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Legge 431 del 1968 “Legge stralcio Mariotti”

 

Si propone l’intento di attenuare l’impianto da istituzione totale degli ospedali psichiatrici e di indirizzare l’utenza psichiatrica il più possibile verso un trattamento ambulatoriale esterno al circuito manicomiale. Questa legge aboliva strutture con migliaia di persone e prevedeva strutture con al massimo 500 posti: 4 reparti di 125 degenti, 42 infermieri, 3 medici, 1 psicologo, 1 assistente sociale. Inoltre aboliva l’iscrizione dei ricoveri coatti al casellario giudiziario e sottraeva quelli volontari da qualsiasi controllo.

 

 

Legge 349 del 29/06/1977

 

In tale norma si considera la tutela della salute quale fondamentale diritto dell’individuo ed un interesse della collettività; con la conseguente necessità che lo stato ponga a disposizione del cittadino un “Servizio Sanitario”, che con i suoi interventi e strumenti, affronti le problematiche poste dalla malattia e dalla persona malata.

 

 

Legge 180 del 13/05/1978 “Accertamenti e trattamenti volontari”

 

Nel pensiero comune è la legge che ha chiuso gli ospedali psichiatrici, in realtà tale chiusure rappresenta l’esito di un processo culturale e legislativo molto più ampio, che mirava ad inserire la salute mentale all’interno della riforma sanitaria e a far cessare quindi l’esclusione della psichiatria dall’organizzazione assistenziale del paese.

I principi generali più significativi di questa legge sono:

        Superamento degli ospedali psichiatrici

        Integrazione dell’assistenza psichiatrica nel S.S.N.

        Orientamento prevalentemente territoriale dell’assistenza psichiatrica

        Limitazione dei TSO in condizioni di emergenza e situazioni ben precisate

 

Questa legge delegava le regioni a individuare le strutture per la tutela della salute mentale, questo ha creato incertezza, ma sono stati emanati due progetti-obbiettivo (PO) che hanno definito come la tutela della salute mentale debba svolgersi, quali e quante strutture ci vogliano.

 

 

Legge 833 del12/1978 “Istituzione del S.S.N.”

 

Il nostro S.S.N. si fonda sull’articolo 32 della Costituzione che dichiara:“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse per la collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.” .

 

Articolo 1 della L. 833: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della società mediante il Servizio Sanitario Nazionale. La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana.” .

 

L’articolo 1 comma 2 sancisce che l’attivazione del S.S.N. compete allo Stato, alle regioni e agli enti locali territoriali.

 

Gli articoli 6 e 7 individuano le competenze dello Stato e le funzioni delegate alle regioni, che sono investite dagli articoli 10 e 11 di una serie di competenze legislative, riconosciute al fine di costituire a livello locale la gestione e il controllo della rete dei sevizi a disposizione della collettività, tramite gli organismi locali delle U.S.L..

 

Siccome le diverse regioni vivono realtà socio-economiche differenti, il divario si evidenzia nelle competenze della sanità.

Dove esisteva una migliore situazione di base è stato fatto di più e meglio, nelle altre regioni è stato fatto poco e lentamente.

Lo Stato si poneva come 3° pagante, ovvero provvedeva alla copertura del fabbisogno finanziario determinato dalle decisioni di spesa di soggetti diversi. Un simile meccanismo,se privo di strumenti di contenimento delle possibilità di spesa, entra in crisi. Questo si è verificato negli anni ’80, con l’aumento dell’entità del fondo  sanitario nazionale a causa di un innalzamento sempre maggiore della spesa sanitaria. Tale innalzamento era da riferirsi soprattutto a costi di ospedalizzazione, prestazioni di laboratorio e spesa farmaceutica.

Da qui nasce l’esigenza di una profonda rivisitazione in senso critico della L.833, soprattutto  sui costi che richiedevano grossi stanziamenti, in contrasto con l’esigenza di risanamento dei conti pubblici, resa necessaria dalla decisione politica di far partecipare l’Italia al processo di unificazione europea.

 

 

Legge 412 del 23/10 /1992 “Riordino del S.S.N.”

 

Con questa legge lo Stato definisce la normativa in ambito di:

        Sanità

        Pubblico impiego

        Previdenza

        Finanza territoriale

 

D. Lg. 502 e D. Lg. 517

 

Questi due Decreti Legislativi emanati dal governo tendono a:

        Raggiungimento di obbiettivi programmatici sulla salute

        Uso ottimale e razionale delle risorse che il governo destina al settore sanitario

        Equa distribuzione delle risorse su tutti i fattori del sistema in atto

 

Con queste modifiche non crolla il principio di base del S.S.N., cioè garantire a tutti i cittadini l’assistenza sanitaria necessaria alla tutela e al recupero della salute, viene però riorganizzato il sistema:

        Vengono modificati i meccanismi di formazione e ripartizione del Fondo Sanitario Nazionale, con l’introduzione della quota capitaria che lega livelli uniformi di assistenza alla popolazione residente nelle diverse regioni, pesata attraverso diversi parametri (classi di età, tasso di mortalità, ecc…). Il cittadino gode di livelli di assistenza uniformi e obbligatori, per i quali sono stabiliti la soglia minima da garantire ai cittadini e il parametro capitario di finanziamento da assicurare alle regioni. Alle regioni viene consegnata una quota del Fondo Sanitario Nazionale (F.S.N.).

        Le USL e gli ospedali di rilievo nazionale si trasformano in aziende con autonomia giuridica, tecnica e finanziaria (assegnata ai dirigenti generale, amministrativo e sanitario). Le ASL sono enti che acquistano e vendono prestazioni sanitarie, necessarie e indispensabili al cittadino.

        Si introduce il concetto di concorrenzialità, cioè data l’esistenza sul mercato di un’organizzazione parallela a quella del S.S.N. di natura privata, alla quale i cittadini si rivolgono sempre con maggior frequenza, per rimediare alle carenze del sevizio pubblico, lo Stato accoglie il principio del diritto del cittadino alla libera scelta tra diverse strutture e le riconosce come fornitrici di prestazioni sanitarie.

        A livello ospedaliero si cerca di ridurre al massimo i tempi di ricovero, con ripristino delle camere a pagamento.

 

Tali decreti sono stati applicati in un contesto già caotico con poca competenza per cui la loro applicazione ha causato ulteriore riduzione del livello di efficienza del S.S.N., penalizzando i cittadini con lunghe liste d’attesa e ricoveri lampo.

Internamente si sono verificati: blocco delle assunzioni e delle spese per nuovi acquisti.

 

 

 

Il Piano Sanitario Nazionale (1998-2000)

 

Si apre con l’Art. 32 della Costituzione, sottolineando che la salute è un bene pari all’integrità del territorio, alla pace sociale, …

Tutta la collettività deve cooperare alla difesa di questo bene, soprattutto perché il paese attraversa una situazione difficile.

Viene proposto un patto di solidarietà che deve intercorrere tra le istituzioni e i soggetti interessati al fine di poter dare concretezza e certezza alla tutela del bene salute.

Il piano si divide in due parti:

        Obbiettivi della salute: il cittadino deve guardare al bene salute con senso di responsabilità, fondata sulla constatazione che la malattia non danneggia solo l’individuo, ma la collettività in quanto costringe ad impiegare mezzi comuni, per giungere al recupero della salute del singolo. Lo Stato invita il cittadino a modificare stili di vita e atteggiamenti che sono considerati causa di morbosità, disabilità e mortalità. Ad esempio ci sono indicazioni per contrastare atteggiamenti negativi come fumo e  alcool.

        Strategie del cambiamento: sono formulati i principi guida che riguardano i livelli di assistenza, le modalità di finanziamento delle regioni e delle ASL. Le disposizioni trovano attuazione nel D. Lg. 229 del 19/06/1999 “Norme per la razionalizzazione del S.S.N.”. il decreto ribadisce l’Art. 32 della Costituzione, ma fa riferimento ai livelli essenziali ed uniformi di assistenza, che vengono assicurati rispettando il bisogno di salute, della qualità delle cure, della loro appropriatezza, tenuto conto dell’economicità dell’impiego delle risorse. Date le oggettive difficoltà economico-finanziarie, non è negato il principio generale del diritto alla salute, ma bisogna porre dei limiti alla sua esplicazione.

 

 

I Progetti-Obiettivo (PO)

 

Il PO 1998-2000 è stato approvato con DPR del 10/11/1999 e dalle disposizioni delle leggi finanziarie 97/98 che hanno accelerato il processo di chiusura degli ospedali psichiatrici prevenendo sanzioni finanziarie a carico delle regioni inadempienti.

Con i PO si realizza concretamente quella visione più moderna dell’assistenza psichiatrica introdotta dalla L. 180 incentrata su prevenzione, cura e riabilitazione del paziente con disturbi psichiatrici.

Il fulcro dell’assistenza si sposta dalle strutture di ricovero ai sevizi sul territorio. Il Piano Sanitario Nazionale 1998/2000 riconosce la complessa problematica e colloca la tutela della salute mentale tra le tematiche ad elevata complessità, rinviando tutto ad uno specifico PO, e vede come interventi prioritari:

        Il completamento su tutto il territorio nazionale del modello dipartimentale

        Riconversione delle risorse recuperate dalla chiusura dei manicomi destinandole alla realizzazione di condizioni abitative adeguate e alle attività dei DSM

        Riqualificazione e formazione del personale sanitario in particolare di quello operante negli ex OP

        Realizzazione di interventi sulla tutela della salute mentale in età evolutiva

        Adozione di programmi di aiuto alle famiglie con malati mentali per sostenere i gravi carichi assistenziali che essi affrontano quotidianamente

 

Nel PO 1998/2000 ci si occupa di aspetti ancora irrisolti come:

        Assenza di attenzione ai problemi dell’età evolutiva (ridurre la prevalenza e la gravità clinica delle situazioni psicopatologiche in età evolutiva, svolgimento di un’effettiva azione di prevenzione)

        Assenza di attenzione per gli ospedali psichiatrici giudiziari e istituzionalizzazione di pazienti in età evolutiva

        Carenza di valutazioni di efficienza e efficacia

        Mancata attivazione del monitoraggio della spesa

        Interventi non ben coordinati e conflitti di competenze professionali

 

E’ quindi importante che il PO 1998/2000 si concentri sulla salute mentale in età evolutiva considerando il problema della costituzione di poli ospedalieri per la patologia acuta nell’adolescenza, perché tali pazienti non possono essere collocati negli SPDC con gli adulti, bisogna anche considerare la sua famiglia.

Secondo il PO 1998/2000 il DSM deve ogni anno occuparsi della formazione e dell’aggiornamento del personale per incrementare la capacità di lavoro in équipe e la progettualità comune.

Tale PO pone attenzione al problema della qualità dell’assistenza, anche come qualità percepita dell’utente e dai suoi famigliari. E’ previsto che il DSM attivi un nucleo di valutazione e miglioramento della qualità professionale degli operatori e di quella percepita dagli utenti. Prevede inoltre che il DSM sia impegnato ogni anno in almeno un progetto di Miglioramento Continuo della Qualità (MCQ).

Nel corso del triennio, nel DSM, dovranno essere effettuati almeno i seguenti progetti di MCQ:

        Progetto per la valutazione della soddisfazione degli utenti, dei famigliari e della popolazione entro la quale opera il DSM

        Progetto per migliorare la qualità della documentazione clinico-sociale degli utenti

        Progetto per migliorare la continuità dell’assistenza

        Progetto per la razionalizzazione nell’uso degli psicofarmaci

        Progetto per migliorare la collaborazione con i famigliari

        Progetto per la riduzione della recidive

        Progetto sulla valutazione e sul miglioramento della soddisfazione degli operatori

 

 

L. 405/2001

 

L’08/08/2001 la Conferenza Permanente per i rapporti tra Stato, regioni e province autonome di Trento e Bolzano ha sancito l’accordo precedentemente raggiunto tra i Ministro dell’Economia e della Salute e i presidenti delle regioni in materia di spesa sanitaria e sull’assetto da dare nel futuro immediato al S.S.N., mediante l’attribuzione alle regioni di più ampia autonomia organizzativa e gestionale e l’assunzione delle conseguenti responsabilità in ordine al finanziamento del sistema al di là dei tetti di spesa predefiniti con il governo centrale.

Il S.S.N. si trasforma in senso federalistico. L’accordo al punto 15 dice:

 

“Il governo si impegna ad adottare entro il 30/11/2001 un provvedimento per la definizione dei LEA. D’intesa con la Conferenza Stato-Regioni”.

 

Con il D. Lg. 347 del 19/09/2001, convertito nella L. 405/2001 entrano in vigore i LEA (livelli minimi di assistenza) e sancisce che le regioni hanno tempo fino al 01/07/2002 per applicarli a livello locale.

Secondo i Lea sono a carico della collettività solo le prestazioni che sono necessarie, efficaci e appropriate; per alcune altre l’erogazione da parte del S.S.N. sarà subordinata a particolari indicazioni cliniche, mentre per le rimanenti l’onere graverà su coloro che ne vogliono comunque fruire.

C’è quindi l’intento di ridurre l’assistenza in regime di ricovero, dando un forte impulso all’assistenza territoriale (domiciliare, residenziale, semiresidenziale).

Le prestazioni totalmente escluse dai LEA sono:

        Chirurgia estetica, se non dopo incidenti

        Medicine non convenzionali

        Vaccinazioni non obbligatorie

 

Le prestazioni parzialmente escluse dai LEA sono:

        Densitometria ossea

        Medicina fisica e riabilitazione ambulatoriale

 

L’assistenza psichiatrica è affrontata nell’ambito dell’assistenza territoriale ambulatoriale e domiciliare, semiresidenziale e residenziale, in una dimensione di integrazione socio-sanitaria e di contemporaneo intervento a favore dei famigliari dei pazienti.

Le prestazioni erogabili, i modi di erogarle e gli standard assistenziali ai quali riferirsi sono quelli previsti dal PO “Tutela della salute mentale”.

 

 

Legge regionale 357 del 28/01/1997 “Standard strutturali e organizzativi del DSM”

 

Il DSM deve essere così strutturato:

        Il CSM a cui compete l’assistenza ambulatoriale e domiciliare, è il polo propulsivo per l’integrazione sociale dei soggetti con disturbi psichiatrici.

        Il Centro diurno e/o il Day Hospital.

        Il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC).

        Le Comunità Protette che sono distinte in due categorie in base ai diversi livelli assistenziali:

              1 . Elevata intensità terapeutica e intervento riabilitativo. Tempo di                                                     

                  permanenza definito in base al progetto, ma comunque non più di 36

                  mesi. Ospita il paziente nella fase sub-acuta o in quella iniziale del                          

                       progetto riabilitativo.

                   2. Medio livello di protezione e di intervento riabilitativo. Tempo di 

                       permanenza prolungato in funzione al progetto. Ospita il paziente

                       nella fase più avanzata del progetto riabilitativo.

        Il Centro di Terapie Psichiatriche (CTP) ubicato nel centro cittadino o urbano.

        La Comunità Alloggio (CA) che è un presidio socio-assistenziale utilizzato a supporto di un progetto terapeutico-riabilitativo gestito dal CSM competente del territorio.

 

Strutture in salute mentale

 

Le strutture deputate alla tutela della salute mentale sono:

        Il CSM che coordina interventi di prevenzione, cura, riabilitazione e reinserimento sociale dei pazienti nel territorio di competenza.

        Il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) ubicato in contesti ospedalieri con sevizio 24h/24, dove si fanno trattamenti psichiatrici volontari e obbligatori in condizioni di ricovero con non più di 16 letti e spazi ricreativi.

        Il Day Hospital che costituisce un’area di assistenza semiresidenziale per prestazioni diagnostiche e terapeutico-riabilitative a breve e medio termine. Si cerca di effettuare interventi farmacologici e psicoterapeutici riabilitativi e di ridurre il ricorso al ricovero o limitarne la durata.

        Il Centro Diurno che è una struttura semiresidenziale con funzioni terapeutico-riabilitative; i suoi compiti sono volti a consentire la sperimentazione, nell’ambito di progetti terapeutico- riabilitativi, di abilità della cura di sé e nelle quotidiane relazioni interpersonali.

        Le strutture residenziali che non sono soluzioni abitative, ma sede di programmi terapeutico-riabilitativi, per utenti di esclusiva competenza psichiatrica.

 

 

 I Gruppi Appartamento

 

Sono soluzioni abitative per rispondere a specifiche esigenze di residenzialità assistita di tipo non basilare, rivolte a pazienti giunti in una fase avanzata del loro reinserimento sociale.

I GA sono gestiti dal DSM, sono esclusivamente unità abitative per cui i pazienti rimangono in carico al DSM competente del territorio che è direttamente responsabile del progetto terapeutico-riabilitativo.

 

 

L’Affido Famigliare

 

Il DSM può prevedere l’affido di pazienti psichiatrici. E’ previsto un sostegno economico da erogare alla famiglia affidataria.

La famiglia è selezionata dal DSM dopo un corso di formazione organizzato dal DSM stesso .

 

Interventi di tipo economico

 

Sono di diversi tipi:

        L’assegno terapeutico che può essere erogato per diminuire i ricoveri in strutture residenziali sanitarie e deve essere parte integrante di un processo terapeutico-riabilitativo. Essendo alternativo al ricovero e pertanto di esclusiva competenza sanitaria, può essere erogato al paziente, ai famigliari o al tutore.

        Le Borse Lavoro che il DSM può istituire con propri fondi per inserimenti che possono essere formativi, lavorativi e/o occupazionali. Sono ad appannaggio delle fasce d’utenza giovane e adulta. È un intervento terapeutico-riabilitativo temporaneo.

 

 

 

 

 

“La salvezza del malato mentale è quella di restare nelle nostre case, coinvolgendo nella sua problematica la nostra vita reale, così che la sua presenza richiederà strutture terapeutiche vicine a lui, psichiatri a domicilio, organizzazioni comunitarie in cui possa sentirsi protetto, luoghi di lavoro dove possa trovare un ruolo, una funzione che giustifichi - davanti a se stesso - la sua presenza ne mondo”.

 

Franco Basaglia 1967

 

 

Legge Mariotti

La L.18 marzo 1968 n°431 determinò profonde innovazioni

dell’organizzazione dell’assistenza psichiatrica :

 

n     Riduzione delle dimensioni degli ospedali psichiatrici ad un massimo di 600 posti letto (125 per divisione);

n     Istituzione di divisioni di psichiatria negli ospedali generali

n     Parametri per le dotazioni di personale degli OP e dei CIM

n     Promozione dell’intervento psicologico e psicosociale a favore dei ricoverati

n     Introduzione del ricovero volontario

n     Abolizione della registrazione del ricovero in OP nel casellario giudiziario

 

Legge 180

La L. 13 maggio 1978 n. 180 sancisce:

 

n     L’ordinaria volontarietà del ricovero

n     La chiusura degli ospedali psichiatrici

n     Centralità degli interventi extraospedalieri nella prevenzione, cura e riabilitazione nel campo delle malattie mentali

n     Istituzione di servizi per le acuzie negli ospedali civili

 

Legge 833

La L. n. 833 del 23 dicembre 1978 “Istituzione del servizio sanitario

nazionale” definisce :

 

n     La fine della separatezza tra legislazione psichiatrica e legislazione sanitaria

n     Istituisce servizi a struttura dipartimentale con funzioni preventive, curative e riabilitative nell’ambito della salute mentale e dell’assistenza psichiatrica

 

 

ASSISTENZA PSICHIATRICA NELL’ ITALIA DEGLI ANNI ‘80

n   L’équipe multiprofessionale

n   La presa in carico

n   La continuità terapeutica

n   L’articolazione della risposta

n   Essere nel territorio

 

L’EQUIPE MULTIPROFESSIONALE

Il gruppo terapeutico :

n     E’ l’elemento centrale nella cura dei pazienti affetti da disturbi mentali gravi.

n     E’ l’oggetto prioritario di analisi e intervento.

n     Il suo buon funzionamento condiziona la presa in carico.

 

 

LA PRESA IN CARICO

Assunzione di responsabilità da parte di un équipe psichiatrica nei

confronti di un’utenza territoriale, il momento cruciale in cui il

gruppo definisce la sua identità culturale e tecnica in relazione alle

 esigenze e alle pressioni del territorio.

 

Diversi aspetti della presa in carico :

 

n     aspetti tecnici (dalla accoglienza alla valutazione, alla diagnosi clinica e alla scelta dei trattamenti).

n     Aspetti organizzativi  (passaggio dall’ambulatorio al servizio, al dipartimento o dalle prestazioni ai progetti di cura).

n     Aspetti etici (assunzione di responsabilità, continuità e funzione tutoria).

 

LA CONTINUITA ’ TERAPEUTICA

n   Il contestuale moltiplicarsi dei luoghi del servizio psichiatrico e il permanere della progettualità all’interno di un solo gruppo di lavoro

 

ESSERE NEL TERRITORIO

n   Il territorio è un campo vivo in continua trasformazione, stimolato dal servizio psichiatrico alla collaborazione tra risorse specifiche e aspecifiche e al lavoro di rete

 

 

n   La L. 502 / 1992 sancisce il riordino della disciplina in materia sanitaria e avvia una radicale trasformazione del servizio sanitario nazionale (definizione del DSM).

 

IL DIPARTIMENTO DI SALUTE MENTALE

n     Struttura assistenziale complessa finalizzata alla prevenzione, cura  e riabilitazione delle patologie psichiatriche, che utilizza come strumento operativo la presa in carico.

 

n     Nasce in un quadro macro sociale che vedeva la riduzione delle risorse e un incremento delle richieste di attenzione e di investimenti nelle aree di confine nelle quali la domanda di salute mentale si articola con altri problemi di carattere sanitario sociale (adolescenti, anziani, comorbidità con uso di sostanze, disturbi del comportamento alimentare...)

 

VANTAGGI DELL’ORGANIZZAZIONE DIPARTIMENTALE

n     Contempera le contrapposte esigenze

n     Permette un intervento globale e un intervento sanitario specializzato

n     Collega servizi sanitari che forniscono prestazioni diversificate

n     Supera le limitazioni di una struttura organizzativa di piccole dimensioni

n     Permette di applicare il principio della “cure progressive”

n     Favorisce il contenimento dei costi mediante un impiego razionale e intensivo delle risorse tecnologiche.

PROGETTO OBIETTIVO 1994-1998

n      Definisce funzioni e strutture integrate, in rete, secondo un disegno coordinato e predefinito da un’unica struttura direzionale : il DSM, da realizzarsi su tutto il territorio nazionale.

n      Il DSM vincola tutti gli operatori a una serie di interventi multidisciplinari unificati da obiettivo e valutazione comuni, ciò ne fa la struttura organizzativa idonea ad integrare i diversi momenti operativi a seconda dei bisogni presentati dalle persone affette da gravi disturbi mentali, secondo linee guida quali il mantenimento della presa in carico, della continuità e della responsabilità terapeutica.

n      L. 662/1996 : dispone che entro il 31 /01/97 le regioni adottino piani programmatici per la tutela della salute mentale, in attuazione di quanto previsto dal PON, che l’alienazione dei beni mobili e immobili degli ex OP costituisca lo strumento per il finanziamento dell’assistenza psichiatrica e vincola parte dei trasferimenti dal fondo sanitario nazionale all’attuazione del PON, con particolare riferimento alla chiusura degli ex OP.

n      L. 449/1997 : ribadisce i vincoli della 662 stabilendo criteri precisi per il monitoraggio del processo di chiusura.

PROGETTO OBIETTIVO 1998-2000

Obiettivi prioritari per la salute mentale :

n      Miglioramento della qualità della vita e dell’integrazione sociale dei soggetti con malattie mentali.

n      Riduzione dell’incidenza dei suicidi nella popolazione a rischio per problemi di salute mentale

n      Azioni prioritarie:

n      Completamento su tutto il territorio nazionale del modello organizzativo dipartimentale

n      Stretta integrazione delle strutture operative coinvolte

n      Riconversione delle risorse recuperate dalla chiusura dei manicomi

n      Obiettivi di formazione: adozione dui programmi di aiuto alle famiglie con malati mentali

n      realizzazione di interventi per la tutela della salute mentale in età evolutiva

 

 

IL DSM NELL’ORGANIZZAZIONE COMPLESSIVA DELL’AZIENDA

 

I criteri fondamentali di dipartimentalizzazione dei servizi sanitari alla persona :

n      Contenuto della domanda

n      Caratteristiche del richiedente

n      Caratteristiche della modalità di insorgenza e del decorso

n      Caratteristiche degli strumenti e del luogo della risposta

 

Vantaggi rispetto alle altre unità dipartimentali:

n      Continuità terapeutica spaziale e logistica ospedale -territorio

n      Continuità terapeutica temporale tra intervento, prevenzione,  cura e riabilitazione

n      Unità specialistica sotto il profilo tecnico-scientifico e culturale della disciplina psichiatrica

 

Limiti :

n      Non favorisce l’integrazione con altri servizi affini sotto il profilo della logistica

n      Non favorisce la presa in carico integrata delle situazioni multi problematiche

n      Non favorisce la presa in carico unitaria di problemi affini sotto il profilo dell’insorgenza

 

DSM E SALUTE MENTALE
- L’INTEGRAZIONE -

     Il metodo della psichiatria si fonda sull’integrazione, si pone il problema della specificità dell’approccio psicosociale delineando due percorsi :                   uno basato sulla risposta al disturbo emergente, o all’episodio acuto,         l’altro caratterizzato dalla presa in carico di pazienti i cui disturbi si prolungano nel tempo.

     Vi è un’altra dicotomia da considerare nella pratica della psichiatria : quella tra pubblico e privato.

     E’ importante integrare il contratto pubblico proposto dall’agenzia formale con il contratto privato stipulato dal paziente, attraverso un’alleanza di lavoro, una relazione che si proponga di rilevare e comprendere i suoi specifici bisogni.

     Per rispondere a nuove forme di bisogno sono emersi nuovi soggetti: pubblici, privati, le famiglie in funzione di cooperazione o di stimolo, i pazienti stessi come protagonisti.

     L’alleanza terapeutica va cercata con le realtà presenti nel territorio contribuendo al superamento del pregiudizio culturale.

    

- ASSISTENZA PSICHIATRICA-

     Si occupa di situazioni problematiche che vanno dalla clinica psichiatrica classica, in primis le psicosi ma anche quadri depressivi e disturbi di personalità, all’interesse per il più vasto campo della salute mentale, dalla prevenzione del disagio in età evolutiva ai comportamenti violenti.

    

     PON 98/2000 rappresenta un quadro di riferimento utile ma con punti di criticità :

    Difficoltà sia nel fornire risposte qualificate alle patologie dei minori, sia prendersi cura del paziente grave.

    Carenza di monitoraggio-verifica di appropriatezza degli interventi e di attenzione ai programmi di qualità.

    L’organizzazione delle UO di psichiatria risente spesso di un limite di chiusura e di una certa fissità nell’articolazione delle strutture.

    La parziale e solo teorica tutela del diritto alla libera scelta del curante da parte  dei cittadini

    Mancato o insufficiente funzionamento del DSM come momento di aggregazione e collegamento dei soggetti e risorse, pubbliche o private, che sono in campo per la salute mentale.

 

DSM E SALUTE MENTALE
- ATTUALI LINEE DI INDIRIZZO-

n     Sussidiarieta’

n     Centralità della persona

n     Lavoro dinamico per progetti :

    Necessità di differenziare i percorsi di cura, sulla base di un’accurata osservazione diagnostica e valutazione dei bisogni clinico-sociali.

    Elaborazione di progetti corrispondenti.

 

 

MODELLI E STRUMENTI DELLA PSICHIATRIA DI COMUNITA’

 

La mission generale del DSM- in quanto sistema di assistenza psichiatrica territoriale- è quello di occuparsi della prevenzione, cura e riabilitazione della totalità delle malattie mentali che si presentano in una specifica popolazione; la sua mission specifica, come sistema psichiatrico organizzato per garantire una gamma di interventi essenziali, va formulata a partire dalle politiche sanitarie definite a livello nazionale o regionale e delle strategie locali di ripartizione delle risorse.

Bisogna quindi definire una gerarchia delle funzioni. Quella gerarchicamente prioritaria del DSM consiste nell’intercettare ed accogliere i bisogni, trovare risposte e dar voce a chi non chiede: il paziente grave.

La presa in carico dei pazienti gravi è una scelta tecnica ed etica obbligata in un sistema pubblico.

 

LA PRESA IN CARICO E IL TRATTAMENTO

Occorre distinguere tra il prendersi cura di una persona da parte del servizio psichiatrico  (la presa in carico) e i modi, tempi e luoghi in cui nei diversi momenti della storia clinica la presa in carico si articola (i trattamenti).

Per presa in carico si intende l’insieme delle operazioni complesse che un’èquipe multiprofessionale mette in atto quando un paziente, che è andato incontro ad un episodio di malattia mentale grave, si rivolge al Centro di Salute Mentale. La complessità riguarda il fatto che singoli atti di carattere tecnico-professionale vengono svolti da più operatori, sia con il paziente che con i suoi familiari e con chiunque sia considerato parte in causa e che tutti questi atti devono essere raccordati da una funzione gruppale che restituisce ai singoli la posizione e il senso delle loro azioni tecnico-professionali.

Per trattamento si intende un insieme di atti tecnico-professionali che pur implicando anch’essi una presa in carico mentale ed emotiva del paziente e un’assunzione di responsabilità nei suoi riguardi, rispondano in modo più vincolante a criteri di indicazione, durata e attesa dei risultati.

La presa in carico è funzione dell’istituzione complessa del DSM, il trattamento è un insieme di prestazioni tecnico-professionali erogate da un’èquipe multiprofessionale più limitata o da un singolo professionista.

La presa in carico è caratterizzata da diversi aspetti :

-          aspetti tecnici : accoglienza, valutazione, diagnosi, scelta dei trattamenti;

-          aspetti organizzativi : legati al passaggio all’ambulatorio, al dipartimento, al servizio

-          aspetti etici : responsabilità, continuità, garanzia, assunzione del problema “tutorio”.

Spesso si preferisce parlare di presa in cura poiché il concetto di “carico” evoca onerosità assistenziale e una posizione di passività.

Essa rappresenta l’incontro tra due soggettività all’inizio della relazione terapeutica, momento di conoscenza e costruzione di una reciproca immagine interna, è il momento privilegiato di osservazione dei sintomi e di attenzione ai vissuti.

Vi sono diverse tipologie : la presa in carico urgente in ospedale o sul territorio; ordinaria che è fulcro dell’attività del servizio; interna ad un lavoro di consulenza, che quando va al di là della semplice espressione di un parere, può corrispondere a una micro-presa in carico.

Le direttrici variano a seconda della cultura prevalente nel servizio, dalla concezione più attiva, con una presa in carico globale e rigida, o passivo-recettiva dell’attività con la cosiddetta presa in “scarico” in cui può esserci un agire senza obiettivo.

Rispetto all’articolazione nel tempo occorre considerare separatamente la fase di accoglienza ed analisi della domanda, quella della relazione e del progetto terapeutico, quella della continuità terapeutica. La prima rimanda alle operazioni di accettazione, accoglimento, primo contatto, lavoro sulla fiducia ed elaborazione del progetto di trattamento. La seconda rimanda ai momenti di definizione di obiettivi e strumenti della presa in carico, al rapporto tra presa in carico e trattamenti.

La continuità terapeutica rappresenta il moltiplicarsi dei luoghi del servizio psichiatrico e permanere della progettualità all’interno di un solo gruppo di lavoro. Questa fase implica una continuità temporale, individuale attraverso la personalizzazione del trattamento, ma anche continuità, flessibilità, relazione. In questo ambito diventa centrale il lavoro di rete.

 

CASE MANAGEMENT E COMMUNITY CARE

Lo strumento del "Case Management", pensato in U.S.A. come modalità d'intervento della Community Care, è in gran parte nato dalle esigenze create dalle nuove legislazioni, prima quella psichiatrica, poi quelle sanitarie generali.
Possiamo considerarlo come un modo operativo economico ed efficiente teso all'efficace raggiungimento degli obiettivi di assistenza individuale. È un intervento orientato alla Persona e pensato sulla Persona superando, così, tutte le difficoltà di un'assistenza disaggregata, antieconomica e inefficiente, che rischia di lasciare l'assistito solo con i suoi problemi.
Il case management è definibile come un processo integrato finalizzato ad individuare i bisogni degli individui ed a soddisfarli, nell'ambito delle risorse disponibili, partendo dal riconoscimento della loro unicità.

Esso si configura come una metodologia d'intervento processuale, articolata in diversi momenti: la valutazione iniziale, la costruzione del piano assistenziale individualizzato, la messa in atto del progetto assistenziale, il monitoraggio, l’advocacy (tutela dei diritti dell’assistito mediante la definizione di un programma concordato tra l’assistito e la sua famiglia, favorire la presa di decisioni autonome), la conclusione dopo il raggiungimento dell’obiettivo.
Nel corso di tale processo, la responsabilità dei servizi forniti all'utente è del case manager (che possono differire per istruzione professionale e competenze, per le funzioni svolte e il numero di casi assegnati),il "responsabile del caso", il quale lo segue in tutti i suoi momenti. Tale responsabile può agire esclusivamente come "regista" che valuta, costruisce il piano e segue il caso nel tempo, oppure può essere direttamente impegnato nell'erogazione delle prestazioni. È previsto che a lui venga assegnata un'ampia libertà d'azione, che si traduce in potere decisionale su quali prestazioni fornire e nel disporre di un budget da utilizzare come meglio ritiene.

La decentralizzazione delle responsabilità decisionali al case manager e l'affidamento ad esso degli strumenti (economici e di autorità) necessari per metterle effettivamente in atto sono cruciali in questo modello. Il case manager è pensato come un operatore "imprenditore creativo".
Ciò significa che esso, in sede di valutazione iniziale, deve esaminare effettivamente quali sono i bisogni del richiedente, senza essere condizionato da una propria prospettiva teorica o dalle risorse disponibili. Il case manager deve poi saper costruire un "pacchetto di prestazioni", offerte da attori diversi, tra loro coerenti e coordinate, il più possibile adatte ai bisogni dell'utente. E', inoltre, cruciale la sua capacità di seguire il caso nel tempo, valutare come cambiano le sue condizioni e modificare quando necessario il pacchetto di prestazioni erogate. Nello svolgimento di queste diverse funzioni, è fondamentale che il case manager sappia costruire un dialogo costante con l'utente e la sua famiglia. Altra funzione importante è l’attività di counselling attraverso cui ottenere un potenziamento della capacità dell’utente di farsi carico delle proprie responsabilità.

Non si può analizzare il fenomeno del case management senza partire dal terreno organizzativo in cui si è sviluppato, che è di fatto la nuova concezione generale di politica sanitaria nazionale, nota con il termine anglofono di Community Care.

 

COMMUNITY CARE
Non è facile definire un analogo italiano della community care anche per l'ambiguità stessa che l'espressione ha assunto nel mondo anglosassone.
Processi di territorializzazione della sanità sono stati attivati anche in Italia; si pensi solo ai programmi per la gestione dei pazienti con patologie particolari presso il proprio domicilio, che coinvolge internisti, oncologi, geriatri, fisiatri, oltre, naturalmente, l'intervento territoriale psichiatrico; si consideri anche l'importanza che sta assumendo la medicina di base ed i servizi territoriali attivati nelle Aziende Sanitarie Locali. Resta, però, ancora non realizzata una vera e propria messa in rete dei servizi, integrandoli tra loro e proponendoli al pubblico in una forma altamente fruibile (come, ad esempio, attraverso internet).
La necessità di una visione globale e di rete dei problemi sanitari è strettamente collegata alla richiesta di rapidità, qualità, efficacia e fruibilità dell'intervento e si è accresciuta con l'accrescersi della conoscenza medica della popolazione, della diffusione di servizi sociali sul territorio e dalle esigenze di integrazione tra i servizi, laddove salute non è solo sinonimo di sanità psicofisica, ma include anche buona qualità di vita sociale. Di fatto la rete diventa uno strumento indispensabile per superare le difficoltà dell'assistenza proprie del modello ospedalocentrico.
Il significato dell'approccio di rete può essere meglio delineato prendendo in considerazione due dei maggiori punti di difficoltà che gravano sul funzionamento attuale del welfare state socio-assistenziale.
Il primo è la difficoltà della rete dei servizi istituzionali a differenziare oltre certi limiti la gamma delle prestazioni, nella loro continua ricerca di soddisfazione dei molteplici bisogni individuali. Riuscire a dare risposte diverse a bisogni diversi, via via sempre più immateriali e soggettivi, è stata la continua scommessa su cui si è accanito in questi anni il welfare state. La caratteristica più evidente che la rete dei servizi sociali è andata assumendo è stata proprio quella di una notevole differenziazione, ma è evidente ora che questo processo di continuo adattamento ai bisogni da parte del sistema delle burocrazie dei servizi incontra limiti strutturali.
Il secondo problema è connesso, invece, alla difficoltà di mantenere vivo, nelle prestazioni, ciò che potremmo chiamare, in senso generico, il loro senso umano. Risulta difficile, in altri termini, mantenere le prestazioni professionali, nella loro corsa verso un sempre maggior grado di specializzazione tecnica o di razionalizzazione burocratica, il più vicino possibile alle pratiche umane di base, conservando ancora il carattere di significativa comunicazione interumana.
Dunque, i servizi organizzati, considerati come un tutto, sono spinti a segmentarsi fino ad entrare dentro ai bisogni in modo relativamente mirato.

Essendo entità organizzate, questa capacità di differenziarsi risulta in loro una caratteristica peculiare. Ma vi è un punto limite oltre il quale questa avanzata verso il particolare si fa via via più difficoltosa. Lo spezzettamento funzionale dei servizi si arresta quando essi devono entrare in interazione con bisogni specifici e particolari, che richiedono risposte nel qui ed ora, dense soprattutto di calore umano e affettività, oppure risposte materiali così minute e ininterrotte da poter essere sostenute solo nella cerchia della responsabilizzazione e del coinvolgimento affettivo a breve raggio.
Sono queste le due principali direttrici (differenziazione e specializzazione delle prestazioni, nonché loro umanizzazione) dentro le quali si è dovuta incanalare l'evoluzione moderna del welfare state e del lavoro sociale.
Si è creduto di intravvedere la chiave di risoluzione di questa difficoltà, in una prima ipotesi di community care, cioè nel creare, per rispondere alle difficoltà di vita del cittadino, servizi integrati nella comunità, collocati dunque nel punto fisico più vicino all'insorgere dei bisogni e al fluire naturale delle risorse umane.
In effetti, fra i vari principi guida delle recenti riforme di politica sociale, quello che più ha smosso la cultura, la legislazione e la prassi quotidiana è quello della integrazione sociale, o della cosiddetta normalizzazione, intese come affermazione del diritto di ogni persona, indipendentemente dalle sue difficoltà o handicap, a godere di normali condizioni di vita.
Questo movimento di andata verso la comunità si è sviluppato in due momenti interconnessi, che possono, ad ogni modo, essere concettualmente distinti (Folgheraiter, 1995):
· l'impianto nelle comunità di piccole strutture di servizio alla persona (i cosiddetti servizi sociali personali): questo primo sviluppo "ha portato nel suo complesso alla costituzione di un'articolata rete formale di supporto comunitario, a composizione mista pubblico/privato";
· una rinnovata presa di coscienza delle potenzialità della comunità stessa come contesto di cura e promozione umana.
In quest'ottica rete di servizi e loro fruibilità combaciano; le esigenze, quindi, implicano impegni strutturali, funzionali, di procedimento e, non ultimo, di informazione. Per rispondere a queste esigenze i principi generali cui ispirarsi per una corretta Community Care sono:
- consultazione e partecipazione
- autodeterminazione e autonomia
- strutture normali
- segregazione minima
- protezione ed ospitalità
- piccoli servizi
- collocazione dei servizi in luoghi accessibili nell'abitato
- soluzioni ambientali invece di servizi speciali
- diminuzione dello stress
- trattamenti calibrati sulle specifiche necessità di una persona
- stimolazione delle abilità delle persone nel risolvere i propri problemi.
Nella realizzazione di un progetto dovremo, quindi:
- assicurare l'ACCESSIBILITÀ dei servizi
- rispettare la RILEVANZA dei bisogni espressi
- operare con EFFICACIA per l' utente
- mantenere l'EQUITÀ nella distribuzione delle risorse e dei servizi alla popolazione
- considerare l'ACCETTABILITA' SOCIALE dell'offerta e dell'accesso
- operare con EFFICIENZA ed ECONOMIA
- considerare la PREVALENZA di particolari patologie.

La realizzazione dei servizi e della rete che li collega è l'operazione di base, ma la Community Care deve essere caratterizzata da:
1. presa in carico di problemi di assistenza a lungo termine;
2. centralità delle pratiche di deistituzionalizzazione (come quelle messe in atto nel nostro paese in psichiatria al termine degli anni '70);
3. attenzione alla necessità di ridurre nel tempo il grado di dipendenza del soggetto dal sistema assistenziale;
4. valorizzazione di risorse non professionali;
5. partecipazione crescente dei soggetti alle decisioni che li riguardano, anche esercitando la possibilità di scegliere tra diverse opzioni .
Una parte essenziale per raggiungere questi scopi è data da una "funzione di interpretariato" tra gli outsiders della società e coloro che occupano posizioni di gestione. Perchè una politica di community care possa dare i suoi frutti è importante che sia la comunità locale nel suo complesso a sentirsi investita dei processi di cura ed autonomizzazione che la riguardano.
Anche l'utente cambia prospettiva in un processo di community care: egli deve sapere di essere nel diritto di scelta e tale diritto deve essere considerato parte essenziale ed integrante dei servizi.
Ecco perché le politiche sanitarie devono incentivare tre aspetti che sono potenzialmente in grado di promuovere il diritto di scelta degli utenti:
1. l'informazione;
2. l'implementazione del case management;
3. lo sviluppo di servizi a vantaggio degli utenti.
L'autonomizzazione degli utenti è quindi scopo e mezzo della community care: essa deve supportare i processi che la consentono badando che l'aver cura degli utenti non passi attraverso la loro deresponsabilizzazione o li blandisca con eccessive ed ottimistiche sopravvalutazioni delle cure.



Un atteggiamento corretto e consequenzialmente responsabilizzante è caratterizzato da:
1. indagare sui problemi ed intervenire solo previo consenso dell'utente o, se l'intervento rappresenta un dovere istituzionale;
2. coinvolgere tutti i membri significativi della famiglia;
3. perseguire obiettivi di massima chiarezza degli accordi;
4. offrire all'utente la possibilità di scegliere tra il maggior numero di opzioni alternative possibili.
Gli interventi di cura nella comunità (community care) devono affrontare, in molti paesi, alcuni problemi comuni. I principali consistono nella scarsa flessibilità nell'utilizzo delle diverse risorse assistenziali, nelle difficoltà a coordinare l'operato degli attori coinvolti e nel non riuscire a fornire interventi appropriati rispetto ai bisogni dell'utenza. In questa situazione, risulta assai difficile sviluppare una rete integrata di interventi nel territorio, tra loro coordinati e tesi al raggiungimento di un medesimo fine. Per fronteggiare tale situazione, a partire dagli anni '70 la metodologia del case management ha iniziato ad essere utilizzata negli Stati Uniti ed in Europa. Tale metodologia ha conosciuto un notevole sviluppo ed è attualmente assai diffusa. Anche nel nostro paese vi si guarda con crescente interesse e le sue applicazioni a livello locale sono in crescita. Questa metodologia viene utilizzata per diversi gruppi di utenti, principalmente anziani e persone con problemi di salute mentale.
Attraverso i luoghi, i tempi e la rete della community care il nuovo scenario della psichiatria dispiega un quadro in cui anche pazienti, familiari, cittadini diventano coprotagonisti della vita dei servizi, attraverso un progressivo passaggio dall'assistenza, da sempre delega, all'accompagnamento, sistema graduale e ragionato di integrazione.

IL CASE MANAGEMENT PSICHIATRICO
L'affermazione della community care, prima in Gran Bretagna, negli U.S.A. di rimando, e poi nell'occidente europeo si è accompagnata all'emergere di un riposizionamento degli attori sulla scena terapeutica. È cambiato infatti il ruolo del curante attraverso i processi di risoggettivizzazione che hanno accompagnato l'introduzione del modello aziendale in sanità ed è andato assumendo importanza il "case management", inteso come l'attribuzione ad un operatore del ruolo di "operatore chiave" per una determinata situazione e quindi come un esempio di decentramento delle responsabilità che punta a rendere le responsabilità gestionali, attraverso la localizzazione e la individualizzazione, più rispondenti alla domanda. Il Case Management si avvale di premesse concettuali e di elementi strutturali ed organizzativi propri del Disease Management (che è un approccio integrato alla malattia, teso al miglioramento dei risultati clinici -outcomes- e della qualità dei servizi offerti nell’ottica di razionalizzare la spesa) e del Project Management (che è la gestione di un’impresa complessa unica e di durata determinata rivolta al raggiungimento di un obiettivo chiaro e predefinito mediante un processo continuo di pianificazione e controllo di risorse differenziate e vincoli di costo, tempo, qualità). Il termine "case management" deriva dall'insieme di due diversi approcci rispetto ai problemi presentati dalle persone affette da disturbi mentali. La parola "case" deriva dalla tradizione medico clinica, centrata sulla necessità di prestare le cure necessarie alla singola persona sofferente. La parola "management", d'altra parte, deriva da una cultura e da una tradizione assai distanti, che esaltano la necessità di organizzare un programma che permetta di sistematizzare gli interventi nei confronti dei pazienti più gravi e gravosi in un certo contesto, per ottenere la massima efficacia possibile. Ciò implica la presenza di una metodologia che possa dare l'indirizzo strategico, riferito al contesto territoriale e alla risorse disponibili.
Il case management nasce negli Stati Uniti negli anni '70 proprio per rispondere ai problemi di integrazione e continuità del servizio caratteristici della community care. Trattandosi di un termine che definisce un concetto tuttora piuttosto ambiguo e dalla oggettività non univoca, le diverse agenzie, professionali, istituzionali, politiche e scientifiche l'hanno utilizzato di volta in volta con accezioni diverse, a secondo degli interessi in campo; nel campo della salute mentale è stato utilizzato all'inizio degli anni '80, nell'ambito degli strumenti considerati più efficaci per riorganizzare il sistema pubblico per la salute mentale.

Il case management si fonda essenzialmente su cinque presupposti , che sono:                                                                                                         1. identificazione e riconoscimento dei bisogni;
2. sviluppo di un progetto di presa in carico complessiva per rispondere a questi eterogenei bisogni;
3. garantire la concreta accessibilità dei servizi per la persona, prestando attenzione alle sue scelte e svolgendo politica di attivazione di servizi diversi dal proprio in una prospettiva di rete;
4. monitoraggio e promozione della qualità dei servizi offerti;
5. offerta di un supporto che, pur potendosi realizzare anche in tempi lunghi, si caratterizzasse per essere flessibile e modificabile in relazione alle trasformazioni delle necessità della persona.           

Gli obiettivi prioritari del case management possono essere considerati i seguenti:
1. la garanzia terapeutica sia trasversale che longitudinale;
2. la promozione dell’accessibilità ai servizi;
3. l’individuazione delle responsabilità gestionali;
4. l’efficienza.
I soggetti cui il “Case Management” si orienta principalmente sono gli anziani, i malati e i portatori di handicap. Gli interventi pensati nei loro confronti sono solo parzialmente simili: la delicata realtà di alcune condizioni di malattia e delle situazioni sociali in cui tali malattie sono emerse differenzia notevolmente l’intervento di case management psichiatrico dagli interventi su altre patologie.
L’utilità del case management nella costruzione di reali prospettive di uscita dal circuito, “presa in carico totale e totalizzante del ricoverato e quella di nessuna presa in carico del dimesso”, emerge con chiarezza nel modello definito reticolare, nel quale il reticolo non va inteso solo come la rappresentazione della rete dei servizi socio - sanitari e dei luoghi fisici della città ma, soprattutto, come la rappresentazione grafica delle relazioni emotive e della trama narrativa che le contiene.

Un modello reticolare esplicita luoghi fisici e luoghi della mente, storia del paziente e storia del servizio, dimensione intra-psichica e dimensione relazionale.
La salute mentale non è imprigionata in un luogo fisico; utilizza spazi ed agenzie creando opportunità, perché si pone come servizio alla Persona, al territorio di competenza, attraverso un reticolo che lo percorre, parallelamente ed in relazione con altri reticoli (servizi sociali, medicina di base, ecc.).
Questo modello è teoricamente senza confini, proprio come la trame delle relazioni di ogni persona e quindi anche dei nostri pazienti; questo non significa che sono infinite le competenze del servizio, ma che esso interagisce con punti di un sistema che possono collocarsi in contesti biologici, psicologici, e sociali.
La prospettiva di case management è orientata su ciò che è intorno alla Persona.
Il concetto di “case management” permane tuttavia piuttosto ambiguo e non del tutto definito dal punto di vista scientifico, anche se sul piano operativo sono assai ben definiti i diversi ambiti in cui si può applicare il modello:
1. interventi terapeutici di tipo specialistico psichiatrico (farmacoterapia, psicoterapia individuale e di gruppo);
2. interventi riabilitativi centrati sul paziente;
3. interventi di organizzazione e sviluppo dei servizi dedicati alla tutela della salute mentale;
4. interventi volti al contenimento dei costi dell’assistenza psichiatrica.
In ciascuno di questi ambiti il programma case management può permettere una migliore gestione ed organizzazione dei trattamenti a lungo termine riservati agli utenti con i disturbi più gravi, un rafforzamento del network complessivo dedicato alla tutela della salute mentale ed uno stile di lavoro degli operatori più avanzato, utilizzando prevalentemente le tecniche di intervento di riconosciuta efficacia, secondo il modello della "evidence based psichiatry" .

 

Ci sono tre questioni ben definite da affrontare prima della applicazione di un programma di case management in un network che si occupi di assistenza psichiatrica in un certo territorio:
1. quali sono le attività comprese e come queste si possono differenziare rispetto ai trattamenti standard;
2. quali sono gli utenti verso i quali il programma è indicato e potenzialmente efficace;
3. come deve essere organizzato un centro di salute mentale per permettere ad un programma di "case management" di funzionare efficacemente.
In sintesi si potrebbe dire che è necessario stabilire prioritariamente le attività e gli interventi correlati alla realizzazione di un programma di "case management", l'accreditamento e la qualità delle procedure terapeutiche e riabilitative, nonché, le responsabilità organizzative ed operative attraverso:
1. Identificazione e riconoscimento degli utenti.
2. Collegamento continuo, ai fini del mantenimento della presa in carico, con gli utenti meno motivati e più resistenti, anche allo scopo di favorire prassi attive e non di attesa nei confronti di questi ultimi utenti, secondo le indicazioni del progetto obiettivo nazionale.
3. Attività di intermediazione, appoggio e supporto strutturato agli utenti nei confronti di altre unità operative o strutture del dipartimento di salute mentale, nonché nei confronti di altre agenzie sanitarie e sociali del territorio. Tale attività deve essere condotta autonomamente dal case manager con credibilità personale e professionale, che gli derivano dalla competenza, esperienza e conoscenza approfondita delle risorse presenti nel dipartimento di salute mentale.
4. Funzione di coordinamento. Tale funzione si esercita integrando le diverse professionalità presenti nell'unità operativa e coinvolte sul caso in questione.
I programmi di case management rappresentano, per questa operazione, una guida, un accompagnamento per il paziente verso un suo riposizionamento rispetto all'addensamento delle funzioni terapeutico - riabilitative necessarie durante e dopo l'episodio di malattia grave. Mentre nella dimissione dai luoghi e dai trattamenti la responsabilità dell'istituzione cessa in modo puntiforme, nell'accompagnamento la responsabilità transita progressivamente dall'istituzione alla società nel miglioramento, e in senso inverso quando intervengono crisi o recidive.
E' ormai dimostrato che i programmi di "case management" sono un modello di presa in carico continuativa, intensiva e a lungo termine che, introdotti nelle pratiche operative ed organizzative dei Dipartimenti di Salute Mentale, possono permettere una maggiore efficacia degli interventi nei confronti della persone affette da gravi disturbi mentali, consentendo al tempo stesso una maggior efficienza delle unità operative finalizzate alla tutela della salute mentale, una razionalizzazione delle risorse utilizzate e un contenimento dei costi della psichiatria.

Di fatto il case management psichiatrico nell'accezione italiana (potremmo dire europea) risulta valido per il sofferente di disturbi psichici perché:
sul piano personale
- ha un ascolto privilegiato senza limiti temporali e spaziali;
- si confronta in piccoli gruppi che vivono il normale tessuto sociale;
- viene gestito il suo caso in tempo reale;
- è stimolato ad una completa autonomizzazione sociale e terapeutica.
sul piano sanitario il case management:
- riduce i costi della cura;
- previene le ricadute (nuovi lavori inficiano questa convinzione);
- migliora la compliance terapeutica;
- incrementa la qualità della vita delle persone.
sul piano sociale:
- facilita l'immissione al lavoro;
- combatte lo stigma;
- implementa la rete dei servizi.

Sembra avere positive ripercussioni anche sul gruppo di lavoro favorendo il miglioramento della capacità di lavorare per progetti, facilitando lo sviluppo di capacità empatiche e relazionali, incrementando il senso di responsabilità per il proprio operato e un aumento di soddisfazione per il proprio ruolo lavorativo.                                                                           

La prima formulazione consisteva  in un approccio più burocratico dove il Case Manager si occupava di fissare gli appuntamenti e controlli, lasciando però il paziente sostanzialmente da solo a decidere quale trattamento seguire.                                                                                 

Si passò poi al Clinical Case Management fondata su una relazione di fiducia tra il paziente e un operatore di riferimento che accompagnava il paziente nel percorso attraverso le prestazioni sanitarie e psicosociali. Un’ulteriore evoluzione è stata quella dell’Intensive Care Management (ICM) con la garanzia di servizi da parte di un’èquipe sulle 24 ore, una intensificazione della relazione, un approccio d’èquipe, il coinvolgimento in attività di supporto pratico da parte di personale tecnico psichiatrico con finalità rieducative e terapeutico-riabilitative.                         

Negli Stati Uniti l’ICM ha riconosciuto la sua applicazione più famosa sotto forma di Assertive Community Treatment (ACT) che abbina alle componenti dell’ICM una estrema strutturazione del lavoro dell’operatore psichiatrico ed una sua formazione a compiti di riabilitazione e rieducazione alla vita autonoma sul territorio.                                                                                           

Un’èquipe  di ACT è formata da 10-12 operatori: il numero deve essere sufficientemente ampio da poter comprendere varie professionalità e garantire l’assistenza sette giorni su sette, ma sufficientemente piccolo da permettere a ciascuno dei suoi membri di conoscere personalmente tutti gli utenti. Un aspetto fondamentale del lavoro è costituito dall’assertività o direttività che si esprime nello slogan no drop out policy vale a dire nell’imposizione esplicita di una relazione di cura e nell’impossibilità da parte del paziente di sottrarsi al trattamento, pena il ricorso tempestivo alla coazione. I componenti del gruppo ricevono per quanto possibile una formazione anche nei settori di competenza di altri operatori e si rendono disponibili ad intervenire insieme e a coordinarsi. Questo lavoro di squadra è facilitato dalla valutazione congiunta quotidiana della situazione di ciascun utente e dalla programmazione comune delle attività quotidiane del gruppo.                  Questa modalità di lavoro è stata studiata in Europa, ma a differenza dei risultati cosi positivi negli USA, ha prodotto risultati appena apprezzabili. Questo perché la ricerca statunitense si basa sull’attuazione di programmi a sé stanti, mirati verso specifici gruppi di utenti, finanziati per produrre un prodotto completo senza necessità di collegamento con altri servizi o programmi. L’assistenza europea invece si sviluppa entro assetti finanziari che si inseriscono nel contesto di un più ampio e articolato servizio di salute mentale destinato a un’area geografica definita.            

Negli USA gli ACT sono centri specialistici di terzo livello a cui si accede sulla base di caratteristiche selettive dell’utenza e che spendono molte risorse nella formazione specialistica e nella valutazione degli interventi che erogano. In Europa invece ogni servizio è l’unico e il solo responsabile dell’assistenza psichiatrica nella sua zona geografica di pertinenza e non potrà mai negare l’assistenza a un utente in base alle sue caratteristiche o a causa di un eventuale sovraccarico del servizio. In Europa vi è quindi una preferenza per servizi generici,  mentre negli USA per servizi specialistici . Questa modalità si è rivelata di scarso beneficio in alcuni gruppi di utenti come persone che soffrono di disturbi primari di personalità, utenti con problemi con la giustizia,  quelli con doppia diagnosi e utenti più gravi con disturbi particolarmente resistenti al trattamento e gravi problemi comportamentali. Gli psichiatri europei si trovano tuttavia impossibilitati a escludere questi pazienti dall’assistenza e dagli studi e sono costretti a operare in contesti che impongono loro la presenza di questi utenti, indipendentemente dalla riuscita degli interventi. Questo porta a riflessioni soprattutto di carattere etico, trattandosi di decidere su quali pazienti investire più risorse in contesto di economie sanitarie razionate.                                                                                Un’altra differenza riguardo ai team consiste nelle dinamiche dei rapporti tra medici e infermieri. In Italia l’abbondanza del personale medico fa sì che gli infermieri psichiatrici si limitino spesso a eseguire le direttive dei medici delegando quasi interamente a questi ultimi la responsabilità clinica dei pazienti. In Gran Bretagna la relativa carenza di psichiatri ha favorito l’emancipazione professionale degli infermieri che sono abituati ad assumersi considerevoli responsabilità cliniche. Negli USA l’ ACT è considerata l’unica pratica evidence-based ed aspira a diventare l’unico modello di trattamento riconosciuto ai fini assicurativi e finanziari grazie alla notevole mole di lavori a sostegno della sua efficacia.                         

 

L’ AUTO-MUTUO-AIUTO

Il termine "auto-aiuto" sta ad indicare un particolare tipo di approccio ai problemi che si presentano nel corso della vita di una persona e non rappresenta affatto una novità. Infatti sotto questo nome si possono annoverare le varie forme di aiuto,più o meno organizzato, che gli esseri umani si sono scambiati nei secoli. In pratica esso si è tradotto mettendo le capacità, le esperienze, le risorse dei singoli al fine di risolvere una situazione di squilibrio o di difficoltà.

La solidarietà verso un proprio simile in condizioni di bisogno rappresenta sostanzialmente un istinto presente (sia pure con diversa espressività) nel regno animale, specie nei gradi più elevati nella scala evolutiva. Essa è stata variamente incanalata, rielaborata e strutturata in rapporto a diverse esigenze. Nelle società tribali un gruppo di persone si prende carico di procurare, attraverso caccia e pesca, cibo per tutto il gruppo, mentre gli individui non adatti a questo compito, si occupano di altre mansioni. Le partorienti (ancora oggi in certe culture) vengono prese in carico da donne che hanno vissuto la stessa esperienza. Anche il lutto, la perdita di una persona cara, viene condiviso con manifestazioni esteriori pure da persone non strettamente legate al defunto manifestando in questo modo la propria vicinanza a chi viene lasciato, aiutandolo in questo modo a rielaborare l'evento, forse coscienti del fatto di condividere un destino ineludibile per tutti.

Nel corso della Storia dell'Uomo, alle primitive manifestazioni di solidarietà a carattere collettivo, fecero seguito (o si affiancarono) provvedimenti elargiti dalle autorità, più per accrescere il proprio prestigio, che per amor di prossimo (pensiamo all'antico Egitto o alla Roma imperiale).In seguito, per oltre un millennio, fu la Chiesa a farsi carico dei bisognosi, più che altro di cure materiali, e cioè provvide a fornire alloggio e cibo.

Nel 1601 l 'Inghilterra emanò la Poor Law , ponendo le basi della pubblica assistenza, ben presto seguita dagli altri Stati. Ma parallelamente all'assistenza pubblica e alla beneficenza privata sorge appunto il mutuo soccorso. Nato dal disfacimento del feudalesimo, per far fronte alle situazioni di bisogno, esso trovò impulso dopo la rivoluzione industriale inglese al fine di cautelare le persone rimaste senza lavoro, costituendo dei fondi di solidarietà alimentati da tutti i consociati. La storia di questa mutualità ed associazionismo tocca i settori economico, ricreativo e culturale, ed è quasi imposta in Italia dalla totale mancanza di servizi pubblici di assistenza. La durezza della vita del popolo imponeva prima o poi a tutti di fare i conti con malattia, miseria, mancanza di lavoro, calamità naturali. Da tutto ciò scaturisce il sentimento di mutualità.

La nascita e lo sviluppo del self-help in Italia, avviene piuttosto in ritardo, rispetto ad altri Paesi. Questo per motivi culturali, sociali e religiosi. In Germania ad esempio, dove operano attualmente circa 1200 gruppi, uno dei motivi di tale diffusione è da ricercarsi nel diverso modo di celebrare la Messa , secondo il rito protestante il quale comporta maggior coinvolgimento. Si ha già avuto modo di vedere come forme embrionali di questo tipo, esistessero già nella preistoria fino ad arrivare a forme articolate di protezione sociale autogestite.

Nell'ambito sanitario i primi nuclei di auto-aiuto nascono proprio nell'area mentale. Una pietra miliare nel campo del disagio psichico, è senz'altro da individuare nella nascita degli Alcolisti Anonimi (U.S.A. 1935), maturata nel clima luterano dell'Oxford Group il quale coltivava valori come la condivisione, il non individualismo e l'altruismo.

All'interno di questi gruppi si sviluppa il concetto di self-help che enfatizza il ruolo individuale e la responsabilità personale nella messa in atto del cambiamento.

Le tre caratteristiche innovatrici ed immutate ai giorni nostri possono essere sintetizzate così:

 - esistenza di un problema comune

- privilegio della competenza derivante dall'esperienza , piuttosto che da una formazione specialistica

- dare e ricevere aiuto allo stesso tempo

Sempre negli USA e negli anni Trenta, nacquero spontaneamente dei Gruppi di Auto Aiuto costituiti da persone dimesse dai manicomi. Questi conoscono un notevole incremento negli anni Settanta, in alternativa o anche in opposizione al sistema psichiatrico istituzionale. Dagli USA il modello si espande in Nord Europa, dove trova un buon attecchimento grazie anche ai motivi già indicati.

In Italia dai primi Anni Settanta nascono una serie molto vasta di gruppi di auto aiuto che interessano varie tematiche: Alcolisti Anonimi, Diabetici, Donne mastectomizzate, Obesi, Familiari di Tossicodipendenti. Anche queste categorie di soggetti "svantaggiati" prendono in mano le redini del proprio cambiamento, attraverso la consapevolezza che esso è appannaggio della propria responsabilità.

I Gruppi di Auto Aiuto si propongono come modello alternativo di cura e riabilitazione sociale, essi rappresentano una risorsa per il territorio anche in tema di sensibilizzazione sui problemi trattati, contribuendo così, attraverso una maggiore conoscenza, a togliere lo stigma sul disagio o la malattia mentale. Se poi tali gruppi coinvolgono, più o meno direttamente, i familiari ciò incrementa il bagaglio di informazioni, aiuta ad infrangere il silenzio che spesso circonda situazioni sentite come fonte di vergogna.

L’OMS (Organizzazione mondiale sanità) definisce l’auto-mutuo-aiuto (AMA) come l’insieme di tutte le misure adottate da figure non professioniste per promuovere, mantenere o recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata comunità. L’AMA è, pertanto, considerato come uno degli strumenti di maggiore interesse per ridare ai cittadini responsabilità e protagonismo, per umanizzare l’assistenza socio-sanitaria, per migliorare il benessere della comunità. L’elemento originale dei gruppi AMA è rappresentato dagli input di energia che provengono dal basso in quanto questi gruppi fanno leva sulle motivazioni, le esperienze ed i conflitti delle persone direttamente coinvolte nella patologia o comunque nelle varie problematiche che generano innumerevoli forme di disagio psichico o personologico, piuttosto che sull’esclusiva presa in carico da parte delle istituzioni.I gruppi di auto-mutuo-aiuto (o self-help) sono "gruppi che offrono alle persone la possibilità di esercitare attenzione ai loro corpi, alle loro menti , ai loro comportamenti e possono aiutare altri a fare la medesima cosa. Non solo offrono supporto ma restituiscono alla persona una competenza, un senso di sé, un ruolo e la possibilità di nuovi legami"."I gruppi di self-help sono strutture di piccole dimensioni, di solito costituiti da pari che si uniscono per assicurarsi reciproca assistenza nel soddisfare i bisogni comuni, per superare un comune handicap, o un problema di vita oppure per impegnarsi a produrre desiderati cambiamenti personali o sociali."

Il mutuo aiuto comincia non solo con la consapevolezza di essere portatore di un disagio o di un problema, ma nel momento in cui la persona si attiva in cerca di aiuto. Il mutuo aiuto si verifica quando chi aiuta e chi viene aiutato condividono fatti, vissuti , emozioni di un medesimo problema. Le persone che frequentano un gruppo di auto-mutuo-aiuto sono unite da un disagio comune che tentano di fronteggiare al meglio, attivandosi in prima persona evitando deleghe massicce di responsabilità ai professionisti del settore, nella consapevolezza che vivendo la situazione dall’interno, sulla propria pelle, si possa svolgere un ruolo importante.Dunque, i protagonisti dell’auto mutuo aiuto sono coloro che vivono nel gruppo un medesimo problema. Attraverso la partecipazione e l’attivazione personale volontaria e spontanea, i membri condividono la loro storia e l’esperienza pratica, cercando di superare il problema comune. Ogni persona trova beneficio nell’aiutare un’altra in difficoltà. Poiché tutti i membri di un gruppo di auto-mutuo-aiuto si attivano contemporaneamente sulla base di tale principio, ciascuno beneficia di questo processo, aumentando il senso di auto stima, di auto efficacia delle proprie capacità e potenzialità positive.

Questo processo, naturalmente, si svolge senza necessariamente rinunciare alla competenza dei sanitari istituzionali e professionisti, anzi, si può sostenere che i due tipi di intervento si completano e potenziano a vicenda.

 

 

Caratteristiche dei gruppi di auto mutuo aiuto:

q       Condividono le proprietà dei piccoli gruppi : un numero ristretto di partecipanti (solitamente 10 persone) facilita l’interazione tra i soggetti , l’espressione dei sentimenti, la nascita e lo sviluppo di amicizie e relazioni profonde;

q        Sono centrati su un problema e organizzati in relazione a specifici problemi;I membri del gruppo tendono ad essere dei pari : è il fatto di vivere o di aver vissuto una stessa condizione che definisce l’appartenenza al gruppo;

q       Condividono obbiettivi comuni ;L’azione è azione di gruppo : l’energia e la forza che il gruppo è in grado di esprimere, sono sicuramente maggiori e più significative delle possibilità che ogni singolo partecipante ha a disposizione per la soluzione del problema;

q       Aiutare gli altri è una norma espressa dal gruppo : ognuno, con la propria esperienza e competenza, attraverso il confronto e la condivisione, trae aiuto per sé e per gli altri;

q       Il potere è la leadership : ogni decisione, cambiamento, regola, viene formulata, discussa e accettata democraticamente;

q       La comunicazione è di tipo orizzontale : non ci sono modelli strutturati di comunicazione: ognuno esprime liberamente il proprio pensiero, rispettando gli altri e senza accentrare su di sé la discussione;

q       Il coinvolgimento è personale : ogni persona decide autonomamente se e come prendere parte al gruppo. Non è una decisione imposta da altri, partecipare al gruppo volontariamente aumenta la sicurezza nelle proprie capacità di scelta ;

q       La responsabilità è personale : ogni persona è protagonista del cambiamento che vuole ottenere, la persona stessa è la prima risorsa per sé e per il gruppo ;

q       L’orientamento è all’azione : le persone imparano e cambiano facendo. Uno degli scopi dei gruppi è quello di sperimentare nuovi stili di vita e di comportamento, nuovi modi di sentire e trasmettere i propri vissuti. Attraverso gli sforzi ed i successi conseguiti e riconosciuti nel gruppo, la persona ha la possibilità concreta di aumentare la propria autostima e di credere nelle proprie risorse.

"La vita è sperimentata attraverso i problemi” 

Obiettivi dei gruppi di auto-mutuo-aiuto:

¾    Aiutare i partecipanti ed esprimere i propri sentimenti.

¾    Sviluppare la capacità di riflettere sulle proprie modalità di comportamento.

¾    Aumentare la capacità di riflettere sulle proprie modalità di comportamento.

¾    Aumentare le capacità individuali nell’affrontare i problemi.

¾    Aumentare la stima di sé, delle proprie abilità e risorse, lavorando su una maggiore consapevolezza personale.

¾    Facilitare la nascita di nuove amicizie.

 

 

 

CAREGIVER

 

 

Con il termine di Caregiver si definisce colui che presta le cure.

 

Si distinguono due tipi di questa figura:

1)     informale : figlio, coniuge, altro familiare o amico del paziente, detto anche seconda vittima della malattia per il suo grado di stress e coinvolgimento emotivo.

2)     formale: infermiere o altro professionista.

 

Il caregiver ha un  ruolo fondamentale nella storia della malattia, in quanto dal suo equilibrio fisico, mentale, affettivo e dalla sua tranquillità e disponibilità economica dipende spesso l’evoluzione della malattia. La variabilità dell’argomento è data innanzitutto dal fatto che sia il soggetto che fornisce il sostegno, sia l’oggetto che lo riceve che la natura precisa del sostegno stesso possono essere diversi. Si parla quindi di caregiving in molteplici discipline e nell’ambito medico in numerose branche ed in psichiatria in modo particolare. Affrontare l'argomento caregiving in psichiatria è un compito piuttosto arduo essendo un termine che indica un vasto campo d’azione, nel senso che si trovano in letteratura soprattutto spunti riguardanti il caregiver nei confronti del malato di Alzheimer, ma la figura del caregiver è centrale anche in altri disturbi psichiatrici, quali la schizofrenia, i disturbi legati alla sfera affettiva e alle dipendenze e i disturbi mentali dell’infanzia e dell’adolescenza.

 

PROBLEMATICHE ATTUALI

Le migliorate condizioni alimentari e sanitarie registrate negli ultimi 100 anni nei paesi occidentali hanno portato la vita media dai 60 anni di inizio '900 ai 76 attuali tanto che, oggi, gli over 80 non sono più l'eccezione bensì la regola. Di questo allungamento ne siamo tutti lieti ma esso, come tutte le medaglie, ha il suo rovescio. La vecchiaia porta con sé numerose patologie invalidanti che magari compaiono lentamente ma che finiscono per annullare l'autosufficienza dell'anziano: un destino quasi fatale per chi raggiunge età molto avanzate. In Italia le persone anziane in varia misura bisognose di assistenza sono milioni e oltretutto non ci sono solo vecchi da accudire. Accanto a loro anche invalidi, disabili, persone con gravi malattie ed altri soggetti incapaci di badare a se stessi, una cifra prossima a 10 milioni: è evidente dai numeri l'impossibilità per lo Stato di garantire a tutte un'adeguata assistenza. Ma allora chi si prende l'impegno di farlo? Risposta semplice: i familiari per primi seguiti da parenti, amici, vicini di casa e da collaboratori a pagamento, nell'insieme definiti “caregiver”. Si impegnano un po' in tutto: visitano tre volte al giorno la mamma che soffre di arteriosclerosi, fanno la spesa per il vicino malandato, accompagnano un anziano in carrozzina a fare un giro per la città, passano due ore in casa di una vecchietta sola.

C'è chi lo fa sotto la spinta di circostanze personali, chi sente il bisogno di fare qualcosa per il prossimo, chi per battere la propria solitudine o semplicemente per denaro. Oggi in Italia stando a dati del rapporto annuale Istat presentato a inizio ottobre sono ben 13 milioni i caregiver, in maggioranza donne sopra la cinquantina: se per un qualche motivo sparissero d'incanto, i servizi di assistenza pubblica non saprebbero certo come sostituirle. Quanto al “chi” riceve l'aiuto del caregiver, sono gli anziani ad averne più bisogno: dai dati emerge che oltre il 60% delle famiglie con un ultra 65enne necessitano dell'aiuto di un prestatore di cura. Ci sono poi gli affetti da invalidità acquisita, i soggetti nati con gravi patologie, chi soffre di un disturbo mentale, gli ammalati temporanei. Sorprendente è invece ritrovare tra i bisognosi dell'intervento del caregiver famiglie “normali”, con figli piccoli: una su tre con bambini al di sotto dei 14 anni ha ricevuto aiuto, un rapporto che scende a una su sei se la madre è casalinga. Ma anche una famiglia su tre con il capofamiglia disoccupato, indipendentemente dal numero, dall'età o dalla presenza di figli, ha avuto bisogno di un intervento di cura. Non è però il problema dell'invecchiamento della popolazione e le mutate sensibilità sociali verso chi ha comunque un bisogno a spingere 65 mila persone l'anno ad aggiungersi all'esercito dei caregiver. La spinta a fare da sé, ad inventarsi caregiver è data prima di tutto dall'assenza, o perlomeno dall'incapacità, dell'ente pubblico di provvedere ai bisogni di un così grande numero di persone. Sono cioè obbligate a far da sé, a prendere congedi straordinari, a scambiar turni sul lavoro, a trascurare il resto della famiglia, il tutto gratuitamente (nel 90% dei casi) ed anzi in parte a proprie spese.

 

Le cifre Istat

Dati del rapporto Istat: un italiano su quattro assiste un familiare, un vicino o un amico. Dal 1983 al '98 il ritmo di crescita di questi assistenti è stato dell'8 per cento raggiungendo i 13 milioni. Di questi solo il 5,6% operano in organizzazioni di volontariato mentre quasi 10 milioni operano per conto proprio.
Il 90% dei caregiver sono i genitori, amici e conoscenti (22%), i figli non conviventi e nipoti (15%), vicini di casa (12%) e fratelli (11%).
La maggioranza ha un'età compresa tra i 55 e 59 anni (è ipotizzabile che assistano i genitori tra i 75 anni e oltre) mentre l'età media è passata dai 43 anni del 1983 ai 46 di oggi. Una donna su quattro svolge un'attività a favore degli altri contro un quinto degli uomini. Una differenza ridotta in percentuale ma a guardar meglio i numeri si scopre una realtà diversa: ben due terzi delle ore prestate da tutti i caregiver (330 milioni di ore al mese, quasi 4 miliardi l'anno) sono delle donne.
Non bisogna d'altro canto pensare alla caregiver come una donna che, per dovere, necessità o per mancanza d'altro si dedica agli altri. Chiaro il rapporto Istat: il 57% delle caregiver è diplomata o laureata, per il 23% ha un lavoro. Solo il 24% è casalinga “per forza” ed ha anche una famiglia cui accudire. Quanto ai servizi sociali, il 40% dei Comuni con più di 20 mila abitanti non ha un centro sociale per anziani; il 30% non ha l'insegnante di sostegno per gli studenti con handicap, sbandierato come diritto garantito; più del 50% non dispone di servizi di inserimento lavorativo per disabili né centri per le emergenze sociali né assistenza domiciliare o fornitura di pasti per anziani soli e in difficoltà.

PROGRAMMI E OBIETTIVI

La discrepanza fra bisogno assistenziale e risorse disponibili stimola un maggior coinvolgimento del vissuto del paziente nell’assistenza; spesso i familiari che partecipano al programma di cura sono affetti da depressione e senso di abbandono.

Il caregiver è la persona che si fa carico della responsabilità concreta della cura, sia come investimento di tempo e di ruolo, sia come gestione delle risorse disponibili.

Spesso la persona che si prende cura del paziente non è scevra da legami affettivi e non sempre dispone della competenza tecnico-professionale necessaria.

Si rende quindi necessaria una attenzione particolare verso i familiari e le persone di riferimento del paziente, assecondando il loro bisogno di ascolto.

Il sistema attuale prevede la distribuzione del lavoro suddivisa in cure ospedaliere, domiciliari e residenziali e non sempre vi è una corretta interazione fra i vari livelli. Nel passaggio da un sistema all’altro il paziente rischia di perdere i propri riferimenti terapeutici ed assistenziali.

Occorre sviluppare un programma di cure che superi la divisione settoriale creando un sistema integrato di supporto assistenziale per gli utenti curati nel proprio ambiente familiare, differenziando i pazienti secondo la loro necessità di cura e assistenza.

LIVELLO OSPEDALIERO: formazione di figure di riferimento sanitarie per il paziente ricoverato attraverso l’analisi dei suoi bisogni e lo studio del percorso clinico - assistenziale. Inserimento dei familiari nel processo di cura ospedaliera attraverso un training condiviso.

LIVELLO SUCCESSIVO: migliorare assistenza ed esistenza dei pazienti dimessi dalla struttura aziendale nella fase post-ricovero attraverso una maggior partecipazione dei familiari, sostenuti da un supporto psicologico.

RISULTATI ATTESI: riduzione ricoveri impropri, riduzione degenza media, riduzione liste d’attesa per i ricoveri. In sostanza un modello organizzativo orientato ai bisogni del paziente e che valorizzi le professionalità sanitarie.

 


CURE “PALLIATIVE”

 
Le Cure palliative non corrispondono a terapia del dolore. Di controllo del dolore si parla già a partire dagli anni '50 ma è solo uno degli aspetti, anche se probabilmente il più importante, che compongono la realtà articolata delle cure palliative. Di queste però, si inizia a parlare solo a partire dalla fine degli anni '70" In quel periodo, infatti, visto il progressivo cronicizzarsi delle patologie acute ci si è posti il problema di affrontare in modo globale lo stato di sofferenza, caratterizzato da dolore grave e continuo, nonché tutti i sintomi fisici e psicologici. Lo scopo principale è migliorare la qualità di vita attraverso una rete di assistenza che l'OICP monitora costantemente, formata da hospice e cure domiciliari. Una realtà in crescita se si pensa che si annoverano 222 centri di cure palliative e 182 organizzazioni non profit dedicate a questi pazienti. Un numero raddoppiato in dieci anni. Per non parlare del trend di crescita degli hospice, strutture di ricovero specializzate nelle cure palliative che sono aumentati di oltre 25 volte, da tre a 78.

Le cure palliative si fondano su una triade rappresentata da malato, famiglia ed equipe medico - sanitaria. E’ stato fatto uno studio su 77 centri di cure palliative, per un totale di 454 questionari compilati in modo anonimo. Un dato colpisce su tutti. L'85% degli italiani che accudiscono un malato terminale rischia la salute. Otto volte su dieci si tratta di donne, figlie o mogli di pazienti. In media hanno 55 anni e nella maggior parte dei casi tagliano i ponti con l'esterno perché non possono permettersi una badante. Un "inferno", così definito dagli stessi caregiver, che nel 75% dei casi incide pesantemente sul bilancio familiare: una spesa che tra costi diretti e indiretti può superare i 4 mila euro al mese.

Riguardo al livello di soddisfazione l'81% degli intervistati ha giudicato ottime le cure offerte dalle unità di cure palliative. Inoltre, da cinque o sei anni a questa parte, le cose stanno cambiando e pur mancando sempre una scuola di specialità, esistono in Italia diversi centri che prevedono master e corsi di perfezionamento post-laurea.

 

ASSISTENZA ALLE PERSONE AFFETTE DA DEMENZA

La demenza non produce effetti solo sulla persona malata. Nella maggior parte dei casi ha un impatto importante anche sui membri della famiglia e gli amici che si prendono cura di loro. La maggior parte dei pazienti, specialmente nello stadio iniziale della malattia, possono essere assistiti a casa anziché ricorrere a case di riposo o altre strutture. Più della metà dei pazienti continua a vivere nella propria casa, e l'80-90% viene assistito da familiari e amici. In Europa risultano parecchie le ragioni alla base della scelta dell’assistenza domiciliare: un numero limitato di ospizi, alti costi per le strutture di lunga degenza e motivi etico - culturali.

L'assistenza a un malato di Alzheimer può provocare problemi emotivi, psicologici e fisici. Con il progredire della malattia, chi si prende cura del paziente finisce per allontanarsi dagli amici e dalle normali attività sociali. Anche le persone più devote non possono fare a meno di provare un senso di colpa per il rancore o la frustrazione che provano nel dover affrontare le modificazioni del comportamento causate dalla demenza. La demenza inoltre comporta notevoli problemi finanziari per i caregiver. Chi assiste un paziente a tempo pieno perde in media più di tre settimane di lavoro all'anno, mentre un quinto lascia definitivamente il lavoro per poter dare assistenza continua.

Se la demenza viene diagnosticata in uno stadio iniziale, i pazienti possono contribuire alla strategia della propria cura (ad esempio occuparsi dei problemi finanziari, redigere un testamento, prendere decisioni relative ai periodi successivi della malattia). Un riconoscimento e una diagnosi tempestivi della malattia di Alzheimer possono ridurre notevolmente il carico assistenziale che grava sul caregiver. Uno dei principali ostacoli a un'assistenza domiciliare ottimale è la mancanza di una preparazione adeguata per i caregiver. I problemi posti da un paziente affetto da demenza, come le alterazioni della personalità e del comportamento, possono essere difficili da gestire per gli assistenti non preparati. Se sono adeguatamente informati sulla demenza e si adattano ai comportamenti del malato, i caregiver possono imparare a personalizzare l'ambiente in cui egli vive, in modo da rendere l'assistenza meno complessa e stressante. I caregiver che si avvalgono del sostegno di gruppi di supporto e di strutture specializzate tendono a tenere il paziente a casa più a lungo di coloro che non li usano. Inoltre essi tendono a sentirsi più in salute e più gratificati dal loro compito. Tuttavia, ad un certo punto, la maggior parte di queste persone si rende conto che l'assistenza domiciliare al paziente non è più possibile. Una pianificazione fatta in precedenza può ridurre il trauma di dover decidere il passo successivo nella gestione dell'assistenza al paziente.

 

 

 

LE REGIONI E I PROGETTI SULL’ALZHEIMER

Le regioni presentano i loro progetti di studio sulla malattia. Tutti i progetti sono in fase iniziale, ma già ci sono i primi risultati. I pazienti ricevono maggiore beneficio dalle cure domiciliari piuttosto che da quelle ospedaliere.

Favorevoli alle cure domiciliari si dimostrano anche i familiari dei malati di Alzheimer, i cosiddetti caregiver informali, quelli cioè che forniscono l’assistenza continua al malato pur non avendo conoscenze specifiche in materia.
D’altra parte, la presenza per 6-8 ore al giorno di caregiver formali, personale appositamente formato dalla regione, è di grande sollievo per i familiari che possono così riprendere la loro vita sociale e lavorativa. Un conforto che arriva anche dall’équipe di medici che compie visite domiciliari settimanali e da un servizio giornaliero di fisioterapia, sempre a casa del malato. Figure professionali che contribuiscono a ridurre il senso di abbandono che le famiglie dei malati provano. Anche per questo sono state espresse perplessità sulla proposta di erogare un assegno domiciliare di assistenza, che da solo non sarebbe sufficiente a coprire le spese per le cure e non contribuirebbe a far sentire i familiari meno soli. Questo perché, al di là di poche iniziative ancora in fase sperimentale, le famiglie non hanno un punto di riferimento diverso dalle strutture ospedaliere.
Ma la domanda a cui gli operatori del settore non sanno ancora dare una risposta è come poter allargare queste iniziative oltre la fase di sperimentazione. Segnali concreti in questo senso arrivano proprio dal Ministero che ha istituito una commissione per l’Alzheimer.

 

7) I CENTRI DI ASCOLTO

 

L’impatto psicologico, emotivo, sociale ed economico della malattia sulle famiglie e su quanti vivono con un malato di Alzheimer è enorme. Famiglie e amici di persone affette da malattia di Alzheimer sopportano pesi psicologici e finanziari, e i caregiver stessi sono ad alto rischio di incorrere in problemi fisici e di salute mentale.   

I centri di ascolto nascono proprio dalla necessità delle famiglie o del caregiver di avere un punto di riferimento preciso dove trovare persone in grado di ascoltare i propri problemi o dubbi, avere un'opportunità di sfogo e di sollievo per le proprie sofferenze.
Al centro d'ascolto si possono incontrare operatori che per esperienza o professionalità (medico, psicologo, infermiere professionale ecc.) sono in grado di dare tutte le informazioni di supporto e aiuto ed indirizzare nella corretta gestione del paziente.
Questi centri sono attivi anche nella creazione di momenti di confronto tra familiari che vivono o hanno vissuto le stesse esperienze, cercando di costituire momenti di sollievo e conforto per poter proseguire nel gravoso lavoro di cura, anche con l'aiuto di esperti (psicologo, geriatra, neurologo, psichiatra, I.P. ecc);
Il centro d'ascolto orienta i famigliari dando informazioni precise per muoversi nella rete dei servizi al fine di accedere a servizi e prestazioni (accesso alle strutture pubbliche; come procedere per ottenere l'assegno di cura o l'indennità di accompagnamento; presidi sanitari; visite specialistiche ecc.);
E' stata strutturata anche un'attività di monitoraggio della qualità percepita dalle famiglie che usufruiscono di servizi specifici per le persone affette da demenze. La ricerca viene compiuta attraverso la somministrazione di un questionario al caregiver, con specifico riferimento a: la fonte informativa; il percorso di accesso; l'accoglienza; il servizio fornito; la dimissione; l'eventuale rapporto avuto con il Servizio Sociale di Base ed ai suoi esiti.

 

 

Controllo di gestione in sanità

 

Il SSN, a partire dai primi anni 90, è stato investito da un profondo e radicale processo di cambiamento; c’è stato un processo di aziendalizzazione delle strutture sanitarie, tale processo, con il conseguente aumento della loro autonomia gestionale, ha fatto sì che le direzioni aziendali abbiano agevolato la nascita di strumenti gestionali ed introdotto nuovi sistemi operativi per garantire un’efficace ed economica attività delle aziende sanitarie.

Il primo passo da compiere da parte dell’azienda sanitaria è l’elaborazione delle linee strategiche analizzando la situazione attuale, frutto di quella passata e base per le azioni future.

In primis occorre valutare l’efficacia dell’azienda rispetto ai bisogni manifestati dalla collettività analizzando la domanda potenziale, quella effettiva e quella realmente soddisfatta dall’azienda, al tal  fine di comprendere in quale direzione si stanno muovendo i bisogni degli utenti.

Funzionale al processo di pianificazione è l’implementazione di un sistema di osservazione ambientale che possa monitorare gli aspetti fondamentali ad essi connessi, quali quello economico, politico, tecnologico, ecc.

La tendenza economica del Paese in cui opera l’azienda sanitaria è di importanza fondamentale al fine di desumere, in via indiretta, le risorse che verranno destinate al settore sanitario.

L’aspetto politico, invece, relativamente alle forze di Governo può condizionare le politiche sanitarie adottate.

Lo studio della domanda per un’azienda di tipo sanitario, risulta di estrema importanza, in quanto, il suo carattere pubblico implica la capacità di soddisfare ogni tipologia di domanda.

Nell’analisi della domanda è necessario, anche, valutare le aspettative degli utenti e le loro decisioni di scelta in merito alle strutture presenti sul territorio; ciò potrebbe condurre ad una migliore distribuzione dei servizi offerti, garantendo una segmentazione tale da soddisfare le richieste provenienti dalle diverse tipologie di utenti.

Definita l’attività di pianificazione strategica, gli obiettivi, attraverso la pianificazione operativa, vengono tradotti in termini monetario-quantitativi attraverso lo strumento fondamentale del budget.

Il budget può essere di iniziativa, connesso al raggiungimento di un obbiettivo ben definito, o di periodo, se riferito ad un obiettivo da attuarsi entro un determinato periodo di tempo.

Può essere inoltre, generale, se riferito all’azienda nel suo complesso, o settoriale , se riferito a specifici settori .

Il budget generale, essendo un insieme coordinato di budget settoriali permette un controllo di carattere globale su tutta l’attività, sia sul piano economico sia sul piano finanziario.

Infine, a secondo del contenuto, esso può essere classificato in:

-       budget degli investimenti, che elenca e descrive gli investimenti gli investimenti programmati, vale a dire una serie di progetti che l’azienda intende finanziare nell’anno di budget;

-       budget di cassa, che evidenzia le entrate e le uscite, ossia incassi ed esborsi;

-       budget operativo, che esprime il programma di gestione relativo ad un determinato periodo di tempo.

Gli elementi che costituiscono il budget sono:

-       i costi o le uscite, che rappresentano, generalmente , i fattori produttivi quali il personale, le materie prime e altre risorse;

-       i ricavi o le entrate, che esprimono gli introiti derivanti dalle operazioni aziendali di vendita di merci o prestazione di servizi;

-       i dati di attività, che possono essere rappresentati da indicatori di processo (indicatori di carico di lavoro) e da indicatori di risultato (indicatore obiettivo).

Il budget in sanità, sorto dalla necessità di contenere e controllare la spesa, non può essere ricondotto a strumento di mero controllo dei costi.

Esso, infatti deve essere sia un’efficace strumento di programmazione delle azioni gestionali future, sia un valido strumento di misurazione dell’efficienza raggiunta attraverso la responsabilizzazione degli operatori sanitari verso comportamenti ottimali.

La formulazione del  budget ha valenza programmatoria in genere, per il periodo di un anno.

In questa fase vengono definiti gli input o risorse in entrata, che nel caso del DSM sono soprattutto risorse umane, strumentali, strutturali e che servono per la produzione (o per l’acquisto) di beni e servizi.

 

 Contesto dei sistemi di classificazione del “prodotto sanitario”

 

Il tema della definizione del prodotto sanitario, attraverso la definizione di un sistema di classificazione dei casi trattati è un argomento centrale in ogni sistema sanitario moderno. Giungere all’elaborazione di un sistema che classifichi i casi curati in un azienda sanitaria in modo significativo in termini clinici ed economici e che consenta di attribuire ad essi un valore standard ben definito nel contesto di un preciso ambito territoriale temporale,  significa possedere un strumento idoneo a valorizzare il lavoro clinico di un’azienda sanitaria ed a confrontarlo in termini di efficacia ed efficienza con i risultati effettivamente conseguiti.

È la premessa, cioè, per finanziare l’azienda sulla base del valore prodotto e per valutarne la qualità nelle sue varie accezioni di qualità progettata, prodotta, distribuita, attesa e percepita.

 

Il sistema dei DRG

 

Questo lavoro fu impostato negli USA verso la fine degli anni ’60, con lo scopo di definire gruppi di pazienti simili, per poter verificare l’appropriatezza dell’assistenza da loro ricevuta, nonché i costi del trattamento.

Questi raggruppamenti vennero chiamati DRG-Diagnoses Related Groups.

La prima versione generalmente accolta fu quella del prof. Fetter (1980) e poi modificata sempre dallo stesso nel 1982 con i seguenti obiettivi:

-       i gruppi dovevano essere coerenti dal punto di vista medico;

-       omogenei per le risorse assorbite;

-       definiti con variabili presenti nella scheda di dimissioni ospedaliera;

-       consistenti in un numero non troppo elevato.

Il database era rappresentato da 1,4 milioni casi provenienti da 325 ospedali rappresentativi di tutte le regioni USA.

Il primo passaggio fu l’identificazione da parte di un gruppo di clinici di 22 Major Diagnostic Categories mutuamente esclusive ed esaustive.

Le MDC rappresentavano una riaggregazione dei grandi gruppi di patologie presenti nella ICD-9.

 

Per arrivare dalle MDC ai DRG furono prese in considerazione variabili ritenute significative da un punto di vista clinico e delle risorse impiegate:

-       la diagnosi principale;

-       presenza/assenza di intervento chirurgico;

-       presenza di malattie associate e di complicanze;

-       età del paziente.

I DRG sono definiti come Categorie di pazienti ospedalieri definita in modo che essi presentino caratteristiche cliniche analoghe e richiedano per il loro trattamento volumi omogenei di risorse ospedaliere. Per assegnare ciascun paziente ad uno specifico DRG sono necessarie le seguenti informazioni: la diagnosi principale di dimissione, tutte le diagnosi secondarie, tutti gli interventi chirurgici e le principali procedure diagnostiche e terapeutiche, e l’età, il sesso e la modalità di dimissione. La versione attualmente utilizzata è la decima”.

I DRG più che un sistema di codifica sono un sistema di classificazione in quanto non si limitano solo a descrivere gli eventi ma vengono dati con una logica di organizzazione che definisce le condizione di similarità tra casi diversi attribuiti alla stessa categoria.

Il D.M. del 15 aprile 1994, emanato in attuazione del decreto legislativo 517/93, determina i criteri che debbono essere tenuti presenti dalle regioni per la fissazione delle tariffe seguendo sostanzialmente gli stessi principi del sistema americano prevedendo cioè che i ricoveri ordinari attribuiti a ciascun DRG siano remunerati secondo tre distinte tariffe, relative rispettivamente a:

1)     ricoveri di un giorno per pazienti non deceduti o trasferiti ad altri ospedali (T1);

2)     ricoveri “anomali”, con durata più lunga rispetto alla media del gruppo (trim point) definito a livello regionale e per i quali è previsto un incremento della tariffa ordinaria (T3);

3)     ricoveri standard con durata di degenza superiore ad un giorno ed inferiore al punto di “trimmatura” che identifica i ricoveri anomali (T2).

Alcune critiche mosse ai DRG sono:

-       non hanno la sufficiente flessibilità in rapporto ai più articolati percorsi di cura e alle variabili legate ai bisogni dei pazienti  più che alla diagnosi;

-       non tengono conto della severità delle patologie;

-       spostano l’attenzione dalla qualità dei servizi ai costi e alla durata di degenza;

-       influenzano la codificazione delle diagnosi sulla base del peso dei DRG in rapporto ai costi.

 

SISTEMI INFORMATICI IN PSICHIATRIA

 

I servizi internet sono l’ambito più attuale con il quale l’informatica psichiatrica si incontra con il grande pubblico. I servizi oggi offerti possono essere suddivisi in tre grandi gruppi:

 

  • Informazioni on line (motori di ricerca, portali, riviste on line e notiziari)

 

  • Didattica e siti di discussione on line (congressi on line e didattica a distanza)

 

  • Prodotti sanitari on line (teleprenotazioni, telemonitoraggio, teleconsulto, e-therapy)

 

Il primo gruppo rappresenta un impiego della rete internet di tipo informativo, gli ultimi due gruppi invece sembrano poter rappresentare dei prodotti nell’ambito di una digital economy che coinvolga anche la sanità.

I portali sono dei siti internet dove ci si può indirizzare per avere una panoramica dei servizi sulla rete su uno o più determinati argomenti. I motori di ricerca sono degli archivi di indirizzi, classificati in funzione della descrizione fornita dagli stessi autori in campi speciali della pagina web. I motori di ricerca spesso sono anche portali e talvolta al loro interno integrano anche una rivista on line. Le riviste on line sono un analogo della rivista cartacea,con articoli, dossier, foto, ecc.

In psichiatria sono presenti sul web diverse riviste on line. La maggioranza sono la versione telematica di riviste cartacee ben note. Altre invece sono nate direttamente sul web.

Un importante problema suscitato dalla diffusione di informazioni tramite internet è la trasparenza sulla qualità dei contenuti. La qualità dell’informazione scientifica si può valicare in funzione di cinque criteri: l’aderenza a linee guida “editoriali”, il riferimento ad osservazioni sperimentali, il riferimento ad osservazioni della vita di tutti i giorni, il riferimento ad un gruppo di consenso, la dichiarazione di opinione personale.

Il processo di emancipazione dell’utente non è solo sostenuto dall’evoluzione culturale ma anche da fattori prettamente economici che, attraverso l’attivazione di tutte le risorse coinvolte, tendono ad una riduzione dei costi dell’assistenza sanitaria e quindi ad un’estensione dei settori della popolazione ai quali possono essere erogati servizi di qualità; l’utente quindi non viene più considerato solo un soggetto passivo e “paziente” assolutamente inconsapevole del proprio problema.

In alcuni casi l’utente diviene addirittura l’attore principale della propria salute realizzando programmi di igiene mentale adeguati a garantire il mantenimento della propria salute mentale, anche a fronte di sollecitazioni stressanti, difficoltà relazionali o eventi significativi di perdita o eventi traumatici.

Il monitoraggio clinico computerizzato si avvale di tre indicatori : di struttura, di attività e di esito.

Gli indicatori di struttura permettono di confrontare tra loro le risorse diverse in funzione delle proprietà che le caratterizzano.

Gli indicatori di attività misurano quanto una struttura fa ed infine, gli indicatori di esito sono quelli che ci permettono di sapere quanto una struttura riesca a raggiungere gli obiettivi dichiarati.

In ogni caso questi indicatori possono essere applicati sia a strutture sanitarie che non utilizzino sistemi informatici, che a strutture sanitarie che ne facciano uso.

 

L’informatica e la telematica hanno determinato un importante impatto in psichiatria su quattro aspetti: la clinica assistita dal calcolatore ( capitoli della cartella clinica, scale di valutazione ecc..); l’organizzazione operativa ed amministrativa degli interventi (controllo della spesa, gestione delle risorse, monitoraggio degli esiti); della produzione, della validazione, dell’integrazione e della gestione di modalità di accesso alle conoscenze specifiche; della distribuzione e della discussione su conoscenze ed informazioni professionali.

Per quanto riguarda i filoni culturali dell’informatica psichiatrica, le esperienze italiane si avvalgono principalmente a due gruppi scientifico-culturali. Il primo gruppo (es. Progetto CIP di Furlan, Pancheri, Conti ed Invernizzi) fa riferimento a realizzazioni informatiche che supportano l’attività clinica di tutti i giorni ed attraverso un’integrazione di rete permettono di realizzare sistemi di osservazione epidemiologica ed organizzazioni operative di risorse multiple sul territorio.

Il secondo gruppo ( Pol-It e PsychoMedia ) fa riferimento a realizzazioni informatiche che sostituiscono i classici strumenti mass-mediatici di tipo editoriale.

Negli ultimi dieci anni l’informatica clinica psichiatrica ha effettuato passi da gigante nell’introduzione dello strumento informatico nella prassi di tutti  i giorni. In Italia, vi sono diverse esperienze che applicano da anni questi strumenti a vari aspetti della disciplina psichiatrica. Attualmente il CIP sta realizzando alcuni progetti di ricerca multicentrici. Le applicazioni più diffuse sono i sistemi di automazione del test MMPI, del test di Rorschach e le versioni computerizzate di diverse batterie di test neuropsicologici.

Il moltiplicarsi di iniziative e l’estendersi delle applicazioni e del livello di integrazione tra sistemi ed aree diverse ha prodotto il risultato che esistono sistemi che nel loro complesso coprono tutti gli aspetti dell’assistenza psichiatrica.

 

Il Registro Casi Verona Sud, ad esempio, è un servizio attivo dal 31 dicembre 1978 e raccoglie informazioni socio-demografiche,storia psichiatrica e storia clinica dal primo contatto con i servizi psichiatrici dei residenti della zona sud di Verona di età superiore ai quattordici anni. Include tutti ricoveri in SPDC, reparti neurologici e cliniche private; i pazienti del SERT; i contatti di pazienti esterni con psicologi, psichiatri, infermieri ed assistenti sociali; le telefonate di una certa importanza clinica.

 

Il sistema PAMS è in uso presso l’ARTEMIS Neuropsichiatria. La cartella presenta una struttura modulare. I moduli possono essere raggruppati in quattro gruppi: descrizione della biografia del paziente attraverso la descrizione di eventi specifici della sua vita; descrizione del problema clinico scomposta in funzione dei diversi metodi utilizzati; descrizione del tipo di intervento effettuato; descrizione del progetto clinico e del piano personale di assistenza.

L’integrazione dei dati avviene mediante l’utilizzo di programmi statistici esterni o l’impiegodi strumenti di elaborazione di tipo connettistico.

La cartella clinica di fatto è costituita da due tipi di archivio, l’archivio di base sui dati individuali e l’archivio dei dati personali. La cartella clinica vera e propria è rappresentata dall’archivio di primo tipo.

 

Il Centro Clinico Colle Cesarano (CCCC) ha sviluppato un sistema informatico finalizzato al monitoraggio ed al controllo del processo clinico, nell’ambito del programma aziendale di garanzia della qualità e di certificazione secondo la normativa ISO 9001; è stato sviluppato un nuovo modello organizzativo di tipo “a matrice”. L’essenza dell’esperienza in corso presso il CCCC è l’integrazione della procedura di osservazione clinica con procedure di controllo di tutto il processo di assistenza ospedaliera in una struttura di 234 posti letto. Il sistema nella fase attuale di sviluppo permette una visibilità e quindi un monitoraggio della tipologia degli assistiti, dell’appropriatezza dell’intervento farmacologico, della durata degli interventi effettuati ecc.

 

Nel dicembre del 1994 si è costituito il Comitato per l’informatizzazione in psichiatria ( Progetto CIP ) per iniziativa degli Istituti di psichiatria delle Università di Pisa, Roma, Milano e Torino. Si è voluto mettere in comune l’esperienza delle sedi universitarie che hanno avuto esperienza nell’ambito dell’informatica psichiatrica. Le università di Roma e Pisa hanno una presenza oltre ventennale nell’ambito. Il gruppo di Milano ha da anni esperienza nell’informatizzazione clinica, utilizzando un sistema informativo ospedaliero in rete. Il gruppo di Torino ha sviluppato alcuni supporti ipertestuali alla didattica.

Il CIP si è posto l’obiettivo di creare una compatibilità nelle osservazioni effettuate da diverse agenzie sul territorio nazionale ed ha focalizzato la propria attività nel definire un insieme minimo di informazioni, la raccolta delle quali è raccomandata in tutte le sedi di assistenza psichiatrica.

Il paziente risulta essere l’elemento unificante di tutto il sistema informativo dal punto di vista clinico. Egli viene descritto secondo le invarianti che lo caratterizzano dalla nascita alla morte, secondo il suo stato funzionale anche in riferimento alla presenza di un evento di tipo clinico. Si fa inoltre cenno alle informazioni storico-biografiche, in particolare quelle riguardanti precedenti patologici, la percorrenza delle principali fasi di sviluppo e la storia familiare.

 

IL PROGETTO PSYCHO-NET

 

Si tratta di un ulteriore livello convenzionale sull’organizzazione di una rete psichiatrica, per logica assimilabile ala rete internet ma dedicata alla psichiatria ( intranet psichiatrica ).Tramite questa convenzionalità la intranet psichiatrica ( Psycho-Net ) può divenire la grande autostrada attraverso la quale condividere dati clinici, fornire teleconsulti e supervisioni di qualità, effettuare valutazioni farmaco-economiche e di economia sanitaria in senso lato, realizzare ricerche multicentriche ed infine distribuire conoscenze.

Questo è dunque il presupposto complementare al progetto CIP per l’organizzazione di un sistema intelligente pluri-individuale in ambito psichiatrico. L’organizzazione all’interno di una intranet non è più gerarchica , ma è una rete di connessioni trasversali pari-a-pari in cui il coordinamento diviene di fatto assegnato in modo dinamico in funzione della competenza nei confronti dello stato attuale del problema.

Psicho-Net è dunque un sistema di scambio d’informazioni,  organizzato sul principio dello scambio di documenti in reti polidimensionali. I documenti sono organizzati in archivi nei quali essi sono raccolti secondo criteri di significato e funzione.

 

Quali vantaggi concreti derivano alla psichiatria dall’uso dell’informatica  e dalla telematica?

In modo particolare la psichiatria se ne avvantaggerebbe proprio per la sua necessaria vocazione ad abbandonare un modello centralizzato di gestione della malattia mentale sviluppatosi entro le mura  degli asili, unici grandi centri di cura del passato per sviluppare interventi sempre più integrati.

Lo spazio di tale integrazione non è più identificabile con un luogo preciso, uguale per tutti i pazienti, ma diversificato, distribuito sul territorio, in una continua interazione tra livelli diversi di operatività; ogni professionalità non opera più in competizione con le altre ma acquista significato solo ed esclusivamente in un percorso progettuale che parte dalla prevenzione,s confronta con la diagnosi precoce e si concretizza in percorsi terapeutici da realizzare in luoghi e tempi diversi scanditi secondo una progettualità  comune.

Ecco allora la necessità di avere un supporto a tale integrazione, una rete di comunicazione  tra enti, strutture e soggetti diversi; solo in tal modo si potranno identificare percorsi diversificati e personalizzati per ogni paziente da definirsi di volta i volta con la collaborazione di tutti gli attori e con la possibilità per tutti di verificarne l’andamento ed i risultati.

 

  • Gestione informatizzata e telematica delle cartelle cliniche:

 

Oggi è possibile , grazie alla combinazione di informatica e di telematica, ampliare il concetto stesso di cartella clinica. La base dati non sarebbe più locale, ma unica per tutti i servizi dello stesso dipartimento.

In tal caso, ogni operatore potrebbe, ovunque si trovi, accedere ai dati e procedere alle modifiche o all’aggiornamento in tempo reale degli archivi, pur standosene a decine o migliaia di chilometri di distanza dalla propria sede di lavoro.

 

 

  • Gestione sanitaria ospedaliera:

 

Archivi di base, gestione referti, accettazione amministrativa con ricoveri, trasferimenti e dimissioni diverrebbero molto più funzionali con conseguente risparmio di tempo sia nell’accesso dati sia evitando inutili duplicazioni degli stessi.

 

 

  • Gestione dell’amministrazione sanitaria:

 

Gestione amministrativa specifica: controllo di gestione economico-contabile, giuridica, fatturazione, gestione del personale, magazzino ecc. Ognuna di queste funzioni diventerebbe centralizzata, rapida e con enormi vantaggi specialmente dopo l’accorpamento di più unità operative.

 

Centro unificato per la prenotazione: si tratta di centralizzare le procedure legate alla prenotazione di visite specialistiche o esami strumentali.

 

Trasmissione dei dati e comunicazioni tra servizi: tramite la posta elettronica o procedure ancora più avanzate di invio e scambio di dati si eliminerebbero i lunghi tempi necessari alla consegna della posta cartacea con eventuali perdita o ritardo nella comunicazione.

 

Uffici relazioni con il pubblico: Vi è la possibilità di consultare gli orari d’ufficio, conoscere lo stato di avanzamento delle pratiche ecc.

 

 

  • Organizzazione di ricerche e trial clinici:

 

Le ricerche multicentriche, in tal modo, non risentirebbero più della dispersione spaziale dei partecipanti; si avvierebbero quindi, collaborazioni anche internazionali tra centri di studio interessati allo stesso lavoro.

 

 

  • Informazione:

 

Sviluppo di strumenti sempre aggiornati d’informazione rivolti al pubblico ed agli utenti con scambi attivi con tutti i gruppi che operano sul territorio. Si determinerebbe una rete di collaborazione interattiva.

 

 

  • Didattica e formazione:

 

Possibilità grazie alla interattività ed alla multimedialità di creare gruppi di formazione, ricevendo il materiale didattico tramite posta elettronica e partecipando a vere e proprie sessioni didattiche on line.

 

 

  • Accesso a banche dati pubbliche:

 

Possibilità di accedere a banche dati costantemente aggiornate di strutture psichiatriche su tutto il territorio nazionale contenenti informazioni circa l’utenza ospitata, il tipo di assistenza garantita, la disponibilità di posti o eventuali tempi d’attesa.

 

 

  • Aggiornamento e confronto

 

Riviste on line, servizi e bollettini di aggiornamento professionale con informazioni aggiornate quotidianamente su aspetti farmacologici, clinici e giuridici, mailing list, gruppi di discussione, comunità virtuali ecc. con possibilità di confrontare le proprie esperienze con quelle di altri colleghi o di servizi dislocati su tutto il territorio nazionale ed internazionale.

 

 

Queste sono alcune delle infinite possibilità di utilizzo degli strumenti che, attualmente gran parte dei servizi possiede già ma che ancora non utilizza al meglio delle possibilità.

In fondo per realizzare le cose basta poco: un server, almeno un computer in ogni servizio, connessioni tra i vari computer ( anche via modem), qualche buon programma, un aiuto da chi ne sa qualcosa ed un po’ di buona volontà.

 

 

 

L’EMPOWERMENT

 

L'empowerment storicamente nasce negli anni cinquanta del ‘900 in seguito allo svilupparsi di iniziative di difesa dei diritti dei pazienti per ottenere atti legislativi favorevoli e migliori trattamenti. Negli anni sessanta empowerment è stata una parola d'ordine di molti gruppi che chiedevano più libertà e più diritti in loro favore, per esempio il diritto al lavoro dei pazienti psichiatrici. Negli anni settanta si definì compiutamente il principio fondamentale del modello dell'empowerment che contrapponendosi alla istituzione totale medicalizzata del manicomio nella gestione della malattia mentale affermava il diritto alla produzione e al controllo dei servizi sanitari da parte dei consumer.

La cultura dell'empowerment in psichiatria nasce e si sviluppa come metodologia di intervento sui pazienti (e sui famigliari) rivolta al recupero e al potenziamento dell'autonomia e della responsabilizzazione, alla capacitazione delle loro risorse personali in una linea di indirizzo che utilizza come condizioni operative di base la matrice relazionale, la presa in carico del paziente, la negoziazione dei trattamenti e ha come obbiettivo il miglioramento dell'efficacia e della appropriatezza degli interventi, la qualità dei trattamenti e la soddisfazione dell'utente. Ciò ha comportato la realizzazione di percorsi curativi per promuovere il passaggio del paziente da una condizione di learned helplessness, caratterizzata da mancanza di iniziativa, bassa capacità relazionale e di accesso alle risorse – chiave della comunità, incapacità/inadeguatezza a dominare gli eventi e da sentimenti quale la sfiducia, lo sconforto l'hopelessness a una condizione di self-efficacy e di mastery.In generale la gestione manageriale dell'azienda sanitaria attribuisce particolare importanza alla relazione e alla comunicazione non soltanto nei riguardi del paziente ma anche nella gestione ottimale degli operatori sanitari e del gruppo di lavoro. Questo aspetto in psichiatria si è sviluppato indipendentemente e in maniera sistematica con l'apporto delle teorie fenomenologiche, sociogenetiche e con l'applicazione della psicoanalisi allo studio dei fenomeni istituzionali e dei disturbi mentali in chiave ermeneutica e relazionale. Quindi l'incontro della cultura manageriale, riguardante la gestione delle dimensioni comunicativo-relazionali nel gruppo di lavoro, con l'organizzazione del lavoro della psichiatria istituzionale fondata oltre che sull'applicazione delle conoscenze scientifiche basate sull'evidenza anche sulla conoscenza prodotta dalla matrice relazionale e sulla presenza dell'équipe come fattore strutturale e procedurale fondamentale per la prassi operativa, ha rilevato punti di contatto come se nella seconda, pur su presupposti teorici ed epistemologici differenti fosse possibile trovare aspetti di convergenza con la prima, e mettere in evidenza l'esistenza di organizzazioni di lavoro già attrezzate per sviluppare processi di empowering organizzativo e di potenziamento e capacitazione delle risorse umane coinvolte nel lavoro.

L’approccio empowerment rappresenta una cultura che, partendo dalla centralità della persona, tende all’affermazione di mature espressioni della soggettività, all’ampliamento delle libertà e dei diritti, allo sviluppo delle potenzialità, della padronanza, della responsabilizzazione e della capacitazione; come tipo di mentalità che privilegia l’integrazione delle conoscenze e delle pratiche.

E’ una cultura le cui logiche sono di tipo inclusivo ed anti-autoritario, integrative e per questo non riduzioniste, che si propone come aggiuntiva e non sostitutiva rispetto a pre-esistenti saperi e ai diversi modelli di intervento.

L’empowerment è una parola duplice che definisce sia uno stato di risultato (il livello empowerment di una persona o di una organizzazione rispetto ad un'area che li riguarda) sia il processo operativo attraverso cui tale condizione-risultato viene raggiunto; questo termine è stato adottato per definire elementi e fenomeni di natura intrinsecamente diversa.

L'aggregazione di questi elementi abbia condotto allo sviluppo di una cultura vera e propria in cui egli evidenzia soprattutto alcune componenti costitutive significative:

o        un costrutto psicologico, una caratteristica cioè del soggetto nella sua interazione con l'ambiente; l'approccio empowerment come costrutto psicologico è quella che, studiata prevalentemente in psicologia di comunità, forse meglio aiuta a raggiungere le dimensioni costitutive e a capire la natura profonda dell'empowerment, dando spessore e consistenza anche alle successive applicazioni operative più pragmatiche;

    • un processo operativo, percorrendo il quale il soggetto sviluppa-aumenta il suo livello di empowerment rispetto ad uno specifico oggetto-area.
    • un approccio applicativo orientativo, che guida metodologicamente e processualmente nel fare operativo.

L'empowerment psicologico è "il senso di padronanza e controllo su ciò che riguarda la propria vita", farebbe riferimento a qualcosa di intrinseco al soggetto in relazione con il mondo, qualcosa di soggettivo (un sentimento, un vissuto di sé) che attiene l'uso che l'individuo sente di sapere e di potere fare delle proprie risorse personali e delle risorse che può acquisire. Quindi, in senso completo sarà dato dalla somma e dalla sinergia dell'empowerment psicologico e dall'empowerment soggettivo-ambientale rappresentatodalle risorse e dalle possibilità fornite/consentite dall'ambiente.

In psichiatria l'empowerment può essere definito tanto verso il paziente che per i componenti del gruppo di lavoro come una consapevole e responsabile progettualità generativa della persona. Per quanto riguarda il paziente l'empowerment può essere proposto come obbiettivo generale della presa in carico che si esprime in un percorso di cura che ha come obbiettivo non soltanto la guarigione del disturbo ma anche l'attivazione complessiva di un soggetto interagente nel suo ambiente sociale e comunitario.

L'approccio empowering al paziente sarà più facilitato, e sorretto da una più salda motivazione, quanto più i singoli componenti del gruppo di lavoro avranno potuto vivere all'interno dell'organizzazione un'analoga esperienza emancipativa, di cui avranno colto il senso, i valori, le logiche e gli ingredienti trasformativi. L'organizzazione punterà sulla persona, promuovendone e facilitandone l'elevazione, l'autodeterminazione e la responsabilizzazione verso i processi, i prodotti e i clienti. Peraltro che tocca ai collaboratori scegliere di essere empowered, di voler intraprendere un percorso che da una condizione di powerlessness, caratterizzata da marginalità nel processo decisionale, passività, scarsa autonomia esecutiva, bassa produttività, sfiducia nelle proprie capacità, giunga ad una condizione empowered riscontrabile in quell'operatore che sia capace di assumere iniziative e di portarne la responsabilità e sia considerato non più "dipendente", fattore di costo da razionalizzare, o risorsa da gestire e controllare, ma partner affidabile, creativamente positivo e responsabile, e a sua volta generatore di empowerment. Il gruppo di lavoro informato a questo principio non si avvale della cultura burocratica del comando e del controllo necessaria per fare eseguire un lavoro sentito come dovere.

L'équipe è uno strumento di elaborazione intellettiva ed emotiva, essa esplica una funzione ben precisa e perde il significato di dimensione concreta in cui semplicemente convivono e si sommano gli interventi condotti ai diversi livelli dai diversi operatori. L'impatto con il paziente grave comporta nei curanti stati mentali del tutto specifici; l'intensità, la pervasività, la frammentarietà e la confusività di tali esperienze rendono insufficiente la preparazione e la competenza del curante singolo.

La funzione del gruppo istituzionale risulta pertanto fondamentale come potente organismo di contenimento, di supporto e di elaborazione degli stati affettivi e delle criticità comunicativo- relazionali del singolo curante e degli altri operatori; cioè il gruppo svolge funzioni di restauro, di mantenimento, di rinforzo e arricchimento del singolo curante e degli operatori coinvolti con il paziente.

 Al leader spetta la promozione della funzione ecologica del gruppo affinché per mezzo di essa ciascuno possa usufruire di sostegno emotivo, di rifornimento e di rivitalizzazione del proprio assetto mentale all'interno di uno spazio protettivo, propizio e sufficientemente vivibile. La funzione ecologica del gruppo produce per esempio il recupero dell'autostima di fronte a stati mentali di perdita di fiducia e di speranza ma soprattutto concorre a restituire senso, significato e valore per la conoscenza e per l'arricchimento professionale, a esperienze emotive dolorose, disturbanti, destabilizzanti che derivano dalle interazioni istituzionali. Per il curante e per gli operatori l'esistenza del gruppo può rappresentare un'area di sensazioni ed esperienze di carattere fisico oltre che emotivo e fantasmatico. Esso può fornire la sensazione di appartenere ad un comune terreno condiviso e di far parte di un unico corpo indistinto e unificato. Questo tipo di esperienza, ovviamente se non è ipertrofica, è una condizione favorevole per lo svolgimento di un buon lavoro perché permette di provare un senso di protezione, appartenenza e sostegno quando di fronte all'impatto con il paziente c'è bisogno di ritrovare un luogo con connotati di vitalità, calore e fiducia per il senso di minaccia percepito nei riguardi del proprio Sé, cioè uno spazio fisico, ma anche psichico e affettivo, la cui presenza rappresenta una sorta di apparato di base di rifornimento affettivo e di sostegno.

 

EPIDEMIOLOGIA

 

Definizione: studio della distribuzione e dei determinanti della frequenza delle malattie nelle popolazioni umane.

Pu
ò considerarsi ancorata a due assunti fondamentali:

1 Le malattie degli uomini non si verificano a caso e per       caso.
2 Tali malattie hanno fattori casuali e preventivi che possono essere identificati attraverso indagini sistematiche, condotte su popolazioni differenti o su sottogruppi di individui all
interno di una stessa popolazione, in posti e/o tempi diversi.

La progressione naturale del ragionamento epidemiologico muove dal sospetto della  possibile influenza di un certo fattore su un evento morboso e conduce alla formulazione di una specifica ipotesi.


BREVI CENNI STORICI

Per avvicinarci all
attuale significato di epidemiologia bisogna arrivare fino allInghilterra della Rivoluzione Industriale (fine del XVII e metà del XIX secolo), con le prime imponenti raccolte di dati demografici su natalità e mortalità che portarono ad un articolato studio su fecondità e mortalità .
Nel corso del XVIII secolo si consolidano le competenze demografiche e si sviluppa la
geografia medica, che pone in relazione la distribuzione della malattie con alcune caratteristiche ambientali precise.
Risale al 1873 l
istituzione del General Register Office for England and Wales, il primo vero e proprio Istituto centrale di statistica inglese. 

E soprattutto attraverso lo studio delle grandi epidemie che si procede allaffinamento delle metodologie di analisi dei dati; John Snow riuscì a correlare lepidemia di colera che colpì Londra nel 1854 con linquinamento di un  tratto delle acque del Tamigi e con le compagnie fornitrici dacqua dei diversi distretti cittadini.
Solo nel XX secolo si assiste all
ampliamento dei campi applicativi ed al consolidamento dei quadri metodici dell Epidemiologia. A partire dal dopoguerra si è avuto uno straordinario periodo di progresso della ricerca

SCOPI E CLASSIFICAZIONI DELLEPIDEMIOLOGIA

I suoi scopi sono da un alto quello di descrivere lo stato di salute attraverso le misure di occorrenza e di frequenza di una specifica patologia, nonch
é i sui andamenti temporali e geografici; dallaltro indaga le ipotesi formulate approfondendo i fattori determinanti, con lo scopo ultimo di capire se una esposizione possa causare una malattia e se sia possibile prevenirla.
Una delle pi
ù frequenti classificazioni dellEpidemiologia è  la seguente:

DESCRITTIVA: relativa  alle descrizione delle caratteristiche generali della distribuzione della malattia, con riferimento particolare alla PERSONA (variabili di dettaglio quali età, sesso, razza); LUOGO (distribuzione geografica, differenze tra paesi); TEMPO (variazioni stagionali, modifiche nel tempo e loro confronto). Con queste informazioni e possibile trarre le prime informazioni sui fattori di rischio.

ANALITICA: relativa all
indagine esplicita sulla forza associativa di un certo fattore di rischio con la patologia di cui si considera possibile determinate. Il dove, il quando e il chi vengono studiati nel dettaglio, ricorrendo allutilizzo di misure appropriate.

VALUTATIVA: relativa alla valutazione dell
impatto dellutilizzo dei risultati di ricerca, nonché degli interventi messi in atto. Può essere efficace nella pianificazione in ambito sanitario.

MISURE IN EPIDEMIOLOGIA
l
indagine epidemiologica si basa sulluso appropriato di adeguate e corrette misurazioni.

MISURE DI OCCORENZA
L
occorrenza di una malattia o di determinati eventi in certe popolazioni (la frequenza del loro verificarsi), può essere descritta attraverso lutilizzo di alcune misure di base:

la PREVALENZA e lINCIDENZA

LA PREVALENZA
Quantifica
la proporzione di casi presenti in un determinato istante di tempo nella popolazione di riferimento. Viene espressa con:

P(x)= C(x) /N(x)

P
è la proporzione di casi in atto nel tempo x
C
è il numero di casi in atto nel tempo x
N
è il numero di soggetti presenti nel tempo x (popolazione totale)

LINCIDENZA
Quantifica il numero di nuovi casi che si sviluppano nella popolazione di riferimento durante un definito intervallo di tempo. Pu
ò essere esplicitata come INCIDENZA COMULATIVA o come DENSITA DI INCIDENZA.

INCIDENZA COMULATIVA
Stima la probabilit
à (rischio) che in un individuo sviluppi una malattia durante un definito periodo di tempo ed in riferimento ad una popolazione assimilabile ad una coorte fissa (vedi oltre). Viene espressa con

 IC (T1
T0)= n (T1T0) / N (T1T0)
   
IC
è la proporzione di persone che si ammalano nel periodo di tempo considerato (T1T0)
n
è il numero di nuovi casi che si manifestano nel periodo (T1T0)
N
è il totale di pazienti a rischio

DENSITA DI INCIDENZA
E
una stima molto più precisa dellimpatto dellesposizione in una certa popolazione (coorte aperta), valutando tale esposizione per la sommatoria dei tempi di osservazione di tutti gli individui considerati. Viene espressa con

DI (T1
T0) = n (T1T0) / Nt

DI
è il tasso istantaneo di concentrazione  di nuovi casi di malattia in una popolazione nel tempo (T1T0)
n
è il numero di nuovi casi che si manifestano nel periodo (T1T0)
Nt(perone per tempo)
è la somma del tempo di rischio di ciascun individuo, ovvero la somma dei tempi durante i quali ciascuna persona è stata sotto osservazione e periva di malattia

La prevalenza e lincidenza sono legate dalla relazione:
P = I . durata media della malattia
Il numero complessivo di casi quindi dipende dal numero di nuovi casi e dalla durata della malattia stessa.

I DATI DI PREVALENZA SONO IN GENERE FUNZIONALI ALLA PIANIFICAZIONE IN SANITA
PUBBLICA ED ALLA CORRETTA ASSEGNAZIONE DELLE RISORSE.

Per completare la trattazione di tali unit
à è importate parlare di due elementi  fondamentali: il RISCHIO ed il TASSO 

Il rischio: é la probabilità di contrarre la malattia oggetto di studio in un intervallo di tempo definito. Viene espresso con
R = I / N
R
è il rischio nellintervallo (T1T0)
I
è il numero di nuovi casi nel periodo (T1T0)
N
è il numero totale di soggetti candidati al tempo T0

Il tasso:
è lespressione della variazione istantanea di una certa quantità al variare unitario di unaltra quantità ad essa funzionalmente collegata. Si applica al numero di soggetti a rischio nellistante per cui è calcolato. Viene espresso con
T = I / M
T
è il tasso medio di incidenza nel periodo dello studio
I
è il numero di nuovi casi insorti nel medesimo periodo
M
è la massa tempo- persone osservata (giorni, mesi)

MISURE DI ASSOCIAZIONE
E
di grande importanza poter stimare la forza dellassociazione statistica tra esposizione e malattia.
Quando parliamo di misure di associazione intendiamo sempre misure basate sul confronto delle frequenze di malattia in popolazioni diverse, una delle quali
è assunta come popolazione di riferimento (quella con esposizione nulla o bassa). Sono quindi dei rapporti o delle differenze fra le diverse frequenze di malattia nei due gruppi.

Il rapporto ci consente di indicare quanto maggiore sia la probabilit
à di sviluppare la malattia in un gruppo rispetto allaltro: RISCHIO RELATIVO. Viene espresso con

RR = IC esposti / IC non esposti

RR
è il rischio relativo che può variare tra 1 e infinito
IC
è lincidenza comulativa calcolata sia per gli esposti che per i non esposti

La differenza ci consente di stimare leccesso di malattia attribuibile allesposizione e quindi ci fornisce informazioni sulleffetto assoluto dellesposizione: RISCHIO ATTRIBUIBILE. Viene espresso con

RA = I esposti / I non esposti

RA
è il rischio attribuibile o differenza di rischio
I
è lincidenza di malattia calcolata sia negli esposti che nei non esposti

Quando non
è possibile calcolare direttamente il rischio relativo si può comunque stimarlo utilizzando il rapporto fra la probabilità” di esposizione fra i casi, in relazione a quella fra i controlli.

ERRORI SISTEMATICI (bias)

PRECISIONE:
è la relativa assenza di errori casuali. Viene indicata dallintervallo di confidenza fra il limite inferiore e quello superiore allinterno del quale il valore del parametro individuato può oscillare. È importante esplicitare sempre lintervallo di confidenza della misura.

VALIDITA
: è il grado di accordo della misura con il valore vero e si può considerare il risultato della relativa assenza di errori sistematici.

RIPRODUCIBILITA
: è  la concordanza fra misure ripetute dello stesso fenomeno da parte del medesimo osservatore in tempi diversi, oppure la concordanza tra osservatori diversi.

Dalla categoria degli errori sistematici (bias) dipende il rischio di distorsioni nelle associazioni fra esposizioni e malattie. Si dividono in due categorie:

BIAS DI SELEZIONE: sono la conseguenza di errori commessi nel reclutamento dei  soggetti da includere nello studio.

BIAS DI INFORMAZIONE: sono la conseguenza di errori di misurazione che possono dipendere dalla raccolta non accurata di dati. Sono compresi in questa categoria gli errori di misclassificazione cio
è quando le categorizzazioni dei soggetti in base alla malattia o allesposizione non sono corretti, tale scorrettezza non è casualmente distribuita nei diversi gruppi dello studio.

PER QUESTE CATEGORIE DI ERRORI L
UNICO INTERVENTO APPROPRIATO E UN ACCURATO DISEGNO DELLO STUDIO E LA SUA METICOLOSA CONDUZIONE  

CONFONDIMENTO
 DEFINIZIONE: fenomeno di alterazione dell
associazione esistente tra lesposizione e la malattia, dovuto alla presenza di una condizione estranea (detta fattore confondente) che è correlata sia allesposizione che alla malattia.

Esistono alcuni metodi che consentono di controllare gli effetti del confondimento.


 Tre sono quelli utilizzabili in fase di progettazione dello studio:

RANDOMIZZAZIONE: si può utilizzare solo in studi sperimentali e indica lassegnazione casuale dei diversi soggetti alle diverse categorie di esposizione. Se il campione di studio è sufficientemente ampio consente di ottenere una distribuzione virtualmente corrispondente alla realtà sia dei fattori confondenti già noti, sia di quelli non noti o non sospettati.

RESTRIZIONE: controllo dei criteri di ammissione allo studio, includendovi solo i soggetti che abbiano un determinato valore del confondente (es.: razza o sesso). È applicabile in tutti gli studi analitici, è semplice ed a costo zero, però porta ad una diminuzione dei soggetti eligibili per lo studio e non consente di valutare lassociazione fra esposizione e malattia al variare dei livelli del confondente

APPAIAMENTO: utilizzabile in tutti gli studi analitici (soprattutto nei caso-contollo), consiste nella selezione dei soggetti in modo tale che tutti i potenziali confondenti siano distribuiti in modo identico nei diversi gruppi di studio. Può essere di difficile e costosa applicazione data problematicità a trovare un numero sufficiente di soggetti con le giuste caratteristiche per il corretto appaiamento; si tende quindi ad usarla con campioni di dimensioni limitate.

Due sono i metodi utilizzabili in fase di analisi:

STRATIFICAZIONE:
è la valutazione dellassociazione allinterno di categorie omogenee (strati) per un dato valore del confidente; cioè disaggreghiamo la popolazione studiata in strati che controllano il valore che ci interessa (sesso, razza, classi di età). Il limite di questo metodo è lincapacità di tenere sotto controllo simultaneamente un numero anche modesto di potenziali confondenti. 

ANALISI MULTIVARIATA: può tenere sotto controllo più variabili contemporaneamente. Sono stati sviluppati molti modelli per scopi specifici e la scelta di quello più appropriato è in genere alquanto complessa, basata sulle caratteristiche proprie dello studio.

STUDI EPIDEMIOLOGICI

Analizzeremo due grandi categorie di studi epidemiologici:

Gli STUDI DESCRITTIVI che descrivono le caratteristiche generali e le frequenze di malattia, nonch
é i loro andamenti temporali.

Gli STUDI ANALITICI che si propongono di testare specifiche ipotesi eziologiche o cercando di generarne di nuove, anche preventive, suggerendo meccanismi di casualit
à o possibili interventi di prevenzione.

SPESSO STRATEGIE COMBINATE SI RIVELANO LE MIGLIORI

STUDI DESCRITTIVI

Sono capaci di fornire informazioni essenziali per la programmazione di interventi in sanit
à pubblica rappresentando sempre il primo passo per costruire ipotesi ragionevoli che possano condurre alla soluzione di tali problemi; sono poco costosi e richiedono tempi contenuti per la conduzione, essendo di conseguenza i più comuni.


I principali tipi di studi descrittivi sono quelli di correlazione, di caso e serie cliniche, le indagini di prevalenza.


STUDI DI CORRELAZIONE: descrivono particolari aggregazioni di caratteristiche delle malattie per compararle in diverse popolazioni nel medesimo periodo di tempo, oppure nella stessa popolazione in periodi differenti. È utile per formulare ipotesi generali, visto che si occupa di intere popolazioni, però non riesce a tenere sotto controllo i confondenti.

STUDI DI CASO CLINICO: rappresentano la forma più elementare di studio descrittivo condotto a livello di individuo; possono essere ampliati alla descrizione delle caratteristiche di un certo numero di pazienti dando origine alle serie cliniche. Questi studi sono uninterfaccia importante tra lepidemiologia e la clinica, però generalmente poco utili per dimostrare la presenza di una valida associazione statistica.

INDAGINI DI PREVALENZA o TRASVERSALI: studiano contemporaneamente sia lo stato di malattia che lesposizione in una popolazione definita o in un campione randomizzato di essa. Il tempo considerato può essere sia un istante preciso che un periodo determinato. Uno dei problemi che si pone usando questo tipo di studio è che spesso diventa difficile determinare la sequenza temporale tra fattori di rischio e stato morboso, visto che si rivelano insieme lo stato di malattia e di esposizione. Questo comporta il rischio dinterpretare come causa ciò che in realtà è una conseguenza e viceversa.

STUDI ANALITICI

Comportano il raffronto esplicito fra esposizione e malattia; comparano diversi gruppi di individui con l
obbiettivo di investigare se il rischio di malattia differisca o meno per i soggetti esposti e non esposti al fattore che ci interessa.

Si dividono in sperimentali (dove il ricercatore interviene sull
esposizione) e osservazionali (dove il ricercatore osserva il corso naturale degli eventi).

TIPO SPERIMENTALE: sono influenzati da considerazioni etiche, in quanto lassegnazione a determinati fattori di esposizione è legata alla sua potenziale pericolosità. Si usano per valutare la capacità di un certo agente di ridurre i sintomi, il rischio di ricadute o di morte, oppure per valutare se certi agenti o procedure siano in grado di ridurre il rischio di sviluppare la condizione morbosa in studio.
L
affidabilità dei risultati di questo genere di ricerche è certamente superiore a quello di qualunque studio osservazionale, il loro costo è però più elevato.

TIPO OSSERVAZIONALE: si dividono in studi di coorte e caso-controllo.

STUDI DI COORTE: i soggetti sono classificati sulla base della presenza o assenza dell
esposizione ad un particolare fattore; vengono seguiti nel tempo per valutare se ed in che misura lo sviluppo della malattia sia determinato dalle diverse condizioni di esposizione. Possono essere sia prospettici che retrospettivi. Consentono d studiare le esposizioni rare, di ricostruire la storia della malattia , di esaminare lesposizione ed i suoi effetti, rilevano lincidenza della malattia e permettono il calcolo del rischio relativo. È inadatto allo studio di malattie rare quando non sia presente una percentuale alta di rischio attribuibile. Ha un costo molto elevato.

STUDI CASO-CONTROLLO: i soggetti vengono selezionati in base alla presenza della malattia considerata e messi a confronto con un altro gruppo di individui che presentano una serie di caratteristiche simili, ma senza la condizione morbosa indagata allo scopo di valutare lassociazione fra esposizione e malattia. E molto importante decidere allinizio dello studio se ammettere come casi tutti coloro che presentano la malattia in qualunque stadio del suo sviluppo, oppure solo quelli che vengono diagnosticati dopo linizio dellosservazione. Sono poco costosi, hanno una durata contenuta e possono arruolare un numero ristretto di soggetti, però è possibile che si commettano molto bias nella selezione dei soggetti arruolabili.

VALIDITA DEGLI STUDI

Il protocollo di uno studio epidemiologico dovrebbe sempre esplicitare:

Motivazioni dello studio corredate dalla bibliografia relativa alle informazioni derivanti da studi precedenti.

Criteri seguiti per selezionare quello specifico schema logico-formale di studio.

Strumenti e metodi per la rilevazione dei dati, nonch
é un preciso piano di analisi, prefigurando le possibili interpretazioni dei risultati.

Considerazioni di fattibilit
à relative ai tempi ed alle risorse economiche, logistiche e professionali disponibili.

La validità di uno studio si basa sulla qualità delle informazioni che raccoglie, che devono essere accurate e pertinenti, e sulla rigorosità delle metodiche utilizzate.
Bisogna inoltre prestare particolare attenzione alla confrontabilit
à delle popolazioni arruolate nello studio ed alla loro rappresentatività rispetto alla popolazione generale.
Se questi criteri vengono rispettati si hanno buone garanzie che i risultati dell
indagine possano essere generalizzati anche a popolazioni, tempi e contesti diversi, aumentando la potenza dello studio.

Per la validità dello studio è importante avere la possibilità di mettere in campo, prima del disegno definitivo, uno studio pilota che consenta, in un contesto di dimensioni e mezzi ridotti, di avere importanti indicazioni sulle caratteristiche di validità dellindagine che si intende avviare.

SORVEGLIANZA EPIDEMIOLOGICA

DEFINIZIONE:
è la continua ed accurata osservazione di un fenomeno, finalizzata ad intervenire su di esso. Lanalisi mira essenzialmente a mettere in evidenza eventuali scostamenti da valori standard che sono stati assunti come riferimento.

Il MONITORAGGIO invece si limita alla registrazione dell
andamento del fenomeno in esame.

EPIDEMIOLOGIA DEI DISTURBI MENTALI  NELLA POPOLAZIONE

Numerosi soggetti , nella popolazione, presentano sintomi psichiatrici, per la maggior parte di tipo nevrotica. Nei casi in cui una diagnosi può essere fatta, essa e perlopiù  una diagnosi di disturbi dellaffettività’, su base ansiosa o depressiva; per questa ragione molti sul disagio psichica nella popolazione vertono su tali disturbi.
Le teorie psichiatriche sui disturbi di tipo affettivo furono formulate per la prima volta nel diciannovesimo secolo, a partire dall
esperienza fatta con i pazienti ricoverati negli ospedali psichiatrici per gravi disturbi depressivi.

LE TECNICHE DI IDENTIFICAZIONE DEL CASO

Sebbene il metodo epidemiologico si dimostri molto adatto a tali studi, tuttavia la sua applicazione a un contesto vasto come la popolazione generale fa insorgere certi problemi nel disegno sperimentale e nel metodo di ricerca. Il problema pi
ù importante e quello della descrizione clinica e della classificazione del disturbo psichiatrico. Tale descrizione dovrebbe essere, per quanto possibile, standardizzata ( in termini sia categorici che dimensionali).

Negli studi di popolazione condotti in Scandinavia alcuni psichiatri rivolsero la loro attenzione allidentificazione di casi con caratteristiche cliniche sovrapponibili a quelle dei pazienti ricoverati negli ospedali psichiatrici.

 
In seguito i ricercatori si servirono di questionari di autosomministrazione. Tali sudi non furono progettati con lo scopo di identificare o spiegare disturbi specifici, ai ricercatori interessava una dimensione ai cui estremi si collocavano i concetti di salute e di malattia.

Nella terza fase la questione più importante è stata quella di giungere a una descrizione dettagliata e a una definizione differenziale, da riportare in un glossario. Le sale AMDP-System e PSE utilizzano questi criteri, ma non furono costruite per  fare diagnosi, permettono solamente di ottenere un ampio, ragionevole e attendibile profilo clinico, se usate da personale esperto.

La DIS
è il più recente strumento statunitense e permette una o più diagnosi longitudinali a vita in  accordo con i criteri diagnostici del sistema nosografico del DSM-III.
Il problema nell
utilizzo di tale scala è la priorità diagnostica da assegnare a ogni sintomo, qualora più sintomi siano contemporaneamente presenti. 

Mentre può apparire semplice valutare lincidenza dei disturbi affettivi, calcolando il numero dei primi contatti con i servizi psichiatrici, ciò  presuppone che si sia deciso cosa è compreso nel disturbo affettivo, e che tutti i pazienti con questo tipo di disturbo si rivolgano ad uno specialista.

Alcuni autori ritengono possibile stabilire la data di esordio di un episodio psichiatrico, perlomeno se si colloca nellanno precedente lintervista, con una precisione tale da poter utilizzare i dati raccolti per studiare le cause che appaiono temporalmente più vicine al disturbo.
Essi ottengono in tal modo un tasso di insorgenza dei disturbi e non un tasso d
incidenza.
Fino a che non si sar
à verificato fra i ricercatori un accordo sufficientemente elevato sullepoca desordio dei disturbi, però, sarà molto difficile formulare criteri di controllo.

Le stime dei tassi di prevalenza sono meno problematiche, ma sono anche meno utili per studiare le cause dei disturbi psichiatrici.
Se si osservano i dati riportati da alcuni studi si osserva che sia i tassi relativi agli uomini, che quelli relativi alle donne variano da tre a quattro volte, e che quelli ricavati utilizzando un questionario autosomministrato e un punteggio-soglia hanno prodotto i pi
ù alti tassi di prevalenza. Se escludiamo gli studi che utilizzano scale autosomministrate troviamo un miglior accordo dei tassi di prevalenza.  

 

LA VALUTAZIONE DEL DISAGIO SOCIALE.
Per comodit
à si sono distinte due componenti del disagio sociale: gli eventi (circostanze che si verificano nel corso della vita in modo più o meno discontinuo), e i problemi o difficoltà (più costanti e perduranti nel tempo).

Il verificarsi di eventi pu
ò essere valutato presentando al soggetto un elenco predeterminato di circostanze delle quali egli può avere avuto esperienza.
Un
alternativa è rappresentata dalluso di unintervista semistrutturata che copra vari eventi che possono occorrere ad un soggetto.

Esistono due diverse strategie per valutare le conseguenze di un evento:
 
la prima richiede l
impiego di un campione da utilizzare per il procedimento di attribuzione dei punteggi. A questo campione di persone viene richiesto di esprimere un punteggio per ogni categoria presente nellinventario. Ad alcune categorie vengono attribuiti punteggi standard: si ottengono così alcuni riferimenti per attribuire i punteggi alle altre categorie. Viene poi fatta una media dei valori riportati per ogni evento, per produrre un punteggio finale ad esso attribuibile.

La seconda prevede luso di ricercatori operanti in gruppo. Può essere usata sia per valutare linfluenza degli eventi, sia per decidere quali di essi debbano essere presi in considerazione nelle analisi. Gli eventi sono descritti in dettaglio, come il contesto sociale in cui vivono le persone che li hanno vissuti. I punteggi si basano su una scala a quattro punti, attribuiti tenendo conto del grado di minaccia che gli eventi stessi comportano. Quelli che sono stati considerati come  più significativi sono il totale dei cambiamenti che un evento comporta e il totale dei momenti di stress che esso determina. Lo stress è la componente più significativa nella genesi dei disturbi di tipo affettivo.

GLI EVENTI POTREBBERO SIA CAUSARE DISTURBI PSICHIATRICI, CHE ESSERNE UNA CONSEGUENZA. 

I soggetti depressi avendo una visione più triste degli avvenimenti vissuti nel corso della vita, possono fornire di essi un resoconto non obbiettivo. È essenziale che gli eventi e lesordio dei sintomi siano precisamente datati e che siano esclusi dallanalisi gli eventi verificatisi dopo linsorgenza di sintomi significativi.

Coloro che assegnano i punteggi non ricevono nessuna informazione sullo stato di salute mentale dei soggetti o sulleffettiva reazione a un determinato evento. Si tratta di un tentativo di prevenire alcuni dei potenziali errori metodologici in cui si può incorrere nella valutazione dei soggetti.
Un
altra tecnica è quella che esclude dallanalisi quegli eventi che, a causa della loro relazione con le azioni del soggetto, potrebbero essere accaduti proprio per il fatto che il soggetto era disturbato. 

ALCUNI STUDI INGLESI

Brown e collaboratori esaminarono un campione di popolazione generale di Camberwell composto da 458 donne. Si servirono della PSE per ricavare eventuali sintomi; gli eventi furono rilevati attraverso unintervista, e ad essi venne assegnato un punteggio. Un obbiettivo dello studio era quello di mettere in relazione le differenze nei tassi di disturbi, in diverse classi sociali, con i livelli delle avversità subite. I sottogruppi con i più alti tassi di disturbi psichiatrici non erano quelli che avevano dovuto subire i più alti livelli di avversità.

I ricercatori suggerirono che la ragione di tali risultati derivasse da una maggiore sensibilità agli eventi da parte delle donne che si trovavano in particolari circostanze e identificarono quattro fattori di vulnerabilità: perdita prematura della madre, essere senza lavoro, dover provvedere ai bisogni di un bambino, mancanza di una relazione affettiva valida. Tali fattori agivano in modo tale da accrescere il rischio di depressione.

Emersero notevoli difficolt
à quando si tentò di riprodurre il loro studio. Uno dei limiti di questo studio trae origine dal fatto che fu utilizzata la versione breve della PSE, somministrata da intervistatori non psichiatri.

I risultati di altri studi hanno dimostrato che i disturbi emotivi nella popolazione generale erano due volte e mezzo più frequenti nelle donne che negli uomini. Furono riscontrati bassi tassi di disturbo negli uomini sposati, mentre le loro mogli presentavano tassi molto elevati. Ciò sembra dipendere soprattutto dal fatto che le donne sposate tendono ad abbandonare il lavoro fuori casa per impegnarsi nella cura dei bambini. Le donne della classe operaia che lavorano in casa, con figli, si sono dimostrate particolarmente inclini a manifestare disturbi psichiatrici lievi come reazione alle avversità. Tuttavia lassociazione tra disturbo psichiatrico e classe sociale è risultata trascurabile e poco significativa.

Le condizioni psicopatologiche più gravi e strutturate sono con minore probabilità provocate da eventi di tipo socio-ambientale, esistono però studi che non hanno dimostrato lesistenza di una stratificazione così marcata.

Lultimo studio di popolazione che vogliamo ricordare è quello condotto a Edimburgo su un campione casuale di 576 donne. Gli autori, ben consci della difficoltà di ottenere descrizioni delle condizioni psichiatriche, hanno deciso di registrare le interviste. I ricercatori hanno ascoltato i nastri delle interviste e, se necessario, hanno modificato i punteggi assegnati dal personale non psichiatrico. Questo cambio di punteggio avvenne generalmente nel senso della diminuzione, questo studio infatti riporta i più bassi tassi di prevalenza mai riscontrati prima. Lo strumento utilizzato ha combinato le domande della PSE con quelle della SADS. Questo uso combinato di strumenti diversi appare la strategia che sarà sempre più impiegata negli studi.

CARATTERISTICHE DEGLI STUDI
Prima di tutto il campione di popolazione dovrebbe essere veramente casuale, usando un accurato processo di randomizzazione.
Dovrebbe essere condotto in due fasi. Nella prima fase di selezione dovrebbe essere eseguita una valutazione psichiatrica provvisoria, e il campione di popolazione andrebbe raggruppato in strati secondo le differenti probabilit
à di presentare disturbi intercorrenti. Nella seconda fase dovrebbero essere intervistati sottocampioni dei diversi strati, in modo tale che il campione finale sia costituito prevalentemente da coloro che sono realmente casi.

NON E
CHIARO SE PUO ESSERE VANTAGGIOSO USARE NELLA FASE DI SELEZIONE LE VERSIONI BREVI DI STRUMENTI PIU COMPLESSI USATI NELLA FASE FINALE

Il miglior metodo per indagare il ruolo dellambiente sociale nellesordio dei disturbi psichiatrici consiste nellutilizzare lintervista e le tecniche di valutazione di Brown. Inoltre è necessaria una precisa identificazione delle date di esordio dei sintomi psichiatrici e degli eventi vissuti. Solo gli eventi classificati come indipendenti dovrebbero essere inclusi nellanalisi.

Il burn-out  

    

SINTOMI PSICHICI

incapacità a rilassarsi       

preoccupazione               

trasalimenti 

tremiti        

maggiore timore per eventi stressogeni

irritabilità    

iporessia/bulimia                      

riduzione della memoria   

difficoltà di concentrazione        

disturbi addormentamento/risveglio     

riposo incompleto/agitato

stanchezza da risveglio    

incubi

 

SINTOMI FISICI

dolori muscolari     

contratture/intorpidimenti

contrazione mandibolare/bruxismo       

disturbi ritmo cardiaco     

disturbi del respiro 

dispepsie/nausea/conati di vomito       

disfagia                

dismenorree

frigidita/disturbi sessualita       

disturbi della diuresi        

cefalea                  

rossore/pallore      

parestesie    

ronzio auricolare/acufeni

 

Quadro sintomatologico specifico

espressione di disagio personale determinato dalla azione sinergica di:
-fattori relativi allorganizzazione del lavoro
-fattori originati dal contesto politico-sociale
-fattori individuali

6 DISCREPANZE TRA LAVORO E PERSONA RAPPRESENTANO LE FONTI EMBLEMATICHE DEL BURN-OUT

 

      SOVRACCARICO DI LAVORO

      MANCANZA di CONTROLLO

     sulle POLITICHE DI GESTIONE AZIENDALE

      REMUNERAZIONE INSUFFICIENTE

      ASSENZA DI FIDUCIA E RISPETTO

    nel CONTESTO LAVORATIVO

      CROLLO del SENSO di APPARTENENZA   

     alla COMUNITA

      CONFLITTO DI VALORI

    (tra ciò che richiesto dallazienda e le proprie aspettative)

 

RISVOLTI EMOZIONALI

FRUSTRAZIONE

+

RABBIA