistenza, scarsamente informati sulle funzioni extraospedaliere e recidivi a cambiare metodi. Non vi fu mai l’introduzione di nuove tecniche terapeutiche, sempre condizionate dalla realtà manicomiale. Il Settore non riuscì a inserirsi concretamente in una dimensione comunitaria per poter sviluppare un’assistenza psicologica o psichiatrica, e si può dire che per certi versi si concretizzò, all’interno del manicomio, in una gestione, pur rinnovata, dei reparti.  

  La Psichiatria di Settore a Torino trovò difficoltà nell’essere applicata per l’alto numero di ricoverati presenti e per la realtà urbana in cui doveva operare, a differenza di altri contesti che favorivano una presa in carico in senso più comunitario sul territorio. Il problema fu quello di gestire le nuove strutture, comunque poco numerose, in modo appropriato perché, a lungo andare, questi servizi si trasformarono in vere e proprie sedi di accettazione per far entrare le persone in ospedale psichiatrico. Questa politica ha avuto uno slancio esclusivamente a livello organizzativo ed amministrativo, data la sua logica di organizzare i reparti in base alla provenienza e non più in base alle patologie dei pazienti, in modo tale che il servizio territoriale esterno potesse prendersene cura. Ma in pratica è avvenuto solo lo spostamento dei degenti da un reparto all’altro, poi l’intero processo si è bloccato.  

Il Settore, in Italia, è stato un’organizzazione degli interventi psichiatrici basata su criteri tecnici, senza adeguato coinvolgimento dei vari attori dell’attuazione del progetto, primi fra tutti gli amministratori e gli operatori. Ha avuto scarsissime realizzazioni, e il più delle volte si è concretizzato solo in saltuari collegamenti fra Ospedale Psichiatrico e Centro di Igiene Mentale, nella costituzione di macroscopici comprensori territoriali (250-300 mila abitanti) nei quali ogni possibilità di continuità terapeutica risulta vanificata.

Già a metà degli anni Settanta, viene considerato un esperimento fallito: il manicomio è sempre lì, appena poco più aperto, e la psichiatria è sempre controllo, forse più velato, della devianza. Il Settore, infatti, accetta l’istituzione asilare come una necessità, pur da migliorare e ammodernizzare, ma comunque da mantenere; non critica le categorie psichiatriche ma la loro organizzazione, il loro uso. E fare capo a un ospedale significa che la continuità terapeutica è intesa nel senso di ricovero del malato in periodo di crisi, quindi controllando eccessivamente il caso acuto, senza ricerca di soluzioni alternative; e per evitare il ricovero si fanno ingurgitare al paziente grandi quantità di psicofarmaci. In questo senso ha fallito, cioè nel fatto che c’è stata un’esportazione della logica manicomiale, medicalizzante, fuori dall’O.P., una psichiatrizzazione dei bisogni sul territorio. Il decentramento non può riguardare solo la dislocazione logistica dei servizi, ma deve consistere in primo luogo nella loro gestione comunitaria; inoltre, rimanendo ancorato all’OP, la psichiatria di settore non avrebbe mai potuto avere da sola la forza di incidere radicalmente su di esso in modo distruttivo.  

2. Il caso di Villa Azzurra

Nel 1968 scoppia il caso di Alberto B. e di Villa Azzurra6, il Centro Medico Pedagogico dell’Ospedale Psichiatrico di Grugliasco,  per contenzioni e violenze.

Alberto era un bambino di 8 anni, collocato dal Centro di tutela minori in un collegio della provincia. Dal collegio venne portato in ospedale per un incidente, dove il suo comportamento vivace ed irrequieto, la sua malinconia, frutto di carenze affettive, non furono tollerate. Fu subito trasferito a Collegno, solo e abbandonato tra i malati di mente adulti e anziani. In quell’ospedale, Alberto, soggiornò per circa due mesi. Di questa situazione non fu informato il Centro tutela, per cui, quando esso ne fu a conoscenza, non poté far altro che ricoverare il piccolo immediatamente a Villa Azzurra. Dopo circa cinque mesi di soggiorno, il Centro tutela ottenne di poter inviare una propria assistente sociale che lo potesse seguire anche affettivamente. Le visite fecero scoprire la tragica realtà di Villa Azzurra: un bambino vivace, con una intelligenza al di sopra della norma, di cui furono conferma i successi scolastici, fu sottoposto a cure a base di sedativi. Inoltre, dai racconti del fanciullo si venne a sapere che ogni forma di protesta poteva essere gravemente punita; così non di rado, il piccolo veniva messo a letto legato ai polsi e alle caviglie, un castigo a cui fu sottoposto parecchie volte, persino per quattro giorni di fila. Alberto riferì inoltre che durante la contenzione se ne stava solo interi giorni, visitato soltanto dal compagno che all’ora di pranzo gli portava il cibo. In ultimo, durante i litigi tra piccoli ricoverati, il dott. Coda, allora direttore, incitava i contendenti a lottare fino a quando uno dei due non fosse sconfitto, cioè non cadesse a terra pesto e sanguinante. Il Centro tutela decise di togliere immediatamente Alberto da Villa Azzurra, chiese alla Direzione di preparare il bambino per poterlo presentare alla famiglia affidataria. La risposta fu negativa, non vollero consegnare il bambino perché a letto in castigo. La psicologa dichiarò che Alberto necessitava di una “frustrazione” e quindi non era possibile privarlo di questa “indispensabile” cura. Dopo tali dichiarazioni il Centro di tutela ne premette il recupero e finalmente il piccolo uscì da Villa Azzurra.

Il dott. Coda fu condannato per abuso di mezzi di correzione. Mesi dopo, per una denuncia dell’Associazione per la lotta delle malattie mentali, prese corpo il vero e proprio caso Coda che portò alla sua condanna in primo grado nel luglio del 1974.

Verso il mese di gennaio del 19707,  la Commissione di Tutela per i Diritti dei Ricoverati cominciò ad occuparsi anche di Villa Azzurra. L’Associazione pretese, e ottenne, il coinvolgimento dei genitori, di cui era preciso diritto e dovere di intervenire. Contemporaneamente, per avere una conoscenza diretta, vennero effettuate visite ai due reparti di Villa Azzurra. Venne costatato che il reparto B, dove erano ricoverati i bambini che presentavano patologie organiche anche gravi, era in condizione pessime. Non erano state fatte diagnosi differenziali: cerebropatici e probabili psicotici vivevano in un ambiente utile solo ad aggravare le loro condizioni. Legati e inattivi vegetavano nel più assoluto squallore. Il Reparto A era un po’ più confortevole ed ospitava bambini che a volte erano diventati casi psichiatrici mentre all’origine erano solo casi sociali, caratterizzati cioè da un ambiente familiare inesistente o depresso, e da una scuola incapace di offrirsi loro come area di compenso delle frustrazioni sociali e familiari subite, diventando a sua volta strumento di esclusione

A Villa Azzurra l’inefficienza riabilitativa e terapeutica era dovuta anche al fatto che il personale non disponeva di alcuna formazione. Il personale infermieristico inoltre doveva affrontare il problema di un’irrazionale distribuzione dell’orario di lavoro e della mancanza di formazione professionale. Addirittura le infermiere non sapevano né il nome dei piccoli né la patologia di cui erano affetti, e li chiamavano “arnesi”.

Associazioni e famiglie porsero alla Direzione richieste di vario tipo, ma senza ricevere nessuna risposta. Decisero pertanto di informare l’opinione pubblica di quanto stava accadendo a Villa Azzurra. Nei giorni successivi fu inviato ad alcuni quotidiani un documento sulla situazione. 

Il 26 luglio l’”Espresso” pubblicò8, corredato da impressionanti fotografie dei bambini legati, un articolo che destò scalpore. In questo articolo veniva descritto ciò che si poteva trovare al reparto B di Villa Azzurra. 

I carabinieri aprirono un’inchiesta. I bambini del reparto A furono frettolosamente dispersi9: alcuni tornarono in famiglia, e  la Provincia che spendeva per ciascuno di loro 240.000 lire al mese per tenerli a Villa Azzurra si limitò a elargire alle famiglie sussidi di non più di 12.000 mensili. Altri piccoli finirono in luoghi anche peggiori di Villa Azzurra come a Mogliano Veneto e  Tiene. I bambini del reparto B, sulla scia dello scandalo furono trasferiti nei locali del reparto A e, con qualche eccezione, slegati.

Con lo scandalo di Villa Azzurra l’Amministrazione Provinciale gettò le basi dell’operazione del distacco del problema degli handicappati dalla psichiatria: nacque la figura dell’educatore10. La situazione conseguente alla chiusura dei reparti infantili è gravissima ed urgente; dietro ognuno di questi bambini vi sono storie di miseria, alcolismo, disoccupazione; anche i pochi di cui si conoscono le famiglie di origine non si sa dove mandarli, perché i genitori non li rivogliono indietro. Il problema è imponente, considerando che all’epoca i bambini considerati handicappati in tutta Italia erano circa tre milioni, molti dei quali in istituzioni da cui devono uscire

Il 1° aprile 197111 i piccoli ospiti di Villa Azzurra scesero, dagli iniziali 150 a circa 60. Nel maggio dello stesso anno il numero dei piccoli scese ancora di due unità.

Nell’Agosto del ‘72 i bambini presenti a Villa Azzurra erano 36, di cui 11 di età superiore e 25 di età inferiore ai 14 anni. Il 15 novembre dello stesso anno i piccoli di età inferiore ai 14 anni vennero trasferiti all’Istituto Villa Maniero, a totale gestione provinciale. A Villa Azzurra invece rimasero 12 minori che avevano superato i 14 anni in attesa di altra soluzione ad iniziativa della Provincia di Torino12. L’11 dicembre 1979, gli ultimi sette ricoverati vennero trasferiti in un apposito servizio residenziale realizzato dalla Provincia, e finalmente l’Istituto Villa Azzurra presso l’Ospedale Psichiatrico di Grugliasco venne soppresso13.

3. Il processo di deistituzionalizzazione14  

Nel 1972 la popolazione venne divisa in categorie, allo scopo di individuare i reali bisogni assistenziali; su incarico dell’Amministrazione dell’Opera Pia Ospedali Psichiatrici un gruppo di medici condusse un dépistage che accertò come la maggior parte dei ricoverati non necessitasse di cure ospedaliere psichiatriche. Più specificatamente, la situazione si presentava così:

 

CATEGORIA                                                           FREQ.               %                        

Bisognosi di assistenza psichiatrica ospedaliera               899                  30

Bisognosi di assistenza geriatrica                                     747                  25

Bisognosi di cure psichiatriche extraospedaliere               640                21.4

Bisognosi di assistenza psicogeriatrica                             480                  16

Insufficienti mentali gravi                                              118    

 

Sino al ’78, la situazione rimarrà pressoché invariata, seppure in entità ridotte.

Al di là di quelli che sono stati i progetti per l’attuazione di una politica di smantellamento del manicomio, di fatto si assiste in questo decennio alla nascita di una serie di iniziative  concrete, accanto a quelle già esistenti, che permettevano a molti degenti di uscire, momentaneamente o in via definitiva, dalla realtà coatta in cui sino a poco tempo prima sembravano destinati a vivere.

Deistituzionalizzazione significa prendersi cura di persone sul territorio, piuttosto che in un ambiente istituzionale, così come si legge dal 1979 nella Medline, prodotta dalla National Library of Medicine di Bethesda, Maryland (USA). Questa definizione si estrinseca in alcuni punti fondamentali: limitare le ammissioni; trasformare l’ambiente istituzionale interno per garantire le dimissioni, con attività socializzanti; destinare ai servizi territoriali i pazienti pronti a uscire; favorire lo sviluppo dei sistemi di sostegno per le persone che per la prima volta si rivolgono ai centri di salute mentale. Punto fondamentale di questo processo era l’occuparsi delle persone che avevano alle spalle venti, trenta anni di manicomio, che avevano, per forza di cose, perso una serie di competenze sociali. Medici e operatori li preparavano alle dimissioni, e nello stesso tempo dovevano cercare di coinvolgere le famiglie nel progetto, aiutandole a superare la paura e a prepararsi per l’accoglienza; ove ciò non fosse stato possibile, bisognava organizzare strutture adeguate. In ogni caso, le dimissioni andavano accompagnate dai servizi esterni, per non abbandonare la persona e la famiglia. Solo quando queste condizioni erano soddisfatte si può parlare di vera deistituzionalizzazione, a contrario da quanto accadeva a seguito delle cosiddette “dimissioni selvagge”, che spiegano i numerosissimi casi di quegli anni di rientri precoci in manicomio di pazienti precedentemente dichiarati dimissibili.

Considerando le attività sul territorio, emerge chiaramente come la situazione presentasse una forte dicotomia tra ciò che accadeva all’interno delle vecchie mura manicomiali, e all’esterno, dove sorgevano le prime comunità ospiti, in un clima di sperimentazione generale di chi voleva trovare soluzioni alternative ai reparti chiusi, anche prima dell’emanazione della 180.

L’ergoterapia era ancora la pratica “risocializzante” maggiormente utilizzata, e i medici erano soliti dire che era l’anticamera delle dimissioni. Con il pretesto di riabilitare psicologicamente, fisicamente e socialmente l’individuo, ha sempre costituito un forte strumento di controllo e di garanzia all’interno dell’istituzione, oltre che rappresentare una fonte di manodopera a bassissimo costo. 

Le uscite all’esterno erano rappresentate da periodi di soggiorno al mare o in montagna, con il dichiarato scopo di far prendere coscienza del mondo fuori delle mura e per riappropriarsi delle competenze per viverci. Molto più frequenti comunque erano delle gite nei luoghi d’origine per facilitare il rientro in famiglia.

Con i soldi ricavati dalla vendita dell’Ospedale di via Giulio e rendendo disponibili dei locali, si ebbero degli alloggi, come soluzione temporanea, per persone che, in seguito ad attività riabilitative, erano state riconosciute in gradi di essere dimesse e reinserite nella società, ma per le quali l’unico problema era un’idonea sistemazione abitativa. Siccome l’acquisto richiedeva sempre tempi d’attesa molto lunghi, viste le innumerevoli pratiche amministrative e burocratiche per conto dell’Opera Pia, inizialmente si crearono situazioni provvisorie come le sistemazioni in delle pensioni, per esempio nella zona di Porta Palazzo o di Porta Nuova. Ma i degenti rimanevano senza attività alcuna, pur essendo molti i giovani, e inoltre si prefigurava il rischio di creare tanti piccoli manicomi.

Altra iniziativa emergente in quegli anni, assunta dall’Opera Pia, fu quella di investire in immobili per realizzare Comunità alloggio per soggetti già assistiti nell’OP o bisognosi di cure psichiatriche ma in forma non ospedaliera. A Collegno ne sorsero diverse, e rappresentarono un valido strumento per il superamento del manicomio. Nascono dalla metà del 1977 due gruppi di Comunità: le prime (Belvedere, Grugliasco 1^p., Casa Albergo) sono frutto dell’intervento della politica di Settore nella lungodegenza, con una presa in carico diretta del servizio esterno, che interviene modificando le condizioni di vita degli ospiti, lasciando però inalterata la situazione e la cultura del reparto. Le altre Comunità sorgono al termine del lavoro di riabilitazione operato nella lungodegenza di Torino Centro e Torino Est, a cavallo della Legge 180. La popolazione scelta per questo programma era rappresentativa di tutte le fasce dei ricoverati nei reparti, ai quali veniva proposto di ricostruirsi una vita autodeterminata e personalizzata, attraverso l’esercizio dei diritti recuperati. Diversamente dal primo tipo identificato, si trattava di una situazione abitativa impropria, cioè situata nel territorio, con la realizzazione di progetti concordati con gli stessi ospiti: case alloggio, comunità terapeutiche, semplici abitazioni.     

4. I ricoveri coatti con  la L.180

 

Il 1978 è l'anno delle leggi 180 e 833 che segnano l'inizio del lungo cammino verso il superamento degli ospedali psichiatrici. Nello stesso anno vengono abbattute le mura che dividevano il manicomio dalla città. Con l'applicazione della “legge Basaglia” l'Ospedale Psichiatrico sembrava aver imboccato una nuova strada.

Il 1° maggio del 1979 il corteo dei lavoratori entra nei viali dell’ex manicomio e confluisce all’interno della certosa per il comizio finale.

Con l'approvazione della legge 180 del 13/5/78, sugli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, e della legge 833 che prevede lo svuotamento e la chiusura degli Ospedali Psichiatrici, si è compiuto il potenziamento dei Servizi Psichiatrici Territoriali e l'apertura dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura negli Ospedali Civili per i necessari periodi di ricovero, gestiti dalle Unità Sanitarie Locali. 

La chiusura degli OO.PP. prevista è stata “risancita” dalle leggi finanziarie degli ultimi anni (l. 724/94, l. 662/96, l. 449/97). In particolare con la l. 724/94 si stabilisce la definitiva chiusura entro il 31.12.1996.

Chiude l’Ospedale Psichiatrico di Savonera.

Tuttavia, le leggi 180 e 833 non toccano l'organizzazione e l'esistenza dei "manicomi giudiziari", e il più delle volte non sono applicate se non in minima parte. La legge si presenta così all’atto pratico superficiale, e lo stesso Basaglia la dichiara “una legge di compromesso, che non è la liberazione dei matti, così come l’aborto non è la liberazione delle donne”. 

A parte alcune isole felici, l'applicazione è affondata nell'improvvisazione, nel tragico abbandono, senza alcuna opera di reinserimento degli ex pazienti.  Il risultato è stato un danno gravissimo: dopo il 1980, in Italia, ben 80mila soggetti avrebbero lasciato i manicomi. Un terzo di essi sarebbe deceduto, mentre gli altri sarebbero finiti quasi tutti in altre strutture: comunità terapeutiche o riabilitative, in RSA, in istituzioni geriatriche o, ancora, in strutture private. Il testo di legge di riforma sanitaria stabilisce il divieto non solo di costruire nuovi ospedali psichiatrici e di utilizzare quelli esistenti come divisioni specialistiche, ma anche di istituire negli Ospedali generali "divisioni e sezioni psichiatriche". Infatti, la legge prevede che  “i trattamenti sanitari obbligatori" relativi ai malati di mente, potranno essere effettuati, in alternativa all'ospedale pubblico generale, nelle “strutture ospedaliere convenzionate”, cioè private. Di fatto l'ospedale pubblico generale, in assenza di divisioni o sezioni psichiatriche, non potrà certamente gestire i ricoveri dei malati di mente per i quali l'autorità sanitaria (e non più l’autorità di pubblica sicurezza) ordinerà in futuro “i trattamenti sanitari obbligatori". Luciano15 sottolinea come solo queste ultime strutture saranno capaci, in concreto, sia a breve che a medio termine, di costituire l'alternativa allo svuotamento dei manicomi pubblici classici, che l’attuazione dell'art. 30 comporta. Verrà in tal modo confermata, a livello nazionale, la linea di tendenza della Provincia di Torino e presente, verosimilmente, nella gran maggioranza delle altre Province italiane: un progressivo spostamento dell'asse di intervento psichiatrico ospedaliero dalle strutture pubbliche di ricovero a quelle private. Avverrà così che il malato di mente cacciato, in omaggio alla moda della "depsichiatrizzazione", dai manicomi pubblici, sarà di fatto emarginato “nelle strutture ospedaliere convenzionate”. Un’altra prova della politica gattopardesca della psichiatria italiana, nella quale le contraddizioni più palesi vengono affrontate non già individuandone le cause al fine di eliminarle, ma sostituendole con delle contraddizioni meno vistose e più moderne. Scrive Luciano: “Nel panorama del futuro sistema sanitario italiano parrebbe quindi profilarsi una nuova organizzazione psichiatrica di gestione e controllo degli "infermi di mente" che, non più fondata sui Manicomi tradizionali, privilegia tra i propri strumenti operativi le strutture ospedaliere convenzionate, i sussidi di assistenza e gli psicofarmaci. Come i Manicomi, durante la rivoluzione francese, anche la nuova istituzione psichiatrica nasce all'insegna della liberazione dei malati di mente. Se, con la rivoluzione francese, i malati di mente, “liberati" dalle case d'internamento, furono reclusi nei Manicomi, appare probabile che essi, con la nuova istituzione psichiatrica, deospedalizzati dai Manicomi, verranno prevalentemente "ospitati" nelle strutture ospedaliere convenzionate16.

Tuttavia, i ricoveri coatti, già a partire dallo stesso ’78, iniziano a crollare, sia per le famiglie, che abbandonano il matto con meno facilità, sia per gli psichiatri, più restii a praticarli. In qualche modo, quindi, la legge funzionava: si era incrinato il concetto di pericolosità del malato mentale.    

Si pone intanto il problema dell'assistenza agli ex ricoverati in Ospedale Psichiatrico, il cui dibattito nel corso degli anni è condizionato dal conflitto tra chi ripropone una gestione di tipo ospedaliero e chi propone una gestione fondata sull'apertura di Comunità-alloggio con finalità risocializzanti e riabilitative, gestite in modo non istituzionale. 

La chiusura delle varie sedi ospedaliere è resa possibile dalla costante riduzione del numero dei degenti, che nel corso degli anni ha avuto il seguente andamento:

 

1968: 4.633           1972: 3.385             1976: 2.684

1969: 4.508           1973: 3.037             1977: 2.492

1970: 4.054           1974: 2.937             1978: 2.176

1971: 3.634           1975: 2.834             1979: 1.710

5. Il ruolo degli infermieri dopo  la Legge 180

Il processo di trasformazione istituzionale fu complesso e difficile, avvenne tra molteplici conflitti interni, in particolare tra gli infermieri che non si sentivano tutelati nel loro nuovo posto di lavoro e facevano fatica ad abbandonare il tradizionale ruolo di "custodi" per assumere o esprimere le potenziali capacità assistenziali nei nuovi processi di cura e riabilitazione. Se spesso gli infermieri sono andati al traino di questi grandi avvenimenti, o addirittura vi hanno opposto resistenza, altre volte sono stati in grado di associarsi e promuovere un nuovo modo di intendere il rapporto con la follia, rifiutando fermamente il loro ruolo di custodi. All’epoca, quelli che si rendevano    protagonisti di quelle lotte venivano considerati operatori “pazzi” dalla logica corrente, perché ritenevano il loro lavoro un impegno politico oltre che tecnico. Una volta rifiutata la delega di carcerieri, si sono assunti l’incarico di dimostrare concretamente ciò che erano la psichiatria e il manicomio: un sistema di difesa della società che serviva essenzialmente a definire, codificare, smistare, segregare il disturbo sociale e dove la cura esisteva solo come alibi. Credevano fermamente che la liberazione dei loro utenti corrispondesse alla loro liberazione come carcerieri. D’altro canto, altri infermieri trovavano serie difficoltà ad abbandonare il loro vecchio ruolo e il tipo di rapporto che avevano con i ricoverati, e per questo rappresentarono una forte resistenza al cambiamento. Di loro F.Basaglia parlava in modo condiviso da molti fautori delle contestazioni antistituzionali degli anni Settanta:l’infermiere, pur appartenendo alla stessa classe sociale dell’internato che custodisce, difficilmente lotta per la libertà del malato. Nella condizione asilare si trova ad identificarsi totalmente nel ruolo di custode e carceriere che gli viene imposto, tanto da non riuscire più a vedere in che cosa consista lo schieramento di classe in una situazione in cui tutto è confuso tra custodia e cura, fra responsabilità giuridica e rischio personale, fra subordinazione al medico come detentore della salute e una malattia di cui l’infermiere –esattamente come il medico- capisce i parametri solo in base a un comportamento più o meno tollerato dall’organizzazione ospedaliera”                    

Anche dopo la Legge 180, rimase per gli infermieri l’obbligo della vigilanza. Non bisognava solo curare ma anche custodire per l’incolumità e la salvaguardia del paziente e degli altri degenti, nonostante il termine "pericolosità" fosse stato abolito e ricondotto alle più svariate situazioni sulle quali si esercita abitualmente la competenza dell'ordine pubblico. Forse per comodità della classe psichiatrica, si preferì mantenere quello stigma che inquadrava ancora l’infermiere nel suo trascorso storico di custode. Comunque, da una pura e semplice competenza di custodia e di segregazione, si era passati attraverso il periodo della deistituzionalizzazione, all’apertura dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura.

Nei nuovi posti di lavoro, avendo ruolo ancora indefinito in termini di mansioni, l’infermiere era colui che sopperiva alle carenze del servizio e svolgeva ruoli e funzioni inferiori alle sue reali competenze, come quella degli amministrativi, degli autisti, dei portinai-custodi delle chiavi dei servizi, dei servitori delle altre figure professionali o, tuttalpiù e ancor più grave, l’infermiere più emergente e scaltro era colui che imitava goffamente il medico. Ecco che allora gli operatori cominciarono ad appellarsi alle leggi e successivamente al mansionario che poco esplicitava i compiti in ambito psichiatrico. Il mansionario era l'unico documento a loro tutela contro ogni abuso di mansioni inferiori, ma allo stesso tempo li castrava nel movimento espressivo della crescita professionale. 

Con il tempo l’infermiere è riuscito ad appropriarsi di ampi spazi di autonomia, e da una funzione di stampo custodialistico è transitato ad una di collaborazione e pianificazione dell'assistenza, pur non avendo cancellato definitivamente quello stigma che ogni tanto affiora e che li pose sempre in una posizione di difesa. In passato lo psichiatra era unicamente la figura che si poneva al centro del processo terapeutico, decideva e operava servendosi del supporto delle varie figure sanitarie. Sino al decreto del 1994, c’era una tacita condivisione sull’erogazione dell’assistenza che definiva l’operatore psichiatrico un operatore unico, senza distinzione di ruoli.

Con il Decreto Ministeriale 739/94 sul profilo professionale dell’infermiere, si ha l’occasione di uscire dagli schemi rigidi del mansionario, tipico dell’organizzazione manicomiale, e viene formalizzata la collocazione dell’infermiere nell’équipe.

L'operato degli infermieri in psichiatria si espleta in differenti luoghi e aree di intervento, sia istituzionali che sociali (SPDC, Centri di Salute Mentale, Centri Diurni, Comunità Terapeutiche, gruppi appartamento, domicilio del paziente, luoghi del sociale, istituzioni non psichiatriche, in aree formative, preventive, imprenditoriali, al mondo del cooperativismo, laboratori d'arte, alle sfere socio-culturali e transculturali). Oggi la presa in carico è dell’équipe che, in maniera globale, crea una rete di interventi che chiama in gioco altre figure e persone esterne. Ci si proietta, quindi, a un modo di "prendersi cura" più articolato e completo.

Si potrebbe dire che l'infermiere svolge un ruolo di mediatore tra la psichiatria e la comunità che deve accogliere, tra il paziente e il mondo al quale egli quotidianamente si relaziona. 

6. Il progetto handicappati

La progressiva chiusura dei reparti psichiatrici e la necessità di trovare soluzioni alternative a questo tipo di istituzione avevano improvvisamente messo in luce una caratteristica peculiare della popolazione manicomiale italiana: parte di essa era costituita da persone affette da handicap fisico o psico-fisico, da ritardo mentale o da altre condizioni di disagio non direttamente psichiatrico. A.Pirella, allora Sovrintendente agli OO.PP. di Torino, scrisse che per evitare di riprodurre le situazioni  di  emarginazione e di stigmatizzazione in cui spesso si trovano tali categorie di  soggetti, il progetto di superamento avrebbe dovuto porsi in opposizione alla costituzione di reparti speciali per handicappati e per anziani19Queste due popolazioni costituivano infatti la maggior  parte  dei cosiddetti lungodegenti. L'interesse formale per gli utenti portatori di handicap gravi comparse a partire dal l980, quando vennero presentati i risultati di un’ indagine condotta nei reparti dei due OO.PP., Collegno e Grugliasco. Quell'indagine condusse a rilevare un numero di 190 portatori di handicap lungo-degenti, di cui l26 uomini e 64 donne, per i quali si iniziò a pensare un percorso e modello complessivo di uscita dai reparti attraverso la costituzione di progetti di Comunità-alloggio. Pirella sottolineava l'istituzionalizzazione precoce e lunga che avevano subito questi  soggetti vissuti per decenni in situazioni di promiscuità, repressione e segregazione. E’ evidente come questa situazione abbia reso ancora più difficile  il  processo  di  deistituzionalizzazione psichiatrica previsto dalla legge, poiché non era ipotizzabile per la stragrande maggioranza di questi pazienti, spesso giunti all'istituzione in giovanissima età, un rientro in famiglia o  presso parenti,  e  nel contempo  risultava  molto difficile  prevedere  degli ambienti sufficientemente protetti e che d'altra parte costituissero una reale alternativa all' ospedale psichiatrico.

Nel maggio del 1980 venne aperta la prima Comunità handicappati all'interno dell'Ospedale  Psichiatrico, presso il reparto 6 delle Ville Regina Margherita, con la collaborazione della Provincia di Torino, con cui si era concordato di affiancare ai sei infermieri un altro tipo di operatore:  l'educatore. Per la prima volta entrava in O.P. una figura professionale già da anni utilizzata  in  vari servizi pubblici per la riabilitazione e risocializzazione degli handicappati.  La Comunità accoglieva otto  ragazzi handicappati psichici di età tra i  20 ed i 30 anni; vi operavano tre educatori della Provincia, presenti tre volte alla  settimana, oltre a sei infermieri, di cui due donne, e due medici. 

La  Comunità  era sorta per due esigenze  fondamentali:  da un lato per un gruppo di genitori che richiedevano per i loro figli una collocazione più  adeguata, dall'altro per dare una risposta più  corretta  e  personalizzata  ai  bisogni  di questi handicappati con lo scopo di poterli reinserire all'esterno. 

L'esperienza condotta da questa prima équipe condusse essenzialmente a dimostrare la fattibilità dell'ipotesi e concorse ad individuare due problemi di fondo: da un lato la gestione ancora troppo legata ai tempi dell'ospedale (i pasti erano garantiti con precotti da mense convenzionate, la lavanderia, il guardaroba, le attrezzature venivano anch’essi forniti dall' USSL 24 ) e dall'altro la necessità di un più elevato numero di operatori. Lo sviluppo di questa prima esperienza si evidenziò l'anno successivo, il 1983, quando iniziò il coinvolgimento di tre cooperative di servizi sociali, “Il Margine”, “Il Sogno di una cosa” e “Loisir”, nella gestione di quello che si costituì come "Progetto Handicappati"dell'USSL24. Questo interessò in una prima fase gruppi di utenti provenienti da Collegno (reparti 1-5-6 ) e Grugliasco ( reparti A2- B4).

Nel mandato originario che troviamo nelle prime delibere le sei comunità erano viste quindi non solo come progetto di condizione di vita migliore per gli ospiti, per il recupero  delle loro abilità di autonomia e delle potenzialità e dei percorsi di risocializzazione, ma anche come attivo strumento per il superamento dell'O.P.. Tra il 1982 ed il l984 si passò in sostanza da un primo tentativo di sperimentazione gestito con operatori pubblici, a collaborazioni con Cooperative di servizi sociali e, fattore fondamentale, alla loro graduale autonomizzazione dall'USSL 24, sia per quanto riguarda gli aspetti gestionali, che per gli sviluppi logistici delle comunità. L'USSL 24 con  un iter deliberativo fecondo, che trova il punto culminante nel "Capitolato Speciale" del 1987, demandò la gestione del Progetto alle Cooperative mentre conservò il supporto tecnico e la verifica ad un ambito pubblico, attraverso la strutturazione di una interessante commissione Tecnico-amministrativa. Questa commissione era composta dal Referente Tecnico deI progetto handicappati, da due collaboratori Educatori Professionali, dal Referente Amministrativo, dallo Psicologo, dall'Assistente Sociale, da uno psichiatra consulente delle Comunità e da un rappresentante dei parenti degli ospiti. La Commissione interagisce con le Cooperative non solo come strumento di controllo, ma soprattutto come strumento di lavoro e verifica progettuale; propone ogni suggerimento atto allo sviluppo del Progetto ed alla realizzazione dello stesso, nell'ottica dell'obbiettivo generale di superamento dell'Ospedale Psichiatrico.

VIII. 

Il Centro Sociale Basaglia ed il privato sociale

1. Gli anni Ottanta 

 

Nel 1980 gli Ospedali di Collegno e di Ville Regina Margherita vennero unificati con la denominazione "Ospedale di Collegno".

Iniziò il lungo percorso di trasformazione di quest’area da luogo di segregazione a spazio aperto per la città: l’ex manicomio divenne Parco cittadino e nel luglio del 1980, nel “vascone”, si svolse la prima edizione dei “Punti Verdi”. Gli spazi dell'ex ospedale psichiatrico diventarono sempre di più parte della città. 

Nel piano socio-sanitario del 1982/83  la Regione Piemonte elaborò progetti speciali che porteranno a un cambiamento di tipo burocratico-amministrativo: i reparti vennero trasformati in comunità e i ricoverati diventarono ospiti. Così, la sede di Grugliasco verrà chiusa nell’’84, ma solo formalmente: da quel momento i pazienti risultano “ospiti” della struttura, sempre la stessa, ora trasformata in comunità. Gli spazi utilizzati erano per lo più gli stessi, il personale anche, ma era nata una nuova consapevolezza: quella del diritto del malato a reinserirsi nella vita sociale, ad avere una casa e un lavoro. Ancora, quindi, il legislatore si era limitato ad operare cambiamenti solo sulla carta, e dovettero essere di nuovo gli operatori e i medici più politicizzati e con una ferma volontà di migliorare le condizioni di vita dei degenti a impegnarsi in progetti concreti di superamento della situazione manicomiale. 

Gli anni Ottanta furono segnati da continui dibattiti sulla riforma psichiatrica, sia in Parlamento sia sui mass media, e videro la nascita di un nuovo protagonista: le associazioni di familiari. Molto aggressive e determinate, esse sostenevano inizialmente che la legge non poteva essere applicata e per questo bisognava tornare indietro. Solo con il tempo cambiarono il loro atteggiamento e cominciarono con forza a chiedere l’applicazione in pieno della riforma, anziché il suo affossamento.

In questo primo periodo si rese molto utile e prezioso l’operato di associazioni senza scopo di lucro e cooperative sociali che andarono a coprire il vuoto creato dalle leggi circa il superamento dell’O.P., occupandosi principalmente della riabilitazione dei degenti e di progetti volti all’integrazione sociale, attraverso il conseguimento di strutture abitative e  l’avviamento al lavoro.     

L'inserimento degli “ospiti” in specifiche attività riabilitative e terapeutiche, attivate sul finire degli anni Settanta, sia all'interno della comunità che nell'ambito di laboratori e di strutture territoriali esterni ad essa, ha consentito il recupero e lo sviluppo di abilità, autonomie, capacità relazionali e cognitive latenti. Lo strumento "casa" ha consentito inoltre un coinvolgimento degli utenti nelle attività di tipo più domestico (preparazione dei pasti, pulizie, etc.) e nella possibilità di potersi prendere "cura di sé". Verso la metà degli anni Ottanta ebbe inizio un periodo di stallo molto consistente nel processo di superamento dell'O.P., fino ad allora piuttosto vivace, che aveva portato alla chiusura di molti reparti  ed all'apertura di molte comunità nell’area socio‑sanitaria. Sia i reparti che le comunità, in quel periodo, furono disinvestiti di ogni progetto per cui ogni strada per il superamento sembrava bloccata. La strada percorsa si era limitata al fatto di togliere dai reparti le persone più autonome ed inserirle in comunità: mancava totalmente la tappa successiva, cioè l'inserimento di queste persone e di queste comunità sul territorio. Da allora in poi, non solo i reparti ma anche le comunità non riuscivano a immaginare situazioni diverse e slegate dall'O.P.. Le dinamiche messe in moto dalla deistituzionalizzazione hanno avuto ritmi lenti e la nascita di alternative al reparto seguì un proprio percorso, che necessitava tempo, compromessi e soprattutto sperimentazioni che riuscissero a produrre risultati positivi.  Il superamento, inoltre, andava costruito su misura per quell’utenza eterogenea che era stata lentamente inghiottita dagli OO.PP., e che, per la prima volta dopo anni di assoluto isolamento dal mondo, veniva chiamata a misurarsi con l’esterno. 

In questo periodo, quindi, gli operatori si videro impegnati sostanzialmente nel tentativo di stemperare le situazioni conflittuali che inevitabilmente vennero a crearsi tra situazioni di sperimentazione e i “residui” dell’istituzione manicomiale, i vecchi reparti, in fase sì di smantellamento, ma ancora unico riferimento e cornice residenziale per la maggior parte degli utenti. Questi elementi involutivi rappresentarono un blocco delle prospettive di cambiamento delle condizioni di vita per gli utenti ancora residenti nell’area ex manicomiale.

Inoltre, nel tentativo di combattere la cosiddetta residualità e cronicizzazione, gli operatori si scontrarono con l’esistenza drammatica di degenti gravi e gravissimi, con una forte presenza di handicappati, irrimediabilmente danneggiati da tanti anni in O.P.. Alle gravi condizioni di disagio psichico si associò, sul finire degli anni ’80, il raggiungimento dell’età senile da parte di molti ricoverati, che rese problematica la messa a punto di percorsi di uscita.   

E’ qui da notare un importante problema apparso durante il processo di deistituzionalizzazione, che si rese ancora più urgente negli anni Novanta: parte della popolazione aveva dai trenta ai settanta anni di residenza nell’O.P. di Collegno, e aveva quindi perso ogni legame con i luoghi d’origine o comunque con il modo esterno. I loro unici legami, la loro stessa esistenza, erano dentro le mura: dividere questi pazienti in base al luogo di nascita per affidarli al Comune significava creare una vera e propria deportazione, con conseguente situazione di abbandono.

 

2. Il ruolo degli educatori

Sul finire degli anni Settanta viene inserita in Psichiatria una figura professionale già operante in altri settori socio-sanitari: l’educatore.

Nel periodo del superamento, all'educatore venne assegnato un ruolo ben determinato, e molto vicino alle persone ancora situate all’interno dell’O.P.. Venne investito della funzione di aiutare gli ultimi ricoverati a ristabilire i legami col mondo esterno, superare la rigida struttura della vita manicomiale, nel tentativo di recuperare le abilità sociali che la lunga degenza nell'istituzione aveva gravemente danneggiato. Per realizzare questi obiettivi, gli educatori proposero che venisse loro affidata la gestione di una comunità diurna, affinché il gruppo dei degenti di un reparto potesse vivere l'intera giornata all'esterno della sezione, nella convinzione che il luogo elettivo in cui realizzare una serie di attività riabilitative e risocializzanti si potesse configurare solo al di fuori della routine del reparto. 

Nell’‘85 si costituì così una Unità Terapeutica Diurna nell'ambito dell'Ospedale psichiatrico di Collegno, per lo svolgimento di attività da parte di un gruppo di nove educatori per l'inserimento in una comunità di nove pazienti del reparto 3/18. Si insisteva sul compito istituzionale di questo servizio, inteso come strumento di superamento dell'istituzione manicomiale e quindi di superamento dei reparti, con l'inserimento dei degenti in situazioni di comunità, effettuando un servizio di “passaggio" in preparazione alla vita in comunità. Per questo motivo si fece strada l'idea che l'U.T.D. non dovesse essere più considerata un servizio di un reparto, ma che potesse disporre di una più larga autonomia, occupandosi anche di utenti provenienti anche da altri reparti e di utenti già inseriti nelle comunità, con i quali sarebbe stato impensabile far loro troncare vecchi rapporti. Concetto fondamentale era che l'U.T.D. si costituisse come un servizio con lo scopo di preparare gli utenti alla vita in comunità o comunque in strutture alternative al vecchio reparto psichiatrico: in questo senso avrebbe dovuto configurarsi, attraverso lavori di risocializzazione e riabilitazione, come una struttura diversa dalle altre esistenti, una sorta di Day‑hospital, sempre con l'obiettivo di superare i reparti medesimi attraverso l'inserimento degli utenti in strutture comunitarie. 

Purtroppo gli educatori si scontrarono con una realtà molto frustrante, già vissuta agli inizi della loro attività in reparto: alla paralizzante passività, all'immobilismo e all'appiattimento della vita in reparto, si sostituì la medesima situazione a livello di area socio‑sanitaria, altrettanto rigida e sclerotizzata. La frustrazione degli educatori nasceva dall’impossibilità di sistemare quegli utenti che già avrebbero potuto vivere in comunità, per cui, mentre da una parte esisteva la difficoltà ad operare dimissioni, dall'altra si assisteva alla impossibilità di reperire posti nelle comunità dell'area. Il risultato fu che, pur essendo i degenti pronti a trasferirsi dal reparto alla comunità, il reparto non voleva dimetterli e la comunità non voleva accettarli. 

E mentre gli educatori continuavano a lavorare con i pazienti insegnando loro la gestione del quotidiano (attività relative all'alimentazione, all'igiene e cura della persona, all'utilizzo del denaro), attuando interventi di tipo occupazionale con attività riabilitative libere o programmate, accumulavano ed esprimevano sentimenti di delusione, impotenza e solitudine di fronte alla impasse in cui erano venuti a trovarsi. Arrivarono quindi al punto di dichiarare che il loro impegno non poteva essere svolto senza il coinvolgimento di altre figure professionali, che collaborassero con l'educatore nella realizzazione dei vari livelli di programmazione, attuazione, coordinamento e supervisione del lavoro svolto.

L'Unità Terapeutica Diurna doveva consistere nel lavoro di un gruppo di educatori che seguissero delle persone con dei progetti precisi, chiaramente formulati e concordati con i medici dei reparti. Infatti, dalla fine del 1987, la responsabilità del servizio era stata affidata allo psicologo dott. Giorgio Tribbioli. 

3. Il Centro Sociale Basaglia

Nell’’82 presso l'Ospedale “Ville Regina Margherita” venne costituito dal dottor G.Tribbioli, psicologo, il primo Centro Sociale nei locali del pian terreno dell'ex reparto 7. Le attività risocializzanti del Centro, tra cui una scuola elementare statale per adulti, un atelier di arte-terapia e molte altre iniziative, confluiranno nel Centro Sociale Basaglia, aperto alcuni anni dopo. Infatti, il vecchio Centro Sociale, che era fondamentalmente un bar, doveva chiudere, e si rischiava di perdere uno dei primi segni tangibili del cambiamento che spingeva finalmente verso il definitivo superamento del manicomio. La allora USSL 24 di Collegno e Grugliasco, lo affidò quindi alla Cooperativa Il Margine, per tre mesi, con l’obiettivo di costruire un Centro Sociale dove operatori professionali, senza alcuna qualifica medico-sanitaria, potessero stimolare la risocializzazione degli utenti, maturando con loro rapporti lontani e avulsi dalle dinamiche terapeutiche ospedaliere. Il progetto fu avviato con lo scopo di offrire agli ospiti delle comunità dell’area socio-sanitaria di Collegno strumenti e risorse atti a facilitare percorsi di recupero e riabilitazione. 

Nell’83 si liberarono due stanze lungo il porticato del chiostro della Certosa, subito occupate dal Centro che riaprì con un altro nome: il Centro Sociale Basaglia. Il C.S.B. rappresentava, quindi, nelle intenzioni degli amministratori dell’USSL 24, un tassello nell’attuazione della legge 180, per la costituzione di percorsi di uscita per le persone che ancora risiedevano nei reparti e nelle aree socio-sanitarie degli ospedali o degli ex ospedali psichiatrici. Si trattava di dare una risposta alle esigenze di risocializzazione che la vita di reparto aveva inibito, tentando di fornire gli strumenti per la ricostruzione della propria identità personale attraverso la stimolazione della conoscenza reciproca tra operatore e utente.  

“Il Centro sociale ebbe come mandato quello di intervenire in una situazione di stagnazione. In quegli anni si veniva esaurendo la spinta evolutiva generata dal grosso movimento di riforma.(..)Merito del CSB fu quello di rompere una tradizione imperante da anni: guardare ai degenti come ad un’entità statica, immodificata e immodificabile”. Queste le parole di Cardaci, durante il “Seminario sul periodo 1983-1990”, allora uno dei tre coordinatori del Centro. Oltre all’attività di animazione e laboratori, come quello di fotografia condotto da Sut, e quello di ceramica con Baggiani, il Centro espresse la volontà di costituirsi come polo di informazione e diffusione di ciò che riguarda la problematica del processo di deistituzionalizzazione in corso a Collegno e Grugliasco. Quindi, si possono delineare due linee d’intervento: una intra-istituzionale, e l’altra di collaborazione con tutte le forme associative ed istituzionali territoriali, cioè esterne.   

 a)1984-1986 Sono i primi anni di attività, quindi anni di passaggio, dove si delineano e si preparano alcuni importanti progetti, che prenderanno il volo solo con il 1987.

Emblematica è l’esperienza della creazione di un laboratorio polivalente, all’interno dei locali del Centro, per la realizzazione di strutture sceniche per la festa di primavera. Nella relazione consuntiva di quegli anni si legge: “L’utilizzazione dei laboratori da parte degli utenti consentì intensi momenti di risocializzazione, oltre costruire un’opportunità di affinare capacità di tipo motorio, relazionale, di manualità, (..)”. Tuttavia non si poté andare oltre nella programmazione di percorsi di uscita, nonostante i progressi ottenuti, sia per la resistenza di un’organizzazione statica come quella del reparto a qualsiasi cambiamento, sia per la mancanza di strutture residenziali idonee ad ospitare gli utenti individuati come possibili fruitori di nuovi spazi abitativi. Così gli utenti impiegati in questo progetto vennero riassorbiti dal reparto, con profonda frustrazione sia per loro che per gli operatori.

Nell’’85 il numero degli operatori salì a 5, con l’arrivo di due donne: Russotto, che iniziò un laboratorio di pittura, e Costantino, che si occupò della tessitura di stoffe. 

I laboratori hanno sempre segnato la storia e le attività del CSB, con la funzione di porsi in una posizione di rottura verso la ritualità sperimentata per anni nei reparti, e permettendo all’utente di smettere di essere “uno fra molti” per cominciare a riconoscersi come persona in gradi di esprimere interessi, preferenze, bisogni propri. I segni più evidenti della lungodegenza erano infatti proprio la quasi totale assenza di autonomia e l’incapacità di relazionarsi, aggravati da un livello di inibizione sulle generali capacità individuali molto elevato. I laboratori permettevano di concentrarsi sulla parte sana, offrendo il vantaggio di sostituire il ruolo di degente con quello di vero utente di un servizio.  

Un’iniziativa che si distinse per l’originalità e per le profonde ripercussioni sui degenti fu rappresentata dalle feste di compleanno, organizzate dal Centro a scadenza mensile in ogni reparto, come stimolo a superare la spersonalizzazione tipica della logica manicomiale. Si riprende contatto con la propria storia, col proprio passato lontano dall’OP.

L’ex reparto 6 venne proposto come struttura abitativa per i degenti coinvolti nei laboratori del Basaglia; il CSB pretese che venisse garantito il successivo passaggio in comunità per chi avesse posseduto le necessarie potenzialità per una vita autonoma. E’ qui che iniziò il suo ruolo più importante, nella collaborazione con le strutture dell’USSL deputate a trovare soluzioni abitative alternative ai reparti, “una spina nel fianco per le istituzioni”, come ha osservato il dottor Beccati in un articolo sul Nuovo Ippodrillo. Già nell’86, sono 150 gli utenti, provenienti da tutti i reparti ancora attivi nell’ex OP di Collegno, che attraverso i laboratori del Centro hanno potuto interagire con realtà diverse. 

b)1987: Capitolato Speciale per l’attuazione dei programmi del CSB

Con il Capitolato Speciale il CSB si configurò in primo luogo come progetto, che significava essere riconosciuto come un servizio a tutti gli effetti, affiancato all’USSL 24, e non più come un contenitore di percorsi alternativi.

L’articolo 2 cita la sua “doppia funzione di appoggio all’utenza e di attivazione di strumenti e risorse per facilitare percorsi di recupero e di riabilitazione di soggetti disabili”.

Quindi, si dotò di un metodo di lavoro strutturato già in partenza, che può essere riassunto in: 

1.   interessare l’utenza con gravi problemi nella socializzazione e nella cura di sé;

2.  progettare percorsi individuali aventi traguardi concreti come una progressiva autonomia;

3.  proporre alternative alla vita di reparto senza imporle.

Il lavoro si sviluppò su due livelli: uno di microprogettualità, con obiettivi parziali per i singoli utenti, con una prevalenza di aspetti tecnici e idattici, e l’altro di progettualità globale, attraverso il coordinamento tra le diverse forze che agiscono sul territorio mirato alla mobilità dell’utente, con lo scopo di migliorare la qualità della vita dello stesso. 

4. Le cooperative

Le realtà no profit, cioè la cooperazione sociale e, più in generale, l’associazionismo di promozione sociale, vantano nell’area di Collegno una presenza capillare e un radicamento “storico”. Alcune delle maggiori cooperative sociali che operano oggi nella più vasta area metropolitana, sono nate proprio su questo territorio, spesso all’interno o attorno alla struttura dell’ex O.P., sulla spinta, anche politica e ideale, di una nuova idea di cittadinanza attiva. 

La cooperativa, sin dagli inizi, si era mostrata lo strumento più idoneo per operare in questo settore, perché si poteva lavorare tutti insieme, rendendo più sfumata la divisione tra utenti e operatori, in contrapposizione alle rigide vita manicomiale. L'essere cooperativa sociale implica la ricerca delle migliori condizioni di lavoro per i soci che operano all'interno dell'organizzazione: tutela del posto di lavoro, di condizioni retributive, crescita professionale, formazione, buon clima di lavoro all'interno dei servizi. Questo è il valore che faceva, e fa tuttora, credere nelle cooperative, anche se ci sono da sempre altre che sfruttano e che non fanno alcun riferimento allo spirito di cooperazione. 

La scelta della cooperativa sociale si deve ad alcune caratteristiche difficilmente ripetibili in altre organizzazioni, quali:

- la piccola dimensione che la caratterizza per la democrazia partecipativa interna;- il collegamento con il territorio in simbiosi con la comunità locale in cui opera e la sua stretta vicinanza al mondo del volontariato visto come elemento di unione tra la cooperativa e la stessa comunità evitando così il rischio della ghettizzazione; 

- il coinvolgimento diretto degli operatori non considerati dipendenti ma in qualità di soci, protagonisti della vita societaria e perciò motivati alla efficace realizzazione del servizio; 

- il coinvolgimento come risorsa dell'utenza stessa e delle famiglie in un progetto comune anche se con ruoli diversi che li considera in primo luogo clienti;- la non burocratizzazione dell'organizzazione che permette un'elasticità operativa indispensabile in un progetto dinamico;

- l'utilizzo di risorse economiche provenienti dal mercato e destinate a fini sociali.

Rispetto alle politiche sociali la cooperazione sociale ha assunto un  ruolo duplice: da una parte impegnarsi a dar vita a servizi sociali sia in ambiti dove i servizi pubblici erano inesistenti o carenti, sia adottando modalità organizzative e forme di intervento diverse da quelle dei servizi pubblici. Dall’altra, gestire su richiesta di enti pubblici servizi legati alla cooperazione sociale, soprattutto quelli che richiedevano un'organizzazione molto flessibile o ad elevato contenuto relazionale.

La legge 381/91, inoltre, riconosce una forma di cooperazione radicalmente diversa da quella tradizionale. Mentre infatti quest'ultima è finalizzata alla tutela degli interessi dei soci, la cooperazione sociale si caratterizza per "lo scopo di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini". Con questa affermazione la legge disciplina una nuova forma di impresa, con esclusivi fini solidaristici, di interessi generali, gestita in forma cooperativa, riconoscendo l'esistenza di un soggetto privato. Questi, in quanto imprenditore, è dedito alla produzione ed allo scambio di beni e servizi, ma non tanto per realizzare un proprio interesse, quanto in funzione di uno scopo più generale rappresentato da un interesse diffuso nella comunità. Si tratta dunque di una finalità solidaristica, orientata all'esterno della compagine sociale, finalità che diventa uno degli elementi caratteristici e distintivi della cooperazione sociale.

La legge 381/91 istituisce anche una specie particolare di cooperativa sociale, finalizzata all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate. 

Andrò ora ad illustrare brevemente l’operato di due cooperative, impegnate sin dagli inizi nel processo di deistituzionalizzazione nell’area di Collegno. Si distinguono per le diverse finalità che si sono prefisse, e che tuttora perseguono:  la Nuova Cooperativa si occupa principalmente di fornire lavoro all’esterno, il Margine sistemazioni abitative; entrambe promuovono importanti percorsi di integrazione sociale.  

 

a)Il Margine

  La Cooperativa sociale Il Margine è nata nel 1979 sulla spinta ideale e sulla volontà di superare forme di segregazione sociale grave come il manicomio psichiatrico, la solitudine delle famiglie al cui interno vivono persone gravemente malate (malattie terminali o malattie croniche), portatori di handicap, disagio socio culturali ed economici. La sua opera è diretta al superamento del disagio dei soggetti più deboli e svantaggiati, delle situazioni al margine.

Dal 1983  la Cooperativa pubblica il giornale Ippodrillo, dal 1989 diventato Nuovo Ippodrillo, dedicato fondamentalmente ai temi attinenti al superamento dell’ospedale psichiatrico. Il giornale è l’espressione del Centro Sociale Basaglia, ed è redatto con la collaborazione degli utenti del Centro stesso.

b) La Nuova Cooperativa

  La Nuova Cooperativa è un'impresa sociale che opera nell'area dell'emarginazione e dell'esclusione dal mondo del lavoro attraverso iniziative di carattere economico.

Nasce nel 1980 come tentativo totalmente innovativo di superamento degli Ospedali Psichiatrici dell'area torinese.

I suoi anni di storia dimostrano come sia stato possibile un reale reinserimento nel tessuto sociale prima degli ex degenti e successivamente di tutte quelle figure appartenenti alla fascia debole del mercato tra cui persone con handicap psichico, fisico, sensoriale, in rapporto con servizi sociali e di salute mentale, oltre che di ex tossicodipendenti, disoccupati di lunga durata, soggetti a bassa scolarizzazione, ultracinquantenni espulsi dal ciclo produttivo. Il reinserimento avviene sia attraverso un lavoro giustamente retribuito, sia attraverso la partecipazione all'esperienza cooperativa come strumento di emancipazione personale che consente di raggiungere una più ampia capacità di contrattualità sociale. 

E' importante sottolineare come  La Nuova Cooperativa sia stata la prima in ambito regionale, ed una delle prime sul territorio nazionale, a sperimentare un'idea di impresa sociale di questo tipo.

A tutt'oggi è la più grande cooperativa sociale di tipo B attiva in Piemonte.

 

IX.

Verso il definitivo superamento dell’O.P.

 

1. Normative per il superamento

Il “Progetto Obiettivo Nazionale per la tutela della salute mentale 1994 – 1996”, approvato con il DPR del 7.4.1994, definì prioritaria la costituzione, all’interno di tutte le ASL, del Dipartimento di salute mentale (DSM), di cui definiva le funzioni, le competenze e l’articolazione in SPDC, Centri di salute mentale (CSM), strutture semiresidenziali pubbliche e private (Centri Diurni e Day Hospital) e strutture residenziali pubbliche e private. Non affrontò in specifico la questione manicomiale, se non fissando, tra gli obiettivi da realizzare nel triennio, la promozione di progetti specifici per il superamento del residuo manicomiale

La legge 724/94 fissò per la prima volta l'obbligo della definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici al 31 dicembre 1996. Si rese necessario, inoltre, vietare l’uso delle aree ex O.P. per la costruzione di nuove soluzioni abitative, fatta eccezione per i pazienti geriatrici e disabili, “ceduti” ai servizi socio-assistenziali.

La legge 662/96, collegata alla Finanziaria del 1997, riconfermò la data del 31.12.1996 come termine ultimo per la chiusura degli OO.PP., e impose alle Regioni di adottare, entro il 31 gennaio 1997, idonei strumenti di pianificazione inerenti la tutela della salute mentale e finalizzati alla effettiva chiusura dei “residui manicomiali” entro l’anno. La legge introduceva una serie di sanzioni rivolte alle Regioni inadempienti, che risultarono essere, in alcuni casi, l’unica spinta verso il percorso del superamento dell’O.P.

Il Ministero della Sanità istituì lo stesso anno l’“Osservatorio per la tutela della salute mentale”, con il compito di verificare l’operato delle varie Regioni.

Inoltre, l'ultima legge finanziaria, che dettava il termine del 31 marzo 1998 per l'attuazione di strutture residenziali, precisava anche il divieto al reimpiego delle aree e degli edifici degli ospedali psichiatrici per attività connesse ai servizi per la tutela della salute mentale, contrariamente a quanto stava accadendo in alcune aree. 

In molte realtà regionali italiane si sono operate “false chiusure” che di fatto cambiarono solo il nome dell'ospedale psichiatrico, ovvero “chiusure amministrative”. Pur trasferendo i pazienti al di fuori delle strutture dell'ex ospedale psichiatrico, non hanno modificato nella sostanza i livelli di assistenza, determinando quindi una vera e propria mistificazione che, in nome del cambiamento, continuava a perpetuare un approccio istituzionalista e custodialista del trattamento psichiatrico.

Il non aver previsto alcuna forma di finanziamento specifica per la costituzione di strutture residenziali destinate ai pazienti degenti nelle strutture manicomiali, ha creato obiettive difficoltà che non hanno trovato soluzione nella prevista alienazione dei beni immobili relativi agli ex ospedali psichiatrici, anche perché spesso tali strutture erano gravate da vincoli di varia natura.

Le dimissioni si sono spesso tradotte con lo “scaricare” i pazienti ad altre strutture, spesso con forte connotazione istituzionale, senza seriamente agire in base ad un percorso individuale, o agendo in base a progetti non rispondenti alle singole esigenze, compilati da operatori che non conoscono il “caso” in modo approfondito, ma che sentono l’urgenza di avvicinarsi il più rapidamente possibile all’obiettivo dello sfollamento delle aree ex O.P.

2. Gli anni Novanta e la definitiva chiusura dell’ex OO.PP. di Collegno e Grugliasco

Nei primi anni Novanta venne istituito a Collegno un "Centro di ascolto e di appoggio psicoterapeutico" per gli ospiti delle varie comunità, i loro familiari, il personale ed i volontari. Venne potenziata l'attività del Centro Sociale Basaglia e aperti un Centro d'incontro e un bar. Inoltre furono soppressi gli ultimi quattro reparti in cui erano ancora ricoverate un centinaio di persone di età superiore ai 60 anni, tutte collocate in Comunità terapeutiche. 

Dopo aver raggiunto il culmine negli anni ’80, il numero dei dimessi attraversava negli anni ’90 un periodo di stasi, e i pazienti nella Certosa erano ancora 600. I problemi da risolvere erano sempre gli stessi: la ristrettezza delle risorse, l’assenza di locali adeguati, la difficoltà nello strutturare interventi che non fossero in posizione concorrenziale rispetto al lavoro dell’USSL, ma complementari e di supporto.

Nel ’93 la trasformazione fu solo di tipo amministrativo, e i reparti, gli stessi di sempre, diventarono comunità e residenze. L’affermarsi delle associazioni senza scopo di lucro e di cooperative sociali ha aiutato gli ospiti a vivere le comunità come “casa propria”, e a riprendere diritti smarriti. La legge 180, infatti, proibiva rientri e nuovi ricoveri, ma non aboliva i manicomi; solo la legge finanziaria del 1996 ne sancì la chiusura, ma neanch’essa fu regolamentata né finanziata correttamente.  

In questi ultimi anni ’90, con l'avvio del Dipartimento di Salute Mentale diretto dal Prof. Furlan, si è imposta fermamente la necessità di superare definitivamente l'Ospedale Psichiatrico di Collegno, con la chiusura delle ultime comunità che ancora esistevano al suo interno, e la contemporanea apertura di strutture di varia tipologia: comunità esterne, alloggi supportati, inserimenti eterofamiliari, ecc.. Nel 1996  la Certosa di Collegno ospitava 359 pazienti e Grugliasco 58, suddivisi in 21 comunità-alloggio e 4 Comunità protette. Tutte le strutture erano gestite dal personale dell’A.S.L.5, dalle Cooperative Sociali e dalle Associazioni di Auotaiuto composte da operatori e utenti. La commissione istituita dall’ASL 5 per la riclassificazione degli ospiti portò alla luce la seguente situazione: 250 pazienti psichiatrici, di esclusiva competenza sanitaria; 119 pazienti geriatrici e 48 portatori di handicap, di esclusiva competenza assistenziale. 

La difficoltà maggiore nell’elaborare progetti individuali di uscita fu quella di trovare un punto d’incontro tra esigenze legislative e personali dell’ospite. Infatti,  la Regione Piemonte , con D.G.R. n.229-23698 del 22/12/97, aveva stabilito che il carico organizzativo e assistenziale relativo alla ricollocazione all’esterno doveva essere ripartito tra le varie A.S.L. in base ad un criterio quantitativo ed oggettivo, ossia l’ultima residenza anagrafica al momento del loro primo ricovero in Ospedale Psichiatrico. Ma spesso altri criteri si dimostravano prevalenti nell’interesse del paziente: la personale situazione clinica o relazionale e famigliare, i legami con i territori di Collegno e Grugliasco, ecc. Spesso erano stati gli stessi “ospiti” a non voler lasciare “casa loro”, che ovviamente tale era diventata dopo tanti anni, dai trenta ai settanta, di permanenza forzata: si ebbero manifestazioni, assemblee, scritte sui muri “contro i medici nazisti venuti da fuori”. L’attenzione ai fattori personali è stato cruciale per evitare quelle deportazioni tanto paventate da tutti ed espressamente citate nei disposti legislativi regionali e nazionali. Per affrontare questi aspetti, si è tenuto conto inizialmente del criterio di provenienza per individuare il numero di soggetti da attribuire alle varie ASL a scopo esclusivamente amministrativo, e per procedere a una valutazione tra gli operatori degli ex OO.PP., i medici e gli psicologi del DSM  5B e del DSM di provenienza. Questa fase, completata nel marzo 1998, ha indotto le varie ASL coinvolte a prendere atto di un “debito istituzionale” relativo al superamento. Esse, in altre parole, si son fatte carico economico ed assistenziale del debito secondo un criterio numerico e non nominativo, permettendo così che si mantenessero aggregazioni di persone omogenee per storia personale o per scelta. 

Il gruppo di lavoro di Collegno e l’ASL 5, pur tra difficoltà e resistenze a tutti i livelli, sono riusciti a fornire alloggi decorosi e comunità dal numero limitato di ospiti, a ristabilire legami con le famiglie di origine o con nuove, disposte  ad accogliere i dimessi come vicini, o talvolta addirittura nella propria casa, e a collaborare con le altre ASL della regione. Nell’ambito della definizione dei progetti individuali, si è stabilito che i pazienti per cui una ricollocazione all’esterno sarebbe risultata intollerabile dal punto di vista clinico, indipendentemente dall’ASL di provenienza, possono diventare ospiti di due comunità protette di tipo A ubicate all’interno del parco adiacente  la Certosa Reale di Collegno. 

Le aziende della cintura continuano ad assumere o ad accettare delle borse di sussidio per dare un lavoro a pazienti vecchi o nuovi, e continua anche la collaborazione attiva con le cooperative. 

Gli ultimi pazienti sono stati dimessi nel 2000.

A conclusione di questo lungo, complesso e travagliato iter, nel marzo del 2002 è stato eretto a Collegno il monumento ai degenti dell’Ospedale Psichiatrico, per secoli vittime silenziose  di un luogo non assolutamente di cura ma solo di segregazione per gli individui più deboli o poveri, non produttivi o scomodi. Una segregazione violenta che portava alla perdita di ogni contatto con la vita al di fuori delle mura, del senso di sé, dei bisogni più fondamentali dell’uomo, di ogni prospettiva verso un futuro in cui sperare, in cui la sottomissione al volere di medici e infermieri era l’unica modalità di sopravvivenza, in cui la violenza istituzionale era parte stessa del trattamento terapeutico che ricevevano.  

“Con il manicomio c’era la rinuncia al cambiamento. C’era una sorta di affermazione perversa della diversità ontologica della persona ivi ricoverata. A suo modo una forma di rispetto di questa irrazionalità senza limiti e tempo che, se non poteva essere modificata, non poteva neanche essere lasciata libera di travolgere l’ordine razionale delle cose. Lo psichiatra manicomiale non ha mai creduto alla possibilità di normalizzare le sue vittime. Le riteneva irrecuperabili alla vita ordinaria”2.  

 

X

Conclusioni

Ripercorrendo alcuni momenti della storia della Psichiatria, ho cercato di capire come nel Novecento si sia arrivati a cambiare una situazione, quella manicomiale, che ormai da secoli sembrava immutabile. Inaspettatamente, ho trovato nelle esperienze della prima metà del secolo scorso elementi importantissimi e molto stimolanti che possono spiegare il lento e graduale successivo mutamento dell’approccio psichiatrico al problema dei disturbati mentali e del loro trattamento. 

Innanzi a tutto, la fenomenologia antropologica. Essa, pur non configurandosi come un movimento, e pur non apportando nuovi metodi terapeutici, nuove prassi, ha lasciato un’eredità significante, che ha attraversato tutto il secolo scorso.  La ricerca portata dal metodo fenomenologico, più che sui sintomi sulla personalità, sulla totalità e sulla soggettività dell’uomo, ha veramente portato un soffio nuovo, vivificatore, per l’indagine psichiatrica. “Ciò che noi dobbiamo cercare di penetrare, dice Binswanger, non è la struttura del delirio, è quella dell’uomo delirante, è la struttura del suo nuovo essere nel mondo”1.

La riflessione fenomenologica è stata poi raccolta dall’antipsichiatria, configurando con questo termine un ampio movimento di rottura nei confronti della psichiatria asilare, nato negli anni Sessanta. Essa ha saputo proporre nuovi modelli nella cura e nella relazione con il paziente, un nuovo modo di intendere il disagio psichico sganciato dal tradizionale organicismo medico, con riferimenti al contesto patogenetico familiare e sociale. L’opera di Franco Basaglia può essere vista come un anello di congiunzione tra queste due pensieri: i suoi primi scritti erano di impostazione fenomenologica, ed oggi è ricordato per le sue lotte antistituzionali che hanno portato alla definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici in Italia.

Mi sono soffermata anche su certe ricerche pionieristiche, sperimentali e psicofarmacologiche degli anni Cinquanta. Sperimentazioni ed autosperimentazioni con alcune sostanze sembravano promettere lo schiudersi di nuove prospettive: gli psichedelici potevano funzionare da catalizzatori nella relazione psicoterapeutica e facilitare il raggiungimento di intensi momenti abreativi e catartici. Un mirabile strumento per lo studio del profondo e delle alterazioni della coscienza. Morselli, antesignano del metodo fenomenologico, anche grazie alla sua personale esperienza con la mescalina, è riuscito a diluire i confini tra produzioni patologiche e creative della mente, arrivando ad una profonda comprensione del “mondo altro” degli schizofrenici.

Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, su queste basi, venne attuata in tutti il mondo occidentale una serie di modelli pratici di cura alternativi al manicomio, che puntavano ad una relazione terapeuta-soggetto priva dei tipici caratteri gerarchici e autoritari della medicina classica. I pionieri, fondatori di questi movimenti, diedero ognuno un’impronta personale, più politica, più socioterapeutica, più psicoanalitica, a ciò che stava diventando un patrimonio comune.

In Italia, grazie alle lotte di una nuova generazione, si è riusciti a modificare l’assetto istituzionale psichiatrico, si spera in modo irreversibile, nonostante la resistenza conservatrice dell’establishment e i radicati e diffusi pregiudizi verso il malato mentale e la pazzia in generale. 

Ho esaminato quindi nel concreto la situazione della mia città, Torino, che possiede un’antica tradizione psichiatrica, passata negli ultimi quarant’anni dal modello manicomiale a quello territoriale non senza difficoltà. Dal concetto di lungodegenza, tipico del periodo asilare, si è passati alla cultura della “brevidegenza”, con non poche lacune nell’assistenza e nella continuità terapeutica degli utenti e dei loro familiari. I ricoveri sono stati ridefiniti, riregolamentati, sono state modificate le strutture abilitate, ma quello che sembra essere rimasto in sospeso è il pensiero che ne governa il funzionamento o l’ispirazione.

Nel vecchio manicomio i ricoverati cessavano di esistere in quanto persone, per venire trattati come materiale di studio, costretti a permanervi per anni e a subire tutto. I luminari della scienza si sono arrogati il diritto di decidere dei loro corpi, di avvelenare le loro menti e di annichilire la loro soggettività. Così facendo, essi sono stati i primi a perdere la loro umanità. L’Ospedale Psichiatrico, che raccoglieva i casi più disparati, si configurava come un luogo non terapeutico: prima di tutto in quanto non “umano”. Inoltre la sua economia era organizzata in funzione della cronicità, e la tipica condizione di negazione della realtà non poteva che perfezionare o ritualizzare la psicosi. 

Le esperienze passate sembrano dimostrare che emarginare il malato mentale è un comportamento difensivo radicato nelle famiglie così come nella nostra società, sostenuto da pregiudizi che hanno a che fare con la paura del diverso, la vergogna dei “sintomi proibiti”, e con i vecchi concetti di pericolosità e inguaribilità. Si vuole segregare e nascondere il matto in apposite strutture per illudersi di vivere in una società sana e razionale, mentre una società veramente sana non avrebbe paura delle proprie contraddizioni e diversità interne.

Parlare di riaprire i manicomi oggi sembra un discorso anacronistico e qualunquista, infondato e di dubbia sensibilità sociale. La legge 180 è stata una conquista sociale, una lotta vinta, ma segna anche un nuovo punto di partenza, una nuova sfida. C’è ancora molto da fare per quanto riguarda l’organizzazione territoriale dei nuovi centri di salute mentale, l’incentivazione di cooperative sociali e associazioni no profit, il reperimento di strutture e risorse diverse da quelle private. Oggi si discute molto sull’utilità dei repartini di diagnosi e cura, e sulla rete dei servizi forniti da strutture quali ambulatori, centri diurni e comunità terapeutiche, ma forse c’e ancora molto da inventare e creare.

Il superamento dell’Ospedale Psichiatrico non è solo un fatto che riguarda le istituzioni ma tutti noi, l’intera comunità. E’ parte integrante del nostro patrimonio culturale, che fa leva sulla nostra parte sana invece che sulle nostre difese, per un’integrazione e un’accettazione di tutte le parti che compongono la nostra sempre più eterogenea società.

Bibliografia

 

Introduzione

1   H.F.Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, Boringhieri, Torino, 1972

2               P.M.Furlan, I luoghi delle cure in Piemonte. Medicina e architettura tra medioevo ed età contemporanea,  Celid, Torino, 2004

3               A.Piras, Quali difficoltà per un’affermazione definitiva della professione infermieristica nel pianeta socio sanitario? In NEU, 2/97, 1997

4   M.Foucault, Storia della follia nell'età classica [1961], Rizzoli, Milano, 1963

5   E.Goffman, Asylums, Torino Einaudi, 1968

6   Associazione per la lotta contro le malattie mentali(a cura di), La fabbrica della follia.Relazione sul manicomio di Torino, Einaudi 1971

7   J. Conolly, Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi, 1856,  Einaudi 1976

8   S.Arieti,  Interpretazione della schizofrenia, Feltrinelli, Milano 1978.

9   T.Szasz, La schizofrenia simbolo sacro della psichiatria, New York, 1976, Armando 1984

10                       M.Moraglio, Costruire il manicomio, Unicopli, Milano 200279

11                        Il regio manicomio di Torino nel suo secondo centenario 22-VI-1728 / 22-VI-1928, Stabilimento                                        Tipografico L.Rattero di Torino, 1928

12                       G.Agamben, Homo Sacer, Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 1995

13                       H.Arendt, Le origini del totalitarismo, 1951   

Cap. I

1         A.Artaud, Van Gogh suicidato dalla società, in A.Castaldi (a cura di) Il mito di Van Gogh, P.Lubrina Ed., Bergamo, 1987

2         G.Bucalo, Dietro ogni scemo c’è un villaggio, Sicilia Punto L Ed., 1990

3         D.De Salvia, Antipsichiatria: critica della sua critica, Psicoterapia e Scienze umane, n.4 ott.-dic.1977

4         E.Borgna, Come se finisse il mondo. Il senso dell'esperienza schizofrenica, Milano, Feltrinelli, 1995.

            G.E.Morselli, Sulla dissociazione mentale, Rivista sperimentale Freniatria, 1930, n.53, II

5         D.De Salvia, 1977, op.cit.

6         Il film è diretto da K.Loach, G.B., 1971. Direttamente ispirato alla teoria dell’io diviso di R.D.Laing, tratta di una ragazza che, costretta ad abortire dalla madre, si rifugia nella schizofrenia e viene poi “curata” con l’elettroshock.

7         A.Pirella, Salute Mentale e poteri del mercato, Convegno Psichiatria Democratica, Torino nov.2005

8         D.Cooper, Psichiatria e antipsichiatria, Armando, Roma, 1969

9         D.Cooper, 1969, op.cit.

10      G.Antonucci, Psichiatria e diritti dell’uomo, I Congresso Internaz. Della Lega per i Diritti sull’uomo, Zurigo 28 giu.1981, apparso su “Collettivo R” n.26-28 mag.’82

11      D.De Salvia, 1977, op.cit.

            intervista a Loren Mosher, San Diego Weekly Reader, Vol. 32, No. 2, Jan. 9, 2003

12      D.Cooper, Psychiatry and Anti-Psychiatry, London, Tavistock, 1967

13      D.Cooper, 1967, op.cit.

14      D.Cooper, La morte della famiglia, Einaudi, 1972

15      D.Cooper, Grammatica del vivere, Feltrinelli, Milano, 1976

16      U.Galimberti, (prefaz. a) T.Szasz, Il mito della droga. La persecuzione rituale delle droghe, dei drogati e degli spacciatori, Feltrinelli

17      W.R.Bion, Esperienze nei gruppi, Armando, Roma, 1971(I ed.1961)

18      F.Fornari, Simbolo e codice, Feltrinelli, Milano, 1976

19      K.Lewin, Principi di psicologia topologica, OS, Firenze, 1970

20      A.Bonetti, R.Bortino, Tossicodipendenza e doppia diagnosi: la relazione d’aiuto in Comunità, FrancoAngeli, Milano, 2005

21      T.Main, Il concetto di Comunità Terapeutica, variazioni e vicissitudini, in La Comunità terapeutica e altri saggi psicoanalitici, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1992 (I ed.1983)

22      E.Rayner (1991); Gli indipendenti della psicoanalisi britannica. Tr. It. Raffaello Cortina Editore, Milano   1995

23      D.Kennard, (1983) An Introduction to Therapeutic Communities. Routledge & Kegan Paul, Boston, London, Melbourn, Henley

24      D.Kennard, (1983), op. cit.

25      Rayner, E. (1991), op.cit.

26      M.Jones, Social Psychiatry, Tavistock, London, 1952

27      Rapaport, R., The community as a Doctor, in New perspectives on a Therapeutic Community London. Tavistock publications, London, 1960

28      A. Ferruta, G. Foresti, E. Pedriali, M. Vigorelli (a cura di); La Comunità Terapeutica.   Mito e Realtà.; Raffaello Cortina Editore - Milano, 1998

29      Rapaport R., 1960, op.cit.

30      A.Pirella, Salute mentale e poteri di mercato, Conv. Psich. Democratica, Nov.2005, Torino 

31      G.Blumir, Droga e follia, Tottilo Ed., 1974, Roma

32      A.Pirella, intervista rilasciata a Liberazione il 19 novembre del 2003

33      M.Angell, Is Academic Medicine for sale?, The New England Journal of Medicine, May 18, 2000

34      J.Chamberlin, On Our Own, Patient-controlled Alternatives to the Mental Health System, 1978 (in italiano Da noi stessi, '94).

35      R.Coleman, Guarire dal male mentale, manifestolibri, ed.it.ad opera di F.Di Paola e G.Fiore

Cap. II

1         I primi 5 paragrafi sono tratti da: M.Bassi, S.De Risio, M.Di Giannantonio La questione etica in psichiatria, Il Pensiero Scientifico Editore, 2000, e F.De Marco e A.De Palma, Il tempo, i luoghi, le muse, Ed. La Bussola, 1993.

2         I paragrafi 6 e 7 sono tratti da: V.Andreoli, Un secolo si follia, Superbur, 1999, Milano

3         G.Blumir, 1974, op.cit.

Cap. III

1    D.Solomon (a cura di), LSD. La droga che dilata la coscienza, 1967, Milano,   Feltrinelli

2   R.W.Gerard, Neuropharmacology: Transactions of the Second Conference, New York, Fondaz. Josiah Macy Jr., 1956

3   D.Solomon, 1967, op.cit.

4  G.Wasson, fondatore dell’etnomicologia, celebrava il ruolo dei funghi nella storia della civiltà. Era convinto che molti popoli antichi venerassero un grande Fungo Sacro. Coinvolse nelle sue stravaganti ricerche le persono più insospettabili: dallo scrittore Robert Graves, al tipografo veronese Giovanni Mardesteig. Poi si mise a studiare i misteri eleusini, la cerimonia iniziatica più famosa dell'antichità. E nel 1977, ad un convegno, tirò fuori un asso dalla manica: A.Hofmann, il chimico svizzero che aveva scoperto l'Lsd. Per dimostrare che le visioni mistiche degli iniziati eleusini erano viaggi psichedelici indotti da funghi allucinogeni. Così i riti sacri dei greci antichi si affratellavano, a sorpresa, ai paradisi artificiali hippy e alle culture sciamaniche messicane.

5     D.Solomon, 1967, op.cit

6    T.McKenna, Il nutrimento degli dei, Apogeo-libri Urra, 2001. In questo libro l’autore sostiene la particolarissima tesi che l'impatto degli allucinogeni nella dieta è stato più che psicologico nell’evoluzione umana: le piante allucinogene potrebbero aver catalizzato in noi più o meno tutto quello che ci distingue dagli altri primati superiori, ed essere quindi responsabili di tutte le funzioni mentali che noi associamo al concetto di umanità. Questo sarebbe avvenuto quando i nostri remoti antenati si trasferirono dagli alberi alle savane ed ebbero sempre più frequenti incontri con bovini ed equini, dal cui letame nasce appunto il fungo in questione.

7 G.Wasson, A.Hofmann, C.Ruck, Alla scoperta dei misteri eleusini, Urra, 1996

8  D.Wolley, E.Shaw, Evidence for the participationof serotonin in mental processes, in Ann. Of New York Acad.of Sc., Vol.66, art.3, 649, 1957

9 F.W.Schueler, The Effects of Succinate in Mescal Hallucination,(Gli effetti del succinato    nelle allucinazioni da mescalina), in Jour. Lab.Clin.Med., 1948.

10                    W.Mayer-Gross., In Brit. Med. J. 1951. (ii)

11                  J.Elkes, M.B.Elkes e P.B.Bradley. J. Mental Sci., 1954

12                      H.D.Fabing, New Blocking Agent Against the Development of LSD Psvchose, Science, 1951

13                      A.Hoffer e N.Agnew, Nicotinic acid Modified LSD-25 Psychosis (L'uso dell'acido nicotinico nella modificazione della psicosi da LSD-25), in J. Mental Sci., 1955

14                     F.Giberti e L.Gregoretto, LSD.Psychosis Treated with Chlorpromazine and Reserpine (LSD. Psicosi curate con dorpromazina e reserpina), in "Sistema Nervoso," 1955

15                        B.E.Schwarz, R.G.Bickford e H.P.Rome, Reversibility of Induced Psvchosis with      Chlorpromazine (Reversibilità della psicosi sperimentale con la clorpromazina), Atti di una riunione del personale della Clinica Mayo, 1955

16                       H.Kluver, Mescal: The Divine Plant (Il mescal: la pianta divina), Londra. Kegan Paul,   1928

17                    A. Stoll e A. Hofmann, in "Helv. Chim. Acta.," 1943

18                     C.Sueur, A.Benezech, D.Deniav et al.: Les substances hallucinogenes et leurs usages therapeutiques: revue de la litterature, Toxi-Base, 1, I trim.2000

19                    Sueur C., Benezech A., Deniav D. et al, 2000, op.cit.

20 S. Federoff, Growth Promotion and Growth Inhibition in Tissue Culture (Fattori che promuovono e fattori che inibiscono lo sviluppo di tessuti coltivati), Tesi di laurea. Univ. Saskatchewan, Saskatoon, Saskatchewan, Canada, 1955. S. FEDEROFF, in "Anat. Record." 1955, 121, 394.S. FEDEROFF, in "Lab. Clin. Invest." 1956

21                      W.A.Stoll, Schweiz. Arch. Neurol. Psychiat.,60,279, 1947

22   M.Rinkel, R.W.Hayde e H.C.Solomon, Experimental Psychiatry. III. A chemical concept of psychosis -Psichiatria sperimentale. III. Una concezione chimica della psicosi, in Diseases of Nervous System, 1954

23   D.W.Anderson e K.Rawnsley. in Psychiat.-Neurol. Wochschr., 1954

24  In D. Solomon, 1967, op.cit.

25     G.Blumir, Droga e follia, Tattilo Ed., 1974, Roma

26    S.Cohen, The Beyond Within, The LSD Story, New York, Atheneum, 1964

27 A.Hofmann, LSD: il mio bambino difficile, (ed.orig.1979), Apogeo-Urra Ed., 1994

28  In D. Solomon, 1967, op.cit.

29 K.E.Godfrey, LSD Therapy-Alcoholism. The Total Treatment Approach, Springfield, 1968

30 A.K.Busch, W.C.Johnson, LSD as an aid in psychotherapy., Dis. Nem. System 11, 1950

31                      K.E.Godfrey, H.M.Voth, L'LSD come ausiliare per la psicoterapia di orientamento psicoanalitico, Psichiatria, Dinamica, vol. 1, 1974

32   “psicolisi” è un termine coniato da H.Leuner nel 1967 in Present state of psycholytic therapy and its possibilities. In Abramson 1967

33   J.A.Abramson, The Use of LSD as an Aid to Psychotherapy. Indianapolis: Bobbs Merrill, 1967

34  G.Bateson cit. in Bateson M.C., 1972

35     M.Rinkel, Neuropharmacology: Transactions of the Second Conference (Neurofarmacologia. Atti del secondo congresso), New York, Fondazione Josiah Macy Jr., 1956.

36    Comunicazione personale con il Dott. J. Bowis. La summa dell’opera di S.Grof è riportata in Oltre il cervello, pubblicato dalla casa editrice Cittadella di Assisi. Sull’ esperienza con i malati  di cancro e terminali molto importante dal punto di vista scientifico, ha pubblicato un libro che oggi è introvabile in Italia intitolato Incontri con la morte.

37 G.Gamna, Fantastica. Appunti ed esperienze sugli Psichedelici, Ed.Seb, 1998, Torino

38  S.Krippner, The hypnotic trance, the psychedelic experience and the creative act, Am.Jour.Clin.Hypnosis, 7, 1964

39 K.Jaspers, Strindberg und Van Gogh, trad.it. U.Galimberti  (a cura di), Genio e follia, Rusconi, Milano, 1990

40                       G.E.Morselli, Sulla dissociazione mentale, Rivista sperimentale Freniatria, n.53, II, 1930, in G.Gamna (a cura di), L’esistenza psicopatologica, Minerva Med., 1975, Torino

41                     G.E.Morselli: Esiste un’attività psicopatologica originale? (ed. or. 1948), in: G.Gamna (a cura di): L’esistenza psicopatologica, Minerva Medica , Torino, 1975

         G.E.Morselli, Contributo allo studio delle turbe da mescalina (ed.or.1935), in AA.VV., Le psicosi sperimentali, Feltrinelli, Milano, 1962

42  G.E.Morsellli, Psicosi sperimentali e schizofrenia, Ann. di Freniatria e Scienze Affini, 74, 1961

43  G.E.Morselli: Esiste un’attività psicopatologica originale? (ed. or. 1948), op.cit.

44 G.E.Morselli: Esiste un’attività psicopatologica originale? (ed. or. 1948), op.cit.

45    G.E.Morselli, Patologia mentale ed espressione, Ann.Neurol. e Psichiat., 23, 1,1962, in G.Gamna (a cura di), 1975, op.cit.

46   L.Matefi, Mezcalin und LSD.Rausch Selbtsversuche mit bes.Berucksichtigung eines Zeichentestes, Confin.neur., 12, 1952

47                       G.Tonini, C.Montanari, Effects of Experimentally induced psychoses on Artistic Expression, Confinia Neur., 15, 1955

48 M.Rinkel, R.W.Hyde, H.C.Solomon, H.Hoagland, Experimental Psychiatry. II. Clinical and physio-chemical observations in experimental psychoses, Am.J.Psychiat., 111, 1955

49                       L.Berlin, T.Guthrie, A.Weider, H.Goodell, H.G.Wolff, Studies in human cerebral function: the effects of mescaline and lysergic acid on cerebral process pertinent to creative activity, J.Nerv. and Ment.Dis.,122, 1956 

50  G.Gomirato, G.Gamna e E.Pascal, Il disegno dell’albero applicato allo studio delle modificazioni psicopatologiche indotte dalla dietilamide dell’acido D lisergico in schizofrenici, Giornale di Psich. e di Neuropat., fasc.ii, II trim.1958

51                        F.Marzi e F.Biagiotti, Il test dell’albero nelle malattie mentali, Rass.di Neuropsichiatria, 7, 1953

52     K.Koch, Der Baumtest, Verl.Huber, Bern, 1949

53     G.Gomirato, G.Gamna e P.C.Besusso, Il disegno dell’albero come mezzo d’indagine fenomenologia della struttura dello spazio nei malati di mente, Giornale di Psich. e di Neuropat., fasc.1, I trim.1958

54    G.Gomirato, G.Gamna e E.Pascal, op.cit., 1958

55 P.Witt., LSD in spinnen test, Experientia, 7, 310, 1951, in G.Gomirato, G.Gamna e E.Pascal, op.cit., 1958

56Alle stesse conclusioni erano giunti già G.Gamna, B.Bonfante & E.Villata, Autoesperienze con LSD, Rassegna Studi Psichiatrici, 1954, vol.43. ), in cui gli AA.sostenevano, dopo alcune autosperimentazioni, che il quadro della sintomatologia psichica indotta per ingestione di LSD in soggetti normali non era sovrapponibile ai disturbi mentali degli psicotici. Anche Morselli era su posizioni simili (vedere G.E.Morsellli, Psicosi sperimentali e schizofrenia, 1961, op.cit.)

57  Comunicazioni personali con G.Gamna

58   G.Gamna, Anch’io so giocare a dama, Castalia Ed., 1988, Torino

59  G.Gamna, 1988, op.cit.

60  Comunicazioni personali con G.Gamna

61                       Il paragrafo è tratto da G.Blumir, Droga e follia, Tattilo Ed., 1974, Roma

62    M.De Feo, Un secolo in viaggio, art.su Il Manifesto, 11 genn.2006

63    G.Blumir, 1974, op.cit.

64   T.McKenna, 2001, op.cit.

65M.de Feo, art. dell’ 11 gen. ’06, cit.

66     D. Solomon, 1967, op.cit.

67  G.E.Morselli, Patologia mentale ed espressione, Ann.Neurol. e Psichiat., 23, 1,1962

Cap. IV

1      G.Riefolo, F.M.Ferro, Note sulla fondazione della Psichiatria Clinica: prassi dell'osservazione e nascita della "cartella", Gior. St. Psicol. Dinam., XI, 22, 1987

2      D.Scavo, Le vitamine nella patologia, in U. Teodori, Trattato di Patologia medica, Roma,    1980

3      P.M.Furlan, I luoghi delle cure in Piemonte. Medicina e architettura tra medioevo ed età contemporanea,  Celid, 2004

4      E. Klee, Atti del Seminario “Psichiatria e Nazismo”, fondazione I.R.S.E.S.C., 1998

5      A.Pirella, Potere e leggi psichiatriche in Italia, atti del Convegno:"Manicomio Società Politica, Per una  storia della psichiatria nell'Italia degli anni '60 e '70", Torino 20-21 nov. 2003.

6      F.Basaglia(a cura di), Che cos’è la psichiatria, Amministrazione Provinciale di   Parma, 1967

7      A.Pirella, Potere e leggi psichiatriche in Italia, atti del Convegno:"Manicomio Società Politica, Per una storia della psichiatria nell'Italia degli anni '60 e '70", Torino 20-21 nov. 2003.

8      G.F.Minguzzi, Prefazione a D.De Salvia, Per una psichiatria alternativa, Feltrinelli,      1977

9      F.Giacanelli, E.Giacanelli Boriosi, Le parole della psichiatria. Il cittadino e la salute mentale dopo la     riforma sanitaria, Bologna, Zanichelli ed., 1982.

10   A.Papuzzi, Portatemi su quello che canta.Processo a uno psichiatra, 1977, Einaudi

11   N.Lalli, L’isola dei Feaci. Percorsi psicoanalitici nella storia della psichiatria, nella clinica, nella  letteratura, Nuove Edizione Romane, Roma 1997

12   A.Pirella, Potere e leggi psichiatriche in Italia, cit.

Cap. V

1         Il paragrafo è tratto da F. Basaglia, Giovanna Gallio Vocazione terapeutica e lotta di classe. Per un’analisi critica della "via italiana" alla riforma psichiatrica, Ospedale Psichiatrico Provinciale di Trieste 1979

2          F.Basaglia (a cura di), Che cos’è la psichiatria?, 1967

3          F.Basaglia, Istituzione negata. Rapporto da un OP, 1968

4          I.Goffman, Asylums,1961, trad.it F.Ongaro Basaglia, 1968

5         Comunicazioni personali con il Dott.G.Gamna (di cui vedere il caso di Elvino in Anch’io so giocare a dama, Castalia, 1988, Torino) e la Dott.ssa M.Morone

6         A.Pirella, Salute Mentale e poteri del mercato, Convegno Psichiatria Democratica, Torino nov.2005

7         F.Basaglia, Conferenze brasiliane, Cortina, Milano, 2000

8         In A.Pirella, Franco Basaglia, Convegno Psichiatria Democratica, Torino nov.2005

9         G.Gamna, op.cit.

10      U.Galimberti, Il sogno di Basaglia, art. Repubblica, 29 ag.2005

11      A.Pirella, Franco Basaglia, cit.

12      Conversazione con G.Antonucci radiotrasmessa da Radio Cooperativa (Mortise, Padova)il 1 sett.2001, testo trascritto su www.spunk.org

13      G.Antonucci, Psichiatria e diritti dell’uomo, I Congresso Internaz. Della Lega per i Diritti sull’uomo, Zurigo 28 giu.1081, apparso su “Collettivo R” n.26-28 mag.’82

14       Antonucci, Il pregiudizio psichiatrico, 1990

15       G.Antonucci, 1990 op.cit.

16       G.Bucalo,

17       G.Bucalo, Dietro ogni scemo c’è un villaggio, Sicilia Punto L Ed.,1990 

Altre informazioni del capitolo sono tratte dai seguenti siti:

www.psichiatriademocratica.com

www.no!pazzia.it

www.ecn.org

www.antipsichiatria.it

www.psicolinea.it

www.pol-it.org

italy.indymedia.org

www.triestesalutementale.it

Cap. VI

1           Le informazioni sono tratte da:

·   P.M.Furlan, I luoghi delle cure cure in Piemonte. Medicina e architettura tra medioevo ed età contemporanea,  Celid, 2004, Torino

·   CD-rom Storia della Psichiatria a Torino dall’Ospedale dei Pazzarelli al Dipartimento di Salute Mentale, a cura del dott. Giorgio Tribbioli, con la collaborazione del dott. Ezio Cristina

·   P.M.Furlan, Scienza non sempre disgiunta da vergogna. Tre secoli di storia torinese, in: Quaderni del Centro di Documentazione di Storia della Psichiatria. Vol. Atti Conv.Internaz. di Studi Reggio Emilia, 20-21 nov.1998 Il sapere e la vergogna. Psichiatria, Scienza, cultura nelle leggi razzialidel 1938, 2002

2           Associazione per la lotta contro le malattie mentali (a cura di), La fabbrica della follia, Einaudi, 1971, Torino

3           V.Andreoli, Un secolo di follia, Superbur, 1999, Milano

4           G.Blumir, Droga e follia, Tattilo Ed., 1974, Roma

5           P.M.Furlan, op.cit., 2004

6           J.M.Mac Gregor, European collection of psychiatric art, Confinia Psichiatrica, 20, I, 1977

7           G.Gamna, Psicopatologia dell’espressione e arte terapia ad una svolta, Psicoter. e scienze umane, anno XI, n.4, ott.-dic.1977

8           G.E.Morselli, Patologia mentale ed espressione (1963), in G.Gamna(a cura di) L’esistenza psicopatologica, Minerva Medica, Torino, 1975

9           P.Gilardi, Quale rapporto tra arte e arte terapia? Riza scienze, n.31, nov.1989

10       G.Scabia, Il Marco Cavallo, 1976, Einaudi, Torino     

11       E.Kramer, Cos’è l’arte terapia? in R.Bortino, G.Gamna, A.Gilardi (a cura di), AISCNV-ADEG, Torino, 1985

12       A.Gilardi, Intervista a E.Kramer, Riza scienze, n.31, nov.1989

13       G.Gamna, 1977, op.cit.

14       R.Bortino, G.Gamna, Attività espressive e terapie psichiatriche, Minerva Medica, Torino, 1982

15       G.Gamna, Che cos’è l’arte terapia?, Riza scienze, n.31, nov.1989

16       G.Gamna, comunicaz.pers.

Cap. VII

1      Informazioni prese da:

·    P.M.Furlan, I luoghi delle cure cure in Piemonte. Medicina e architettura tra medioevo ed età contemporanea,  Celid, 2004;

·    E.Cristina G.Ruo Roch, C.Scarpone, R.L.Picci, La visita domiciliare nell’urgenza psichiatrica, in: P.M.Furlan, E.Cristina, R.L.Picci, Modelli di intervento in Psichiatria d’Urgenza, Castellet y Ballarà F. Ed., 1995, Torino;

·    CD-rom Storia della Psichiatria a Torino, dall’Ospedale dei pazzarelli al Dipartimento di Salute Mentale, a cura del dott. G.Tribbioli con la collaborazione del dott.E.Cristina, giugno 2000

2      Dati presi da: G.Briante, F.Cavalllo, U.Corino, G.Gamna, Analisi di un servizio psichiatrico di settore, Annali di Freniatria e scienze affini, Vol.88, n.4, ott.-dic.1975

3      G.Briante, F.Cavalllo, U.Corino, G.Gamna, 1975, op.cit.

4      Comunicazione personale con G.Gamna, 29 nov.2005

5      Associazione per la lotta contro le malattie mentali (a cura di), Una falsa alternativa alla fabbrica della follia: l’espediente gattopardesco della Provincia di Torino, Torino, Einaudi, 1975

6      AA.VV., Un bimbo sano di mente rinchiuso per sette mesi a “Villa Azzurra”, Unità, 1 maggio 1969

7      Relazione tenuta alla pubblica assemblea dell’Associazione per la Lotta   contro le malattie mentali, 3 giugno 1970

8      Invernizzi G., Ma è per il suo bene, Espresso n. 30, 26 luglio 1970

9      Relazione Associazione Lotta per le malattie mentali, op. cit.

10   D.Dormetta, Ospedale psichiatrico di Grugliasco storia breve, in Psichiatria/informazione, n.2, anno 1987

11   Consiglio d’Amministrazione O. P. di Torino, verbale dell’adunanza 1 aprile 1971

12   Consiglio d’Amministrazione, verbale dell’adunanza 8 novembre 1972

13   Consiglio d’Amministrazione, verbale dell’adunanza 28 novembre 1979

14   Informazioni e dati tratti dal cd-rom a cura del dott. G.Tribbioli, 2000, cit.

15   G.Luciano, Sviluppo dei fondamenti culturali e delle strutture operative della psichiatria nell’evoluzione della medicina dalla clinica all’unità locale, 1978, Torino

16   G.Luciano, 1978, op.cit.

17   Le informazioni di questo capitolo sono presi da NEU, La Rivista periodica dell'Associazione Nazionale Infermieri Neuroscienze, numeri 4/96, 2/97, 3/97

18   Informazioni e dati tratti dal cd-rom a cura del dott. G.Tribbioli, 2000, cit.

19   A.Pirella, Bozza per un Progetto di Superamento degli OO.PP. di  Torino, 1979

Cap. VIII

1     Informazioni prese da:

·   P.M.Furlan, I luoghi delle cure cure in Piemonte. Medicina e architettura tra medioevo ed età contemporanea,  Celid, 2004, Torino e dal CD-rom Storia della Psichiatria a Torino, dall’Ospedale dei pazzarelli al Dipartimento di Salute Mentale, a cura del dott. G.Tribbioli con la collaborazione del dott.E.Cristina, giugno 2000;

·   P.M.Furlan, C.Munizza, M.C.Garis, T.De Bartolo, M.Zuccolin, R.L.Picci, M.Rosa, L’organizzazione assistenziale e standards formativi di un Dipartimento di Salute Mentale, Riv.Sper.Fren., vol.CXIV n.1, 1990:46-62;

·   P.M.Furlan, E.Cristina, R.L.Picci Modelli d’intervento in Psichiatria d’Urgenza, atti del Convegno Internazionale, Torino 25-26 maggio 1992, pubblicati dalla Rivista Europea di Psichiatria Castellet y Ballarà F Ed.

·   P.M.Furlan et al., L’inserimento eterofamiliare supportato di adulti sofferenti di disturbi psichici. Volume degli Atti I Congr.Naz., Ed.Alice nello specchio, 2000

2     R.L.Picci, P.Biino, Educatore e psicosi. Quale ruolo all’interno di un gruppo politecnico d’intervento?, in: P.M.Furlan (a cura di), Psicoterapia e Rete dei Servizi, Centro Scientifico Ed., Torino, 1998   

Cap. IX

1     Informazioni tratte da:

·   P.M.Furlan, I luoghi delle cure cure in Piemonte. Medicina e architettura tra medioevo ed età contemporanea,  Celid, 2004, Torino dal CD-rom Storia della Psichiatria a Torino, dall’Ospedale dei pazzarelli al Dipartimento di Salute Mentale, a cura del dott. G.Tribbioli con la collaborazione del dott.E.Cristina, giugno 2000;

·   P.M.Furlan, La 180 ha vent’anni, Da laboratorio di ideali a rete di servizi, Ed.Pier Maria Furlan 1998

·   P.M.Furlan et al., Il Centro Crisi “L’accoglienza” del D.S.M. 5b, Università di Torino, Una possibile alternativa al ricovero ospedaliero nei disturbi mentali gravi, in fase acuta. Poster in Italian Journal of Psychopathology VIII Congr.Naz. della Soc.Ital.di Psicopatologia Dal disturbo alla malattia, Roma, 25 febb.-1 mar.2003

·   P.M.Furlan, Urgenze psichiatriche e rete dei Servizi nel territorio: evoluzione e cambiamento. Vol.Abstracts 15^Incontro A.FE.R.U.P./IV Congr.Naz. SIPU Urgenze psichiatriche e rete di servizi nel territorio: evoluzione e cambiamento. Torino, 30-31 genn.-1 febb. 2004

·   P.M.Furlan et al.,Il gruppo appartamento come strumento di presa in carico del paziente e dei suoi bisogni. Vol.Abstracts 15^Incontro A.FE.R.U.P./IV Congr.Naz. SIPU Urgenze psichiatriche e rete di servizi nel territorio: evoluzione e cambiamento. Torino, 30-31 genn.-1 febb. 2004

2  G.Bucalo, Malati di niente. Manuale minimo di sopravvivenza, 1996, Calusca Grafton

Conclusioni

1      Informazioni tratte da:

·                     P.M.Furlan, R.L.Picci, C.Giraudo, S.Manfrinati, B.Scandone, L’accetazione sociale della malattia mentale, in: Atti del XLII Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria, Dal pregiudizio alla cittadinanza, Centro Scient.Ed., Torino, 2000

·   P.M.Furlan et al., Il paziente psichiatrico e la sua immagine. Atti del XXXIX Congr.Naz.Soc.Ital.di Psichiatria L’intervento riabilitativo in Psichiatria – Comunicazioni. Riccione 23-28 ott.1994

2   L.Binswanger, Encéphale, 195