Legge
431 del 1968 “Legge
stralcio Mariotti”
Si
propone l’intento di attenuare l’impianto da istituzione totale
degli ospedali psichiatrici e di indirizzare l’utenza psichiatrica il
più possibile verso un trattamento ambulatoriale esterno al circuito
manicomiale. Questa legge aboliva strutture con migliaia di persone e
prevedeva strutture con al massimo 500 posti: 4 reparti di 125 degenti,
42 infermieri, 3 medici, 1 psicologo, 1 assistente sociale. Inoltre
aboliva l’iscrizione dei ricoveri coatti al casellario giudiziario e
sottraeva quelli volontari da qualsiasi controllo.
Legge
349 del 29/06/1977
In
tale norma si considera la tutela della salute quale fondamentale
diritto dell’individuo ed un interesse della collettività; con la
conseguente necessità che lo stato ponga a disposizione del cittadino
un “Servizio Sanitario”, che con i suoi interventi e strumenti,
affronti le problematiche poste dalla malattia e dalla persona malata.
Legge
180 del 13/05/1978 “Accertamenti
e trattamenti volontari”
Nel
pensiero comune è la legge che ha chiuso gli ospedali psichiatrici, in
realtà tale chiusure rappresenta l’esito di un processo culturale e
legislativo molto più ampio, che mirava ad inserire la salute mentale
all’interno della riforma sanitaria e a far cessare quindi
l’esclusione della psichiatria dall’organizzazione assistenziale del
paese.
I
principi generali più significativi di questa legge sono:
–
Superamento degli ospedali
psichiatrici
–
Integrazione
dell’assistenza psichiatrica nel S.S.N.
–
Orientamento
prevalentemente territoriale dell’assistenza psichiatrica
–
Limitazione dei TSO in
condizioni di emergenza e situazioni ben precisate
Questa
legge delegava le regioni a individuare le strutture per la tutela della
salute mentale, questo ha creato incertezza, ma sono stati emanati due
progetti-obbiettivo (PO) che hanno definito come la tutela della salute
mentale debba svolgersi, quali e quante strutture ci vogliano.
Legge
833 del12/1978 “Istituzione
del S.S.N.”
Il
nostro S.S.N. si fonda sull’articolo 32 della Costituzione che
dichiara:“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse per la collettività e garantisce cure
gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato ad un determinato
trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può
in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona
umana.” .
Articolo
1 della L. 833: “La Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della società
mediante il Servizio Sanitario Nazionale. La tutela della salute fisica
e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà
della persona umana.” .
L’articolo
1 comma 2 sancisce che l’attivazione del S.S.N. compete allo
Stato, alle regioni e agli enti locali territoriali.
Gli
articoli 6 e 7 individuano le competenze dello Stato e le
funzioni delegate alle regioni, che sono investite dagli articoli 10 e
11 di una serie di competenze legislative, riconosciute al fine
di costituire a livello locale la gestione e il controllo della rete dei
sevizi a disposizione della collettività, tramite gli organismi locali
delle U.S.L..
Siccome
le diverse regioni vivono realtà socio-economiche differenti, il
divario si evidenzia nelle competenze della sanità.
Dove
esisteva una migliore situazione di base è stato fatto di più e
meglio, nelle altre regioni è stato fatto poco e lentamente.
Lo
Stato si poneva come 3° pagante, ovvero provvedeva alla copertura del
fabbisogno finanziario determinato dalle decisioni di spesa di soggetti
diversi. Un simile meccanismo,se privo di strumenti di contenimento
delle possibilità di spesa, entra in crisi. Questo si è verificato
negli anni ’80, con l’aumento dell’entità del fondo
sanitario nazionale a causa di un innalzamento sempre maggiore
della spesa sanitaria. Tale innalzamento era da riferirsi soprattutto a
costi di ospedalizzazione, prestazioni di laboratorio e spesa
farmaceutica.
Da
qui nasce l’esigenza di una profonda rivisitazione in senso critico
della L.833, soprattutto sui
costi che richiedevano grossi stanziamenti, in contrasto con
l’esigenza di risanamento dei conti pubblici, resa necessaria dalla
decisione politica di far partecipare l’Italia al processo di
unificazione europea.
Legge
412 del 23/10 /1992
“Riordino del S.S.N.”
Con
questa legge lo Stato definisce la normativa in ambito di:
–
Sanità
–
Pubblico impiego
–
Previdenza
–
Finanza territoriale
D.
Lg. 502 e D. Lg. 517
Questi
due Decreti Legislativi emanati dal governo tendono a:
–
Raggiungimento di
obbiettivi programmatici sulla salute
–
Uso ottimale e razionale
delle risorse che il governo destina al settore sanitario
–
Equa distribuzione delle
risorse su tutti i fattori del sistema in atto
Con
queste modifiche non crolla il principio di base del S.S.N., cioè
garantire a tutti i cittadini l’assistenza sanitaria necessaria alla
tutela e al recupero della salute, viene però riorganizzato il sistema:
–
Vengono modificati i
meccanismi di formazione e ripartizione del Fondo Sanitario Nazionale,
con l’introduzione della quota capitaria che lega livelli uniformi di
assistenza alla popolazione residente nelle diverse regioni, pesata
attraverso diversi parametri (classi di età, tasso di mortalità,
ecc…). Il cittadino gode di livelli di assistenza uniformi e
obbligatori, per i quali sono stabiliti la soglia minima da garantire ai
cittadini e il parametro capitario di finanziamento da assicurare alle
regioni. Alle regioni viene consegnata una quota del Fondo Sanitario
Nazionale (F.S.N.).
–
Le USL e gli ospedali di
rilievo nazionale si trasformano in aziende con autonomia giuridica,
tecnica e finanziaria (assegnata ai dirigenti generale, amministrativo e
sanitario). Le ASL sono enti che acquistano e vendono prestazioni
sanitarie, necessarie e indispensabili al cittadino.
–
Si introduce il concetto
di concorrenzialità, cioè data l’esistenza sul mercato di
un’organizzazione parallela a quella del S.S.N. di natura privata,
alla quale i cittadini si rivolgono sempre con maggior frequenza, per
rimediare alle carenze del sevizio pubblico, lo Stato accoglie il
principio del diritto del cittadino alla libera scelta tra diverse
strutture e le riconosce come fornitrici di prestazioni sanitarie.
–
A livello ospedaliero si
cerca di ridurre al massimo i tempi di ricovero, con ripristino delle
camere a pagamento.
Tali
decreti sono stati applicati in un contesto già caotico con poca
competenza per cui la loro applicazione ha causato ulteriore riduzione
del livello di efficienza del S.S.N., penalizzando i cittadini con
lunghe liste d’attesa e ricoveri lampo.
Internamente
si sono verificati: blocco delle assunzioni e delle spese per nuovi
acquisti.
Il
Piano Sanitario Nazionale (1998-2000)
Si
apre con l’Art. 32 della Costituzione, sottolineando che la salute è
un bene pari all’integrità del territorio, alla pace sociale, …
Tutta
la collettività deve cooperare alla difesa di questo bene, soprattutto
perché il paese attraversa una situazione difficile.
Viene
proposto un patto di solidarietà che deve intercorrere tra le
istituzioni e i soggetti interessati al fine di poter dare concretezza e
certezza alla tutela del bene salute.
Il
piano si divide in due parti:
–
Obbiettivi della salute:
il cittadino deve guardare al bene salute con senso di responsabilità,
fondata sulla constatazione che la malattia non danneggia solo
l’individuo, ma la collettività in quanto costringe ad impiegare
mezzi comuni, per giungere al recupero della salute del singolo. Lo
Stato invita il cittadino a modificare stili di vita e atteggiamenti che
sono considerati causa di morbosità, disabilità e mortalità. Ad
esempio ci sono indicazioni per contrastare atteggiamenti negativi come
fumo e alcool.
–
Strategie del cambiamento:
sono formulati i principi guida che riguardano i livelli di assistenza,
le modalità di finanziamento delle regioni e delle ASL. Le disposizioni
trovano attuazione nel D. Lg. 229 del 19/06/1999 “Norme per la
razionalizzazione del S.S.N.”. il decreto ribadisce l’Art. 32 della
Costituzione, ma fa riferimento ai livelli essenziali ed uniformi di
assistenza, che vengono assicurati rispettando il bisogno di salute,
della qualità delle cure, della loro appropriatezza, tenuto conto
dell’economicità dell’impiego delle risorse. Date le oggettive
difficoltà economico-finanziarie, non è negato il principio generale
del diritto alla salute, ma bisogna porre dei limiti alla sua
esplicazione.
I
Progetti-Obiettivo (PO)
Il
PO 1998-2000 è stato approvato con DPR del 10/11/1999 e dalle
disposizioni delle leggi finanziarie 97/98 che hanno accelerato il
processo di chiusura degli ospedali psichiatrici prevenendo sanzioni
finanziarie a carico delle regioni inadempienti.
Con
i PO si realizza concretamente quella visione più moderna
dell’assistenza psichiatrica introdotta dalla L. 180 incentrata su
prevenzione, cura e riabilitazione del paziente con disturbi
psichiatrici.
Il
fulcro dell’assistenza si sposta dalle strutture di ricovero ai sevizi
sul territorio. Il Piano Sanitario Nazionale 1998/2000 riconosce la
complessa problematica e colloca la tutela della salute mentale tra le
tematiche ad elevata complessità, rinviando tutto ad uno specifico PO,
e vede come interventi prioritari:
–
Il completamento su tutto
il territorio nazionale del modello dipartimentale
–
Riconversione delle
risorse recuperate dalla chiusura dei manicomi destinandole alla
realizzazione di condizioni abitative adeguate e alle attività dei DSM
–
Riqualificazione e
formazione del personale sanitario in particolare di quello operante
negli ex OP
–
Realizzazione di
interventi sulla tutela della salute mentale in età evolutiva
–
Adozione di programmi di
aiuto alle famiglie con malati mentali per sostenere i gravi carichi
assistenziali che essi affrontano quotidianamente
Nel
PO 1998/2000 ci si occupa di aspetti ancora irrisolti come:
–
Assenza di attenzione ai
problemi dell’età evolutiva (ridurre la prevalenza e la gravità
clinica delle situazioni psicopatologiche in età evolutiva, svolgimento
di un’effettiva azione di prevenzione)
–
Assenza di attenzione per
gli ospedali psichiatrici giudiziari e istituzionalizzazione di pazienti
in età evolutiva
–
Carenza di valutazioni di
efficienza e efficacia
–
Mancata attivazione del
monitoraggio della spesa
–
Interventi non ben
coordinati e conflitti di competenze professionali
E’
quindi importante che il PO 1998/2000 si concentri sulla salute mentale
in età evolutiva considerando il problema della costituzione di poli
ospedalieri per la patologia acuta nell’adolescenza, perché tali
pazienti non possono essere collocati negli SPDC con gli adulti, bisogna
anche considerare la sua famiglia.
Secondo
il PO 1998/2000 il DSM deve ogni anno occuparsi della formazione e
dell’aggiornamento del personale per incrementare la capacità di
lavoro in équipe e la progettualità comune.
Tale
PO pone attenzione al problema della qualità dell’assistenza, anche
come qualità percepita dell’utente e dai suoi famigliari. E’
previsto che il DSM attivi un nucleo di valutazione e miglioramento
della qualità professionale degli operatori e di quella percepita dagli
utenti. Prevede inoltre che il DSM sia impegnato ogni anno in almeno un
progetto di Miglioramento Continuo della Qualità (MCQ).
Nel
corso del triennio, nel DSM, dovranno essere effettuati almeno i
seguenti progetti di MCQ:
–
Progetto per la
valutazione della soddisfazione degli utenti, dei famigliari e della
popolazione entro la quale opera il DSM
–
Progetto per migliorare la
qualità della documentazione clinico-sociale degli utenti
–
Progetto per migliorare la
continuità dell’assistenza
–
Progetto per la
razionalizzazione nell’uso degli psicofarmaci
–
Progetto per migliorare la
collaborazione con i famigliari
–
Progetto per la riduzione
della recidive
–
Progetto sulla valutazione
e sul miglioramento della soddisfazione degli operatori
L.
405/2001
L’08/08/2001
la Conferenza Permanente per i rapporti tra Stato, regioni e province
autonome di Trento e Bolzano ha sancito l’accordo precedentemente
raggiunto tra i Ministro dell’Economia e della Salute e i presidenti
delle regioni in materia di spesa sanitaria e sull’assetto da dare nel
futuro immediato al S.S.N., mediante l’attribuzione alle regioni di più
ampia autonomia organizzativa e gestionale e l’assunzione delle
conseguenti responsabilità in ordine al finanziamento del sistema al di
là dei tetti di spesa predefiniti con il governo centrale.
Il
S.S.N. si trasforma in senso federalistico. L’accordo al punto 15
dice:
“Il
governo si impegna ad adottare entro il 30/11/2001 un provvedimento per
la definizione dei LEA. D’intesa con la Conferenza Stato-Regioni”.
Con
il D. Lg. 347 del 19/09/2001, convertito nella L. 405/2001
entrano in vigore i LEA (livelli minimi di assistenza) e sancisce che le
regioni hanno tempo fino al 01/07/2002 per applicarli a livello locale.
Secondo
i Lea sono a carico della collettività solo le prestazioni che sono
necessarie, efficaci e appropriate; per alcune altre l’erogazione da
parte del S.S.N. sarà subordinata a particolari indicazioni cliniche,
mentre per le rimanenti l’onere graverà su coloro che ne vogliono
comunque fruire.
C’è
quindi l’intento di ridurre l’assistenza in regime di ricovero,
dando un forte impulso all’assistenza territoriale (domiciliare,
residenziale, semiresidenziale).
Le
prestazioni totalmente escluse dai LEA sono:
–
Chirurgia estetica, se non
dopo incidenti
–
Medicine non convenzionali
–
Vaccinazioni non
obbligatorie
Le
prestazioni parzialmente escluse dai LEA sono:
–
Densitometria ossea
–
Medicina fisica e
riabilitazione ambulatoriale
L’assistenza
psichiatrica è affrontata nell’ambito dell’assistenza territoriale
ambulatoriale e domiciliare, semiresidenziale e residenziale, in una
dimensione di integrazione socio-sanitaria e di contemporaneo intervento
a favore dei famigliari dei pazienti.
Le
prestazioni erogabili, i modi di erogarle e gli standard assistenziali
ai quali riferirsi sono quelli previsti dal PO “Tutela della salute
mentale”.
Legge
regionale 357 del 28/01/1997 “Standard
strutturali e organizzativi del DSM”
Il
DSM deve essere così strutturato:
–
Il CSM a cui compete
l’assistenza ambulatoriale e domiciliare, è il polo propulsivo per
l’integrazione sociale dei soggetti con disturbi psichiatrici.
–
Il Centro diurno e/o il
Day Hospital.
–
Il Servizio Psichiatrico
di Diagnosi e Cura (SPDC).
–
Le Comunità Protette che
sono distinte in due categorie in base ai diversi livelli assistenziali:
1
. Elevata intensità terapeutica e
intervento riabilitativo. Tempo di
permanenza definito in base al progetto, ma comunque non più di
36
mesi. Ospita il paziente nella fase sub-acuta o in quella
iniziale del
progetto riabilitativo.
2. Medio livello di protezione e di intervento riabilitativo.
Tempo di
permanenza prolungato in funzione al progetto. Ospita il paziente
nella fase più avanzata del progetto riabilitativo.
–
Il Centro di Terapie
Psichiatriche (CTP) ubicato nel centro cittadino o urbano.
–
La Comunità Alloggio (CA)
che è un presidio socio-assistenziale utilizzato a supporto di un
progetto terapeutico-riabilitativo gestito dal CSM competente del
territorio.
Strutture
in salute mentale
Le
strutture deputate alla tutela della salute mentale sono:
–
Il CSM che coordina
interventi di prevenzione, cura, riabilitazione e reinserimento sociale
dei pazienti nel territorio di competenza.
–
Il Servizio Psichiatrico
di Diagnosi e Cura (SPDC) ubicato in contesti ospedalieri con sevizio
24h/24, dove si fanno trattamenti psichiatrici volontari e obbligatori
in condizioni di ricovero con non più di 16 letti e spazi ricreativi.
–
Il Day Hospital che
costituisce un’area di assistenza semiresidenziale per prestazioni
diagnostiche e terapeutico-riabilitative a breve e medio termine. Si
cerca di effettuare interventi farmacologici e psicoterapeutici
riabilitativi e di ridurre il ricorso al ricovero o limitarne la durata.
–
Il Centro Diurno che è
una struttura semiresidenziale con funzioni terapeutico-riabilitative; i
suoi compiti sono volti a consentire la sperimentazione, nell’ambito
di progetti terapeutico- riabilitativi, di abilità della cura di sé e
nelle quotidiane relazioni interpersonali.
–
Le strutture residenziali
che non sono soluzioni abitative, ma sede di programmi
terapeutico-riabilitativi, per utenti di esclusiva competenza
psichiatrica.
I
Gruppi Appartamento
Sono
soluzioni abitative per rispondere a specifiche esigenze di
residenzialità assistita di tipo non basilare, rivolte a pazienti
giunti in una fase avanzata del loro reinserimento sociale.
I
GA sono gestiti dal DSM, sono esclusivamente unità abitative per cui i
pazienti rimangono in carico al DSM competente del territorio che è
direttamente responsabile del progetto terapeutico-riabilitativo.
L’Affido
Famigliare
Il
DSM può prevedere l’affido di pazienti psichiatrici. E’ previsto un
sostegno economico da erogare alla famiglia affidataria.
La
famiglia è selezionata dal DSM dopo un corso di formazione organizzato
dal DSM stesso .
Interventi
di tipo economico
Sono
di diversi tipi:
–
L’assegno terapeutico
che può essere erogato per diminuire i ricoveri in strutture
residenziali sanitarie e deve essere parte integrante di un processo
terapeutico-riabilitativo. Essendo alternativo al ricovero e pertanto di
esclusiva competenza sanitaria, può essere erogato al paziente, ai
famigliari o al tutore.
–
Le Borse Lavoro che il DSM
può istituire con propri fondi per inserimenti che possono essere
formativi, lavorativi e/o occupazionali. Sono ad appannaggio delle fasce
d’utenza giovane e adulta. È un intervento terapeutico-riabilitativo
temporaneo.
“La
salvezza del malato mentale è quella di restare nelle nostre case,
coinvolgendo nella sua problematica la nostra vita reale, così che la
sua presenza richiederà strutture terapeutiche vicine a lui, psichiatri
a domicilio, organizzazioni comunitarie in cui possa sentirsi protetto,
luoghi di lavoro dove possa trovare un ruolo, una funzione che
giustifichi - davanti a se stesso - la sua presenza ne mondo”.
Franco
Basaglia 1967
Legge
Mariotti
La
L.18 marzo 1968 n°431 determinò profonde innovazioni
dell’organizzazione
dell’assistenza psichiatrica :
n
Riduzione
delle dimensioni degli ospedali psichiatrici ad un massimo di 600 posti
letto (125 per divisione);
n
Istituzione
di divisioni di psichiatria negli ospedali generali
n
Parametri
per le dotazioni di personale degli OP e dei CIM
n
Promozione
dell’intervento psicologico e psicosociale a favore dei ricoverati
n
Introduzione
del ricovero volontario
n
Abolizione
della registrazione del ricovero in OP nel casellario giudiziario
Legge
180
La
L. 13 maggio 1978 n. 180 sancisce:
n
L’ordinaria
volontarietà del ricovero
n
La
chiusura degli ospedali psichiatrici
n
Centralità
degli interventi extraospedalieri nella prevenzione, cura e
riabilitazione nel campo delle malattie mentali
n
Istituzione
di servizi per le acuzie negli ospedali civili
Legge
833
La
L. n. 833 del 23 dicembre 1978 “Istituzione del servizio sanitario
nazionale”
definisce :
n
La fine
della separatezza tra legislazione psichiatrica e legislazione sanitaria
n
Istituisce
servizi a struttura dipartimentale con funzioni preventive, curative e
riabilitative nell’ambito della salute mentale e dell’assistenza
psichiatrica
ASSISTENZA PSICHIATRICA NELL’ ITALIA DEGLI ANNI ‘80
n
L’équipe
multiprofessionale
n
La presa
in carico
n
La
continuità terapeutica
n
L’articolazione
della risposta
n
Essere
nel territorio
L’EQUIPE
MULTIPROFESSIONALE
Il
gruppo terapeutico :
n
E’
l’elemento centrale nella cura dei pazienti affetti da disturbi
mentali gravi.
n
E’
l’oggetto prioritario di analisi e intervento.
n
Il suo
buon funzionamento condiziona la presa in carico.
LA
PRESA IN CARICO
Assunzione
di responsabilità da parte di un équipe psichiatrica nei
confronti
di un’utenza territoriale, il momento cruciale in cui il
gruppo
definisce la sua identità culturale e tecnica in relazione alle
esigenze
e alle pressioni del territorio.
Diversi
aspetti della presa in carico :
n
aspetti
tecnici (dalla accoglienza alla valutazione, alla diagnosi clinica e
alla scelta dei trattamenti).
n
Aspetti
organizzativi (passaggio
dall’ambulatorio al servizio, al dipartimento o dalle prestazioni ai
progetti di cura).
n
Aspetti
etici (assunzione di responsabilità, continuità e funzione tutoria).
LA CONTINUITA
’ TERAPEUTICA
n
Il
contestuale moltiplicarsi dei luoghi del servizio psichiatrico e il
permanere della progettualità all’interno di un solo gruppo di lavoro
ESSERE
NEL TERRITORIO
n
Il
territorio è un campo vivo in continua trasformazione, stimolato dal
servizio psichiatrico alla collaborazione tra risorse specifiche e
aspecifiche e al lavoro di rete
n
La L.
502 / 1992 sancisce il
riordino della disciplina in materia sanitaria e avvia una radicale
trasformazione del servizio sanitario nazionale (definizione del DSM).
IL
DIPARTIMENTO DI SALUTE MENTALE
n
Struttura
assistenziale complessa finalizzata alla prevenzione, cura
e riabilitazione delle patologie psichiatriche, che utilizza come
strumento operativo la presa in carico.
n
Nasce in
un quadro macro sociale che vedeva la riduzione delle risorse e un
incremento delle richieste di attenzione e di investimenti nelle aree di
confine nelle quali la domanda di salute mentale si articola con altri
problemi di carattere sanitario sociale (adolescenti, anziani,
comorbidità con uso di sostanze, disturbi del comportamento
alimentare...)
VANTAGGI
DELL’ORGANIZZAZIONE DIPARTIMENTALE
n
Contempera
le contrapposte esigenze
n
Permette
un intervento globale e un intervento sanitario specializzato
n
Collega
servizi sanitari che forniscono prestazioni diversificate
n
Supera le
limitazioni di una struttura organizzativa di piccole dimensioni
n
Permette
di applicare il principio della “cure progressive”
n
Favorisce
il contenimento dei costi mediante un impiego razionale e intensivo
delle risorse tecnologiche.
PROGETTO
OBIETTIVO 1994-1998
n
Definisce
funzioni e strutture integrate, in rete, secondo un disegno coordinato e
predefinito da un’unica struttura direzionale : il DSM, da realizzarsi
su tutto il territorio nazionale.
n
Il DSM
vincola tutti gli operatori a una serie di interventi multidisciplinari
unificati da obiettivo e valutazione comuni, ciò ne fa la struttura
organizzativa idonea ad integrare i diversi momenti operativi a seconda
dei bisogni presentati dalle persone affette da gravi disturbi mentali,
secondo linee guida quali il mantenimento della presa in carico, della
continuità e della responsabilità terapeutica.
n
L.
662/1996 : dispone che entro il 31 /01/97 le regioni adottino piani
programmatici per la tutela della salute mentale, in attuazione di
quanto previsto dal PON, che l’alienazione dei beni mobili e immobili
degli ex OP costituisca lo strumento per il finanziamento
dell’assistenza psichiatrica e vincola parte dei trasferimenti dal
fondo sanitario nazionale all’attuazione del PON, con particolare
riferimento alla chiusura degli ex OP.
n
L.
449/1997 : ribadisce i vincoli della 662 stabilendo criteri precisi per
il monitoraggio del processo di chiusura.
PROGETTO
OBIETTIVO 1998-2000
Obiettivi
prioritari per la salute mentale :
n
Miglioramento
della qualità della vita e dell’integrazione sociale dei soggetti con
malattie mentali.
n
Riduzione
dell’incidenza dei suicidi nella popolazione a rischio per problemi di
salute mentale
n
Azioni
prioritarie:
n
Completamento
su tutto il territorio nazionale del modello organizzativo
dipartimentale
n
Stretta
integrazione delle strutture operative coinvolte
n
Riconversione
delle risorse recuperate dalla chiusura dei manicomi
n
Obiettivi
di formazione: adozione dui programmi di aiuto alle famiglie con malati
mentali
n
realizzazione
di interventi per la tutela della salute mentale in età evolutiva
IL
DSM NELL’ORGANIZZAZIONE COMPLESSIVA DELL’AZIENDA
I
criteri fondamentali di dipartimentalizzazione dei servizi sanitari alla
persona :
n
Contenuto
della domanda
n
Caratteristiche
del richiedente
n
Caratteristiche
della modalità di insorgenza e del decorso
n
Caratteristiche
degli strumenti e del luogo della risposta
Vantaggi
rispetto alle altre unità dipartimentali:
n
Continuità
terapeutica spaziale e logistica ospedale -territorio
n
Continuità
terapeutica temporale tra intervento, prevenzione,
cura e riabilitazione
n
Unità
specialistica sotto il profilo tecnico-scientifico e culturale della
disciplina psichiatrica
Limiti
:
n
Non
favorisce l’integrazione con altri servizi affini sotto il profilo
della logistica
n
Non
favorisce la presa in carico integrata delle situazioni multi
problematiche
n
Non
favorisce la presa in carico unitaria di problemi affini sotto il
profilo dell’insorgenza
DSM E SALUTE MENTALE
- L’INTEGRAZIONE -
Il metodo della psichiatria si fonda sull’integrazione, si pone
il problema della specificità dell’approccio psicosociale delineando
due percorsi :
uno basato sulla risposta al disturbo emergente, o all’episodio
acuto,
l’altro caratterizzato dalla presa in carico di pazienti i cui
disturbi si prolungano nel tempo.
Vi è un’altra dicotomia da considerare nella pratica della
psichiatria : quella tra pubblico e privato.
E’ importante integrare il contratto pubblico proposto
dall’agenzia formale con il contratto privato stipulato dal paziente,
attraverso un’alleanza di lavoro, una relazione che si proponga di
rilevare e comprendere i suoi specifici bisogni.
Per rispondere a nuove forme di bisogno sono emersi nuovi
soggetti: pubblici, privati, le
famiglie in funzione di cooperazione o di stimolo, i pazienti stessi
come protagonisti.
L’alleanza terapeutica va cercata con le realtà presenti nel
territorio contribuendo al superamento del pregiudizio culturale.
- ASSISTENZA PSICHIATRICA-
Si occupa di situazioni problematiche che vanno dalla clinica
psichiatrica classica, in primis le psicosi ma anche quadri depressivi e
disturbi di personalità, all’interesse per il più vasto campo della
salute mentale, dalla prevenzione del disagio in età evolutiva ai
comportamenti violenti.
PON 98/2000 rappresenta un quadro di riferimento utile ma con
punti di criticità :
–
Difficoltà
sia nel fornire risposte qualificate alle patologie dei minori, sia
prendersi cura del paziente grave.
–
Carenza
di monitoraggio-verifica di appropriatezza degli interventi e di
attenzione ai programmi di qualità.
–
L’organizzazione
delle UO di psichiatria risente spesso di un limite di chiusura e di una
certa fissità nell’articolazione delle strutture.
–
La
parziale e solo teorica tutela del diritto alla libera scelta del
curante da parte dei
cittadini
–
Mancato o
insufficiente funzionamento del DSM come momento di aggregazione e
collegamento dei soggetti e risorse, pubbliche o private, che sono in
campo per la salute mentale.
DSM E SALUTE MENTALE
- ATTUALI LINEE DI INDIRIZZO-
n
Sussidiarieta’
n
Centralità
della persona
n
Lavoro
dinamico per progetti :
–
Necessità
di differenziare i percorsi di cura, sulla base di un’accurata
osservazione diagnostica e valutazione dei bisogni clinico-sociali.
–
Elaborazione
di progetti corrispondenti.
MODELLI E STRUMENTI DELLA PSICHIATRIA
DI COMUNITA’
La
mission generale del DSM- in
quanto sistema di assistenza psichiatrica territoriale- è quello di
occuparsi della prevenzione, cura e riabilitazione della totalità delle
malattie mentali che si presentano in una specifica popolazione; la sua
mission specifica, come sistema psichiatrico organizzato per garantire
una gamma di interventi essenziali, va formulata a partire dalle
politiche sanitarie definite a livello nazionale o regionale e delle
strategie locali di ripartizione delle risorse.
Bisogna
quindi definire una gerarchia delle funzioni. Quella gerarchicamente
prioritaria del DSM consiste nell’intercettare ed accogliere i
bisogni, trovare risposte e dar voce a chi non chiede: il paziente
grave.
La
presa in carico dei pazienti gravi è una scelta tecnica ed etica
obbligata in un sistema pubblico.
LA
PRESA IN
CARICO E IL TRATTAMENTO
Occorre
distinguere tra il prendersi cura di una persona da parte del servizio
psichiatrico (la presa in
carico) e i modi, tempi e luoghi in cui nei diversi momenti della storia
clinica la presa in carico si articola (i trattamenti).
Per
presa in carico si intende
l’insieme delle operazioni complesse che un’èquipe
multiprofessionale mette in atto quando un paziente, che è andato
incontro ad un episodio di malattia mentale grave, si rivolge al Centro
di Salute Mentale. La complessità riguarda il fatto che singoli atti di
carattere tecnico-professionale vengono svolti da più operatori, sia
con il paziente che con i suoi familiari e con chiunque sia considerato
parte in causa e che tutti questi atti devono essere raccordati da una
funzione gruppale che restituisce ai singoli la posizione e il senso
delle loro azioni tecnico-professionali.
Per
trattamento si intende un
insieme di atti tecnico-professionali che pur implicando anch’essi una
presa in carico mentale ed emotiva del paziente e un’assunzione di
responsabilità nei suoi riguardi, rispondano in modo più vincolante a
criteri di indicazione, durata e attesa dei risultati.
La
presa in carico è funzione dell’istituzione complessa del DSM, il
trattamento è un insieme di prestazioni tecnico-professionali erogate
da un’èquipe multiprofessionale più limitata o da un singolo
professionista.
La
presa in carico è caratterizzata da diversi aspetti :
-
aspetti tecnici :
accoglienza, valutazione, diagnosi, scelta dei trattamenti;
-
aspetti organizzativi :
legati al passaggio all’ambulatorio, al dipartimento, al servizio
-
aspetti etici :
responsabilità, continuità, garanzia, assunzione del problema
“tutorio”.
Spesso
si preferisce parlare di presa in
cura poiché il concetto di “carico” evoca onerosità
assistenziale e una posizione di passività.
Essa
rappresenta l’incontro tra due soggettività all’inizio della
relazione terapeutica, momento di conoscenza e costruzione di una
reciproca immagine interna, è il momento privilegiato di osservazione
dei sintomi e di attenzione ai vissuti.
Vi
sono diverse tipologie : la presa in carico urgente
in ospedale o sul territorio; ordinaria
che è fulcro dell’attività del servizio; interna ad un lavoro di consulenza, che quando va al di là della semplice
espressione di un parere, può corrispondere a una micro-presa in
carico.
Le
direttrici variano a seconda della cultura prevalente nel servizio,
dalla concezione più attiva, con una presa in carico globale e rigida,
o passivo-recettiva dell’attività con la cosiddetta presa in
“scarico” in cui può esserci un agire senza obiettivo.
Rispetto
all’articolazione nel tempo occorre considerare separatamente la fase
di accoglienza ed analisi della domanda, quella della relazione e del
progetto terapeutico, quella della continuità terapeutica. La prima
rimanda alle operazioni di accettazione, accoglimento, primo contatto,
lavoro sulla fiducia ed elaborazione del progetto di trattamento. La
seconda rimanda ai momenti di definizione di obiettivi e strumenti della
presa in carico, al rapporto tra presa in carico e trattamenti.
La
continuità terapeutica rappresenta il moltiplicarsi dei luoghi del
servizio psichiatrico e permanere della progettualità all’interno di
un solo gruppo di lavoro. Questa fase implica una continuità temporale,
individuale attraverso la personalizzazione del trattamento, ma anche
continuità, flessibilità, relazione. In questo ambito diventa centrale
il lavoro di rete.
CASE MANAGEMENT E COMMUNITY CARE
Lo strumento del
"Case Management", pensato in U.S.A. come modalità
d'intervento della Community Care, è in gran parte nato dalle esigenze
create dalle nuove legislazioni, prima quella psichiatrica, poi quelle
sanitarie generali.
Possiamo considerarlo come un modo operativo economico ed efficiente
teso all'efficace raggiungimento degli obiettivi di assistenza
individuale. È un intervento orientato alla Persona e pensato sulla
Persona superando, così, tutte le difficoltà di un'assistenza
disaggregata, antieconomica e inefficiente, che rischia di lasciare
l'assistito solo con i suoi problemi.
Il case management è definibile come un processo integrato finalizzato
ad individuare i bisogni degli individui ed a soddisfarli, nell'ambito
delle risorse disponibili, partendo dal riconoscimento della loro unicità.
Esso si configura
come una metodologia d'intervento processuale, articolata in diversi
momenti: la valutazione iniziale, la costruzione del piano assistenziale
individualizzato, la messa in atto del progetto assistenziale, il
monitoraggio, l’advocacy (tutela dei diritti dell’assistito mediante
la definizione di un programma concordato tra l’assistito e la sua
famiglia, favorire la presa di decisioni autonome), la conclusione dopo
il raggiungimento dell’obiettivo.
Nel corso di tale processo, la responsabilità dei servizi forniti
all'utente è del case manager (che possono differire per istruzione
professionale e competenze, per le funzioni svolte e il numero di casi
assegnati),il "responsabile del caso", il quale lo segue in
tutti i suoi momenti. Tale responsabile può agire esclusivamente come
"regista" che valuta, costruisce il piano e segue il caso nel
tempo, oppure può essere direttamente impegnato nell'erogazione delle
prestazioni. È previsto che a lui venga assegnata un'ampia libertà
d'azione, che si traduce in potere decisionale su quali prestazioni
fornire e nel disporre di un budget da utilizzare come meglio ritiene.
La
decentralizzazione delle responsabilità decisionali al case manager e
l'affidamento ad esso degli strumenti (economici e di autorità)
necessari per metterle effettivamente in atto sono cruciali in questo
modello. Il case manager è pensato come un operatore "imprenditore
creativo".
Ciò significa che esso, in sede di valutazione iniziale, deve esaminare
effettivamente quali sono i bisogni del richiedente, senza essere
condizionato da una propria prospettiva teorica o dalle risorse
disponibili. Il case manager deve poi saper costruire un "pacchetto
di prestazioni", offerte da attori diversi, tra loro coerenti e
coordinate, il più possibile adatte ai bisogni dell'utente. E',
inoltre, cruciale la sua capacità di seguire il caso nel tempo,
valutare come cambiano le sue condizioni e modificare quando necessario
il pacchetto di prestazioni erogate. Nello svolgimento di queste diverse
funzioni, è fondamentale che il case manager sappia costruire un
dialogo costante con l'utente e la sua famiglia. Altra funzione
importante è l’attività di counselling attraverso cui ottenere un
potenziamento della capacità dell’utente di farsi carico delle
proprie responsabilità.
Non si può
analizzare il fenomeno del case management senza partire dal terreno
organizzativo in cui si è sviluppato, che è di fatto la nuova
concezione generale di politica sanitaria nazionale, nota con il termine
anglofono di Community Care.
COMMUNITY CARE
Non è facile definire un analogo italiano della community care anche
per l'ambiguità stessa che l'espressione ha assunto nel mondo
anglosassone.
Processi di territorializzazione della sanità sono stati attivati anche
in Italia; si pensi solo ai programmi per la gestione dei pazienti con
patologie particolari presso il proprio domicilio, che coinvolge
internisti, oncologi, geriatri, fisiatri, oltre, naturalmente,
l'intervento territoriale psichiatrico; si consideri anche l'importanza
che sta assumendo la medicina di base ed i servizi territoriali attivati
nelle Aziende Sanitarie Locali. Resta, però, ancora non realizzata una
vera e propria messa in rete dei servizi, integrandoli tra loro e
proponendoli al pubblico in una forma altamente fruibile (come, ad
esempio, attraverso internet).
La necessità di una visione globale e di rete dei problemi sanitari è
strettamente collegata alla richiesta di rapidità, qualità, efficacia
e fruibilità dell'intervento e si è accresciuta con l'accrescersi
della conoscenza medica della popolazione, della diffusione di servizi
sociali sul territorio e dalle esigenze di integrazione tra i servizi,
laddove salute non è solo sinonimo di sanità psicofisica, ma include
anche buona qualità di vita sociale. Di fatto la rete diventa uno
strumento indispensabile per superare le difficoltà dell'assistenza
proprie del modello ospedalocentrico.
Il significato dell'approccio di rete può essere meglio delineato
prendendo in considerazione due dei maggiori punti di difficoltà che
gravano sul funzionamento attuale del welfare state socio-assistenziale.
Il primo è la difficoltà della rete dei servizi istituzionali a
differenziare oltre certi limiti la gamma delle prestazioni, nella loro
continua ricerca di soddisfazione dei molteplici bisogni individuali.
Riuscire a dare risposte diverse a bisogni diversi, via via sempre più
immateriali e soggettivi, è stata la continua scommessa su cui si è
accanito in questi anni il welfare state. La caratteristica più
evidente che la rete dei servizi sociali è andata assumendo è stata
proprio quella di una notevole differenziazione, ma è evidente ora che
questo processo di continuo adattamento ai bisogni da parte del sistema
delle burocrazie dei servizi incontra limiti strutturali.
Il secondo problema è connesso, invece, alla difficoltà di mantenere
vivo, nelle prestazioni, ciò che potremmo chiamare, in senso generico,
il loro senso umano. Risulta difficile, in altri termini, mantenere le
prestazioni professionali, nella loro corsa verso un sempre maggior
grado di specializzazione tecnica o di razionalizzazione burocratica, il
più vicino possibile alle pratiche umane di base, conservando ancora il
carattere di significativa comunicazione interumana.
Dunque, i servizi organizzati, considerati come un tutto, sono spinti a
segmentarsi fino ad entrare dentro ai bisogni in modo relativamente
mirato.
Essendo entità
organizzate, questa capacità di differenziarsi risulta in loro una
caratteristica peculiare. Ma vi è un punto limite oltre il quale questa
avanzata verso il particolare si fa via via più difficoltosa. Lo
spezzettamento funzionale dei servizi si arresta quando essi devono
entrare in interazione con bisogni specifici e particolari, che
richiedono risposte nel qui ed ora, dense soprattutto di calore umano e
affettività, oppure risposte materiali così minute e ininterrotte da
poter essere sostenute solo nella cerchia della responsabilizzazione e
del coinvolgimento affettivo a breve raggio.
Sono queste le due principali direttrici (differenziazione e
specializzazione delle prestazioni, nonché loro umanizzazione) dentro
le quali si è dovuta incanalare l'evoluzione moderna del welfare state
e del lavoro sociale.
Si è creduto di intravvedere la chiave di risoluzione di questa
difficoltà, in una prima ipotesi di community care, cioè nel creare,
per rispondere alle difficoltà di vita del cittadino, servizi integrati
nella comunità, collocati dunque nel punto fisico più vicino
all'insorgere dei bisogni e al fluire naturale delle risorse umane.
In effetti, fra i vari principi guida delle recenti riforme di politica
sociale, quello che più ha smosso la cultura, la legislazione e la
prassi quotidiana è quello della integrazione sociale, o della
cosiddetta normalizzazione, intese come affermazione del diritto di ogni
persona, indipendentemente dalle sue difficoltà o handicap, a godere di
normali condizioni di vita.
Questo movimento di andata verso la comunità si è sviluppato in due
momenti interconnessi, che possono, ad ogni modo, essere concettualmente
distinti (Folgheraiter, 1995):
· l'impianto nelle comunità di piccole strutture di servizio alla
persona (i cosiddetti servizi sociali personali): questo primo sviluppo
"ha portato nel suo complesso alla costituzione di un'articolata
rete formale di supporto comunitario, a composizione mista
pubblico/privato";
· una rinnovata presa di coscienza delle potenzialità della comunità
stessa come contesto di cura e promozione umana.
In quest'ottica rete di servizi e loro fruibilità combaciano; le
esigenze, quindi, implicano impegni strutturali, funzionali, di
procedimento e, non ultimo, di informazione. Per rispondere a queste
esigenze i principi generali cui ispirarsi per una corretta Community
Care sono:
- consultazione e partecipazione
- autodeterminazione e autonomia
- strutture normali
- segregazione minima
- protezione ed ospitalità
- piccoli servizi
- collocazione dei servizi in luoghi accessibili nell'abitato
- soluzioni ambientali invece di servizi speciali
- diminuzione dello stress
- trattamenti calibrati sulle specifiche necessità di una persona
- stimolazione delle abilità delle persone nel risolvere i propri
problemi.
Nella realizzazione di un progetto dovremo, quindi:
- assicurare l'ACCESSIBILITÀ dei servizi
- rispettare
la RILEVANZA
dei bisogni espressi
- operare con EFFICACIA per l' utente
- mantenere l'EQUITÀ nella distribuzione delle risorse e dei servizi
alla popolazione
- considerare l'ACCETTABILITA' SOCIALE dell'offerta e dell'accesso
- operare con EFFICIENZA ed ECONOMIA
- considerare
la PREVALENZA
di particolari patologie.
La realizzazione dei servizi e della
rete che li collega è l'operazione di base, ma
la Community Care
deve essere caratterizzata da:
1. presa in carico di problemi di assistenza a lungo termine;
2. centralità delle pratiche di deistituzionalizzazione (come quelle
messe in atto nel nostro paese in psichiatria al termine degli anni
'70);
3. attenzione alla necessità di ridurre nel tempo il grado di
dipendenza del soggetto dal sistema assistenziale;
4. valorizzazione di risorse non professionali;
5. partecipazione crescente dei soggetti alle decisioni che li
riguardano, anche esercitando la possibilità di scegliere tra diverse
opzioni .
Una parte essenziale per raggiungere questi scopi è data da una
"funzione di interpretariato" tra gli outsiders della società
e coloro che occupano posizioni di gestione. Perchè una politica di
community care possa dare i suoi frutti è importante che sia la comunità
locale nel suo complesso a sentirsi investita dei processi di cura ed
autonomizzazione che la riguardano.
Anche l'utente cambia prospettiva in un processo di community care: egli
deve sapere di essere nel diritto di scelta e tale diritto deve essere
considerato parte essenziale ed integrante dei servizi.
Ecco perché le politiche sanitarie devono incentivare tre aspetti che
sono potenzialmente in grado di promuovere il diritto di scelta degli
utenti:
1. l'informazione;
2. l'implementazione del case management;
3. lo sviluppo di servizi a vantaggio degli utenti.
L'autonomizzazione degli utenti è quindi scopo e mezzo della community
care: essa deve supportare i processi che la consentono badando che
l'aver cura degli utenti non passi attraverso la loro
deresponsabilizzazione o li blandisca con eccessive ed ottimistiche
sopravvalutazioni delle cure.
Un atteggiamento corretto e
consequenzialmente responsabilizzante è caratterizzato da:
1. indagare sui problemi ed intervenire solo previo consenso dell'utente
o, se l'intervento rappresenta un dovere istituzionale;
2. coinvolgere tutti i membri significativi della famiglia;
3. perseguire obiettivi di massima chiarezza degli accordi;
4. offrire all'utente la possibilità di scegliere tra il maggior numero
di opzioni alternative possibili.
Gli interventi di cura nella comunità (community care) devono
affrontare, in molti paesi, alcuni problemi comuni. I principali
consistono nella scarsa flessibilità nell'utilizzo delle diverse
risorse assistenziali, nelle difficoltà a coordinare l'operato degli
attori coinvolti e nel non riuscire a fornire interventi appropriati
rispetto ai bisogni dell'utenza. In questa situazione, risulta assai
difficile sviluppare una rete integrata di interventi nel territorio,
tra loro coordinati e tesi al raggiungimento di un medesimo fine. Per
fronteggiare tale situazione, a partire dagli anni '70 la metodologia
del case management ha iniziato ad essere utilizzata negli Stati Uniti
ed in Europa. Tale metodologia ha conosciuto un notevole sviluppo ed è
attualmente assai diffusa. Anche nel nostro paese vi si guarda con
crescente interesse e le sue applicazioni a livello locale sono in
crescita. Questa metodologia viene utilizzata per diversi gruppi di
utenti, principalmente anziani e persone con problemi di salute mentale.
Attraverso i luoghi, i tempi e la rete della community care il nuovo
scenario della psichiatria dispiega un quadro in cui anche pazienti,
familiari, cittadini diventano coprotagonisti della vita dei servizi,
attraverso un progressivo passaggio dall'assistenza, da sempre delega,
all'accompagnamento, sistema graduale e ragionato di integrazione.
IL CASE
MANAGEMENT PSICHIATRICO
L'affermazione della community care, prima in Gran Bretagna, negli
U.S.A. di rimando, e poi nell'occidente europeo si è accompagnata
all'emergere di un riposizionamento degli attori sulla scena
terapeutica. È cambiato infatti il ruolo del curante attraverso i
processi di risoggettivizzazione che hanno accompagnato l'introduzione
del modello aziendale in sanità ed è andato assumendo importanza il
"case management", inteso come l'attribuzione ad un operatore
del ruolo di "operatore chiave" per una determinata situazione
e quindi come un esempio di decentramento delle responsabilità che
punta a rendere le responsabilità gestionali, attraverso la
localizzazione e la individualizzazione, più rispondenti alla domanda.
Il Case Management si avvale di premesse concettuali e di elementi
strutturali ed organizzativi propri del Disease Management (che è un
approccio integrato alla malattia, teso al miglioramento dei risultati
clinici -outcomes- e della qualità dei servizi offerti nell’ottica di
razionalizzare la spesa) e del Project Management (che è la gestione di
un’impresa complessa unica e di durata determinata rivolta al
raggiungimento di un obiettivo chiaro e predefinito mediante un processo
continuo di pianificazione e controllo di risorse differenziate e
vincoli di costo, tempo, qualità). Il termine "case
management" deriva dall'insieme di due diversi approcci rispetto ai
problemi presentati dalle persone affette da disturbi mentali. La parola
"case" deriva dalla tradizione medico clinica, centrata sulla
necessità di prestare le cure necessarie alla singola persona
sofferente. La parola "management", d'altra parte, deriva da
una cultura e da una tradizione assai distanti, che esaltano la necessità
di organizzare un programma che permetta di sistematizzare gli
interventi nei confronti dei pazienti più gravi e gravosi in un certo
contesto, per ottenere la massima efficacia possibile. Ciò implica la
presenza di una metodologia che possa dare l'indirizzo strategico,
riferito al contesto territoriale e alla risorse disponibili.
Il case management nasce negli Stati Uniti negli anni '70 proprio per
rispondere ai problemi di integrazione e continuità del servizio
caratteristici della community care. Trattandosi di un termine che
definisce un concetto tuttora piuttosto ambiguo e dalla oggettività non
univoca, le diverse agenzie, professionali, istituzionali, politiche e
scientifiche l'hanno utilizzato di volta in volta con accezioni diverse,
a secondo degli interessi in campo; nel campo della salute mentale è
stato utilizzato all'inizio degli anni '80, nell'ambito degli strumenti
considerati più efficaci per riorganizzare il sistema pubblico per la
salute mentale.
Il case management si fonda
essenzialmente su cinque presupposti , che sono:
1.
identificazione e riconoscimento dei bisogni;
2. sviluppo di un progetto di presa in carico complessiva per rispondere
a questi eterogenei bisogni;
3. garantire la concreta accessibilità dei servizi per la persona,
prestando attenzione alle sue scelte e svolgendo politica di attivazione
di servizi diversi dal proprio in una prospettiva di rete;
4. monitoraggio e promozione della qualità dei servizi offerti;
5. offerta di un supporto che, pur potendosi realizzare anche in tempi
lunghi, si caratterizzasse per essere flessibile e modificabile in
relazione alle trasformazioni delle necessità della persona.
Gli obiettivi prioritari del case
management possono essere considerati i seguenti:
1. la garanzia terapeutica sia trasversale che longitudinale;
2. la promozione dell’accessibilità ai servizi;
3. l’individuazione delle responsabilità gestionali;
4. l’efficienza.
I soggetti cui il “Case Management” si orienta principalmente sono
gli anziani, i malati e i portatori di handicap. Gli interventi pensati
nei loro confronti sono solo parzialmente simili: la delicata realtà di
alcune condizioni di malattia e delle situazioni sociali in cui tali
malattie sono emerse differenzia notevolmente l’intervento di case
management psichiatrico dagli interventi su altre patologie.
L’utilità del case management nella costruzione di reali prospettive
di uscita dal circuito, “presa in carico totale e totalizzante del
ricoverato e quella di nessuna presa in carico del dimesso”, emerge
con chiarezza nel modello definito reticolare, nel quale il reticolo non
va inteso solo come la rappresentazione della rete dei servizi socio -
sanitari e dei luoghi fisici della città ma, soprattutto, come la
rappresentazione grafica delle relazioni emotive e della trama narrativa
che le contiene.
Un modello reticolare esplicita
luoghi fisici e luoghi della mente, storia del paziente e storia del
servizio, dimensione intra-psichica e dimensione relazionale.
La salute mentale non è imprigionata in un luogo fisico; utilizza spazi
ed agenzie creando opportunità, perché si pone come servizio alla
Persona, al territorio di competenza, attraverso un reticolo che lo
percorre, parallelamente ed in relazione con altri reticoli (servizi
sociali, medicina di base, ecc.).
Questo modello è teoricamente senza confini, proprio come la trame
delle relazioni di ogni persona e quindi anche dei nostri pazienti;
questo non significa che sono infinite le competenze del servizio, ma
che esso interagisce con punti di un sistema che possono collocarsi in
contesti biologici, psicologici, e sociali.
La prospettiva di case management è orientata su ciò che è intorno
alla Persona.
Il concetto di “case management” permane tuttavia piuttosto ambiguo
e non del tutto definito dal punto di vista scientifico, anche se sul
piano operativo sono assai ben definiti i diversi ambiti in cui si può
applicare il modello:
1. interventi terapeutici di tipo specialistico psichiatrico
(farmacoterapia, psicoterapia individuale e di gruppo);
2. interventi riabilitativi centrati sul paziente;
3. interventi di organizzazione e sviluppo dei servizi dedicati alla
tutela della salute mentale;
4. interventi volti al contenimento dei costi dell’assistenza
psichiatrica.
In ciascuno di questi ambiti il programma case management può
permettere una migliore gestione ed organizzazione dei trattamenti a
lungo termine riservati agli utenti con i disturbi più gravi, un
rafforzamento del network complessivo dedicato alla tutela della salute
mentale ed uno stile di lavoro degli operatori più avanzato,
utilizzando prevalentemente le tecniche di intervento di riconosciuta
efficacia, secondo il modello della "evidence based psichiatry"
.
Ci sono tre questioni ben definite da
affrontare prima della applicazione di un programma di case management
in un network che si occupi di assistenza psichiatrica in un certo
territorio:
1. quali sono le attività comprese e come queste si possono
differenziare rispetto ai trattamenti standard;
2. quali sono gli utenti verso i quali il programma è indicato e
potenzialmente efficace;
3. come deve essere organizzato un centro di salute mentale per
permettere ad un programma di "case management" di funzionare
efficacemente.
In sintesi si potrebbe dire che è necessario stabilire prioritariamente
le attività e gli interventi correlati alla realizzazione di un
programma di "case management", l'accreditamento e la qualità
delle procedure terapeutiche e riabilitative, nonché, le responsabilità
organizzative ed operative attraverso:
1. Identificazione e riconoscimento degli utenti.
2. Collegamento continuo, ai fini del mantenimento della presa in
carico, con gli utenti meno motivati e più resistenti, anche allo scopo
di favorire prassi attive e non di attesa nei confronti di questi ultimi
utenti, secondo le indicazioni del progetto obiettivo nazionale.
3. Attività di intermediazione, appoggio e supporto strutturato agli
utenti nei confronti di altre unità operative o strutture del
dipartimento di salute mentale, nonché nei confronti di altre agenzie
sanitarie e sociali del territorio. Tale attività deve essere condotta
autonomamente dal case manager con credibilità personale e
professionale, che gli derivano dalla competenza, esperienza e
conoscenza approfondita delle risorse presenti nel dipartimento di
salute mentale.
4. Funzione di coordinamento. Tale funzione si esercita integrando le
diverse professionalità presenti nell'unità operativa e coinvolte sul
caso in questione.
I programmi di case management rappresentano, per questa operazione, una
guida, un accompagnamento per il paziente verso un suo riposizionamento
rispetto all'addensamento delle funzioni terapeutico - riabilitative
necessarie durante e dopo l'episodio di malattia grave. Mentre nella
dimissione dai luoghi e dai trattamenti la responsabilità
dell'istituzione cessa in modo puntiforme, nell'accompagnamento la
responsabilità transita progressivamente dall'istituzione alla società
nel miglioramento, e in senso inverso quando intervengono crisi o
recidive.
E' ormai dimostrato che i programmi di "case management" sono
un modello di presa in carico continuativa, intensiva e a lungo termine
che, introdotti nelle pratiche operative ed organizzative dei
Dipartimenti di Salute Mentale, possono permettere una maggiore
efficacia degli interventi nei confronti della persone affette da gravi
disturbi mentali, consentendo al tempo stesso una maggior efficienza
delle unità operative finalizzate alla tutela della salute mentale, una
razionalizzazione delle risorse utilizzate e un contenimento dei costi
della psichiatria.
Di fatto il case management
psichiatrico nell'accezione italiana (potremmo dire europea) risulta
valido per il sofferente di disturbi psichici perché:
sul piano personale
- ha un ascolto privilegiato senza limiti temporali e spaziali;
- si confronta in piccoli gruppi che vivono il normale tessuto sociale;
- viene gestito il suo caso in tempo reale;
- è stimolato ad una completa autonomizzazione sociale e terapeutica.
sul piano sanitario il case management:
- riduce i costi della cura;
- previene le ricadute (nuovi lavori inficiano questa convinzione);
- migliora la compliance terapeutica;
- incrementa la qualità della vita delle persone.
sul piano sociale:
- facilita l'immissione al lavoro;
- combatte lo stigma;
- implementa la rete dei servizi.
Sembra
avere positive ripercussioni anche sul gruppo di lavoro favorendo il
miglioramento della capacità di lavorare per progetti, facilitando lo
sviluppo di capacità empatiche e relazionali, incrementando il senso di
responsabilità per il proprio operato e un aumento di soddisfazione per
il proprio ruolo lavorativo.
La prima
formulazione consisteva in
un approccio più burocratico dove il Case Manager si occupava di
fissare gli appuntamenti e controlli, lasciando però il paziente
sostanzialmente da solo a decidere quale trattamento seguire.
Si passò
poi al Clinical Case Management fondata su una relazione di fiducia tra
il paziente e un operatore di riferimento che accompagnava il paziente
nel percorso attraverso le prestazioni sanitarie e psicosociali.
Un’ulteriore evoluzione è stata quella dell’Intensive Care
Management (ICM) con la garanzia di servizi da parte di un’èquipe
sulle 24 ore, una intensificazione della relazione, un approccio d’èquipe,
il coinvolgimento in attività di supporto pratico da parte di personale
tecnico psichiatrico con finalità rieducative e
terapeutico-riabilitative.
Negli
Stati Uniti l’ICM ha riconosciuto la sua applicazione più famosa
sotto forma di Assertive Community Treatment (ACT) che abbina alle
componenti dell’ICM una estrema strutturazione del lavoro
dell’operatore psichiatrico ed una sua formazione a compiti di
riabilitazione e rieducazione alla vita autonoma sul territorio.
Un’èquipe
di ACT è formata da 10-12 operatori: il numero deve essere
sufficientemente ampio da poter comprendere varie professionalità e
garantire l’assistenza sette giorni su sette, ma sufficientemente
piccolo da permettere a ciascuno dei suoi membri di conoscere
personalmente tutti gli utenti. Un aspetto fondamentale del lavoro è
costituito dall’assertività o direttività che si esprime nello
slogan no drop out policy vale a
dire nell’imposizione esplicita di una relazione di cura e
nell’impossibilità da parte del paziente di sottrarsi al trattamento,
pena il ricorso tempestivo alla coazione. I componenti del gruppo
ricevono per quanto possibile una formazione anche nei settori di
competenza di altri operatori e si rendono disponibili ad intervenire
insieme e a coordinarsi. Questo lavoro di squadra è facilitato dalla
valutazione congiunta quotidiana della situazione di ciascun utente e
dalla programmazione comune delle attività quotidiane del gruppo.
Questa modalità di lavoro è stata studiata in Europa, ma a
differenza dei risultati cosi positivi negli USA, ha prodotto risultati
appena apprezzabili. Questo perché la ricerca statunitense si basa
sull’attuazione di programmi a sé stanti, mirati verso specifici
gruppi di utenti, finanziati per produrre un prodotto completo senza
necessità di collegamento con altri servizi o programmi. L’assistenza
europea invece si sviluppa entro assetti finanziari che si inseriscono
nel contesto di un più ampio e articolato servizio di salute mentale
destinato a un’area geografica definita.
Negli USA
gli ACT sono centri specialistici di terzo livello a cui si accede sulla
base di caratteristiche selettive dell’utenza e che spendono molte
risorse nella formazione specialistica e nella valutazione degli
interventi che erogano. In Europa invece ogni servizio è l’unico e il
solo responsabile dell’assistenza psichiatrica nella sua zona
geografica di pertinenza e non potrà mai negare l’assistenza a un
utente in base alle sue caratteristiche o a causa di un eventuale
sovraccarico del servizio. In Europa vi è quindi una preferenza per
servizi generici, mentre
negli USA per servizi specialistici . Questa modalità si è rivelata di
scarso beneficio in alcuni gruppi di utenti come persone che soffrono di
disturbi primari di personalità, utenti con problemi con la giustizia,
quelli con doppia diagnosi e utenti più gravi con disturbi
particolarmente resistenti al trattamento e gravi problemi
comportamentali. Gli psichiatri europei si trovano tuttavia
impossibilitati a escludere questi pazienti dall’assistenza e dagli
studi e sono costretti a operare in contesti che impongono loro la
presenza di questi utenti, indipendentemente dalla riuscita degli
interventi. Questo porta a riflessioni soprattutto di carattere etico,
trattandosi di decidere su quali pazienti investire più risorse in
contesto di economie sanitarie razionate.
Un’altra differenza riguardo ai team consiste nelle dinamiche
dei rapporti tra medici e infermieri. In Italia l’abbondanza del
personale medico fa sì che gli infermieri psichiatrici si limitino
spesso a eseguire le direttive dei medici delegando quasi interamente a
questi ultimi la responsabilità clinica dei pazienti. In Gran Bretagna
la relativa carenza di psichiatri ha favorito l’emancipazione
professionale degli infermieri che sono abituati ad assumersi
considerevoli responsabilità cliniche. Negli USA l’ ACT è
considerata l’unica pratica evidence-based ed aspira a diventare
l’unico modello di trattamento riconosciuto ai fini assicurativi e
finanziari grazie alla notevole mole di lavori a sostegno della sua
efficacia.
L’
AUTO-MUTUO-AIUTO
Il
termine "auto-aiuto" sta ad indicare un particolare tipo di
approccio ai problemi che si presentano nel corso della vita di una
persona e non rappresenta affatto una novità. Infatti sotto questo nome
si possono annoverare le varie forme di aiuto,più o meno organizzato,
che gli esseri umani si sono scambiati nei secoli. In pratica esso si è
tradotto mettendo le capacità, le esperienze, le risorse dei singoli al
fine di risolvere una situazione di squilibrio o di difficoltà.
La
solidarietà verso un proprio simile in condizioni di bisogno
rappresenta sostanzialmente un istinto presente (sia pure con diversa
espressività) nel regno animale, specie nei gradi più elevati nella
scala evolutiva. Essa è stata variamente incanalata, rielaborata e
strutturata in rapporto a diverse esigenze. Nelle società tribali un
gruppo di persone si prende carico di procurare, attraverso caccia e
pesca, cibo per tutto il gruppo, mentre gli individui non adatti a
questo compito, si occupano di altre mansioni. Le partorienti (ancora
oggi in certe culture) vengono prese in carico da donne che hanno
vissuto la stessa esperienza. Anche il lutto, la perdita di una persona
cara, viene condiviso con manifestazioni esteriori pure da persone non
strettamente legate al defunto manifestando in questo modo la propria
vicinanza a chi viene lasciato, aiutandolo in questo modo a rielaborare
l'evento, forse coscienti del fatto di condividere un destino
ineludibile per tutti.
Nel
corso della Storia dell'Uomo, alle primitive manifestazioni di
solidarietà a carattere collettivo, fecero seguito (o si affiancarono)
provvedimenti elargiti dalle autorità, più per accrescere il proprio
prestigio, che per amor di prossimo (pensiamo all'antico Egitto o alla
Roma imperiale).In seguito, per oltre un millennio, fu
la Chiesa
a farsi carico dei bisognosi, più che altro di cure materiali, e cioè
provvide a fornire alloggio e cibo.
Nel
1601 l
'Inghilterra emanò
la Poor Law
, ponendo le basi della pubblica assistenza, ben presto seguita dagli
altri Stati. Ma parallelamente all'assistenza pubblica e alla
beneficenza privata sorge appunto il mutuo soccorso. Nato dal
disfacimento del feudalesimo, per far fronte alle situazioni di bisogno,
esso trovò impulso dopo la rivoluzione industriale inglese al fine di
cautelare le persone rimaste senza lavoro, costituendo dei fondi di
solidarietà alimentati da tutti i consociati. La storia di questa
mutualità ed associazionismo tocca i settori economico, ricreativo e
culturale, ed è quasi imposta in Italia dalla totale mancanza di
servizi pubblici di assistenza. La durezza della vita del popolo
imponeva prima o poi a tutti di fare i conti con malattia, miseria,
mancanza di lavoro, calamità naturali. Da tutto ciò scaturisce il
sentimento di mutualità.
La
nascita e lo sviluppo del self-help in Italia, avviene piuttosto in
ritardo, rispetto ad altri Paesi. Questo per motivi culturali, sociali e
religiosi. In Germania ad esempio, dove operano attualmente circa 1200
gruppi, uno dei motivi di tale diffusione è da ricercarsi nel diverso
modo di celebrare
la Messa
, secondo il rito protestante il quale comporta maggior coinvolgimento.
Si ha già avuto modo di vedere come forme
embrionali di questo tipo, esistessero già nella preistoria fino ad
arrivare a forme articolate di protezione sociale autogestite.
Nell'ambito
sanitario i primi nuclei di auto-aiuto nascono proprio nell'area
mentale. Una pietra miliare nel campo del disagio psichico, è
senz'altro da individuare nella nascita degli Alcolisti Anonimi (U.S.A.
1935), maturata nel clima luterano dell'Oxford Group il quale coltivava
valori come la condivisione, il non individualismo e l'altruismo.
All'interno
di questi gruppi si sviluppa il concetto di self-help che enfatizza il
ruolo individuale e la responsabilità personale nella messa in atto del
cambiamento.
Le
tre caratteristiche innovatrici ed immutate ai giorni nostri possono
essere sintetizzate così:
-
esistenza di un problema comune
-
privilegio della competenza derivante dall'esperienza , piuttosto che da
una formazione specialistica
-
dare e ricevere aiuto allo stesso tempo
Sempre
negli USA e negli anni Trenta, nacquero spontaneamente dei Gruppi di
Auto Aiuto costituiti da persone dimesse dai manicomi. Questi conoscono
un notevole incremento negli anni Settanta, in alternativa o anche in
opposizione al sistema psichiatrico istituzionale. Dagli USA il modello
si espande in Nord Europa, dove trova un buon attecchimento grazie anche
ai motivi già indicati.
In
Italia dai primi Anni Settanta nascono una serie molto vasta di gruppi
di auto aiuto che interessano varie tematiche: Alcolisti Anonimi,
Diabetici, Donne mastectomizzate, Obesi, Familiari di Tossicodipendenti.
Anche queste categorie di soggetti "svantaggiati" prendono in
mano le redini del proprio cambiamento, attraverso la consapevolezza che
esso è appannaggio della propria responsabilità.
I
Gruppi di Auto Aiuto si propongono come modello alternativo di cura e
riabilitazione sociale, essi rappresentano una risorsa per il territorio
anche in tema di sensibilizzazione sui problemi trattati, contribuendo
così, attraverso una maggiore conoscenza, a togliere lo stigma sul
disagio o la malattia mentale. Se poi tali gruppi coinvolgono, più o
meno direttamente, i familiari ciò incrementa il bagaglio di
informazioni, aiuta ad infrangere il silenzio che spesso circonda
situazioni sentite come fonte di vergogna.
L’OMS
(Organizzazione mondiale sanità) definisce l’auto-mutuo-aiuto (AMA)
come l’insieme di tutte le misure adottate da figure non
professioniste per promuovere, mantenere o recuperare la salute, intesa
come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata
comunità. L’AMA è, pertanto, considerato come uno degli
strumenti di maggiore interesse per ridare ai cittadini responsabilità
e protagonismo, per umanizzare l’assistenza socio-sanitaria, per
migliorare il benessere della comunità. L’elemento originale dei
gruppi AMA è rappresentato dagli input di energia che provengono dal
basso in quanto questi gruppi fanno leva sulle motivazioni, le
esperienze ed i conflitti delle persone direttamente coinvolte nella
patologia o comunque nelle varie problematiche che generano innumerevoli
forme di disagio psichico o personologico, piuttosto che
sull’esclusiva presa in carico da parte delle istituzioni.I gruppi di
auto-mutuo-aiuto (o self-help) sono "gruppi che offrono alle
persone la possibilità di esercitare attenzione ai loro corpi, alle
loro menti , ai loro comportamenti e possono aiutare altri a fare la
medesima cosa. Non solo offrono supporto ma restituiscono alla persona
una competenza, un senso di sé, un ruolo e la possibilità di nuovi
legami"."I gruppi di self-help sono strutture di piccole
dimensioni, di solito costituiti da pari che si uniscono per assicurarsi
reciproca assistenza nel soddisfare i bisogni comuni, per superare un
comune handicap, o un problema di vita oppure per impegnarsi a produrre
desiderati cambiamenti personali o sociali."
Il
mutuo aiuto comincia non solo con la consapevolezza di essere portatore
di un disagio o di un problema, ma nel momento in cui la persona si
attiva in cerca di aiuto. Il mutuo aiuto si verifica quando chi aiuta e
chi viene aiutato condividono fatti, vissuti , emozioni di un medesimo
problema. Le persone che frequentano un gruppo di auto-mutuo-aiuto sono
unite da un disagio comune che tentano di fronteggiare al meglio,
attivandosi in prima persona evitando deleghe massicce di responsabilità
ai professionisti del settore, nella consapevolezza che vivendo la
situazione dall’interno, sulla propria pelle, si possa svolgere un
ruolo importante.Dunque, i protagonisti dell’auto mutuo aiuto sono
coloro che vivono nel gruppo un medesimo problema. Attraverso la
partecipazione e l’attivazione personale volontaria e spontanea, i
membri condividono la loro storia e l’esperienza pratica, cercando di
superare il problema comune. Ogni persona trova beneficio nell’aiutare
un’altra in difficoltà. Poiché tutti i membri di un gruppo di
auto-mutuo-aiuto si attivano contemporaneamente sulla base di tale
principio, ciascuno beneficia di questo processo, aumentando il senso di
auto stima, di auto efficacia delle proprie capacità e potenzialità
positive.
Questo
processo, naturalmente, si svolge senza necessariamente rinunciare alla
competenza dei sanitari istituzionali e professionisti, anzi, si può
sostenere che i due tipi di intervento si completano e potenziano a
vicenda.
Caratteristiche
dei gruppi di auto mutuo aiuto:
q
Condividono le proprietà
dei piccoli gruppi : un
numero ristretto di partecipanti (solitamente 10 persone) facilita
l’interazione tra i soggetti , l’espressione dei sentimenti, la
nascita e lo sviluppo di amicizie e relazioni profonde;
q
Sono
centrati su un problema e organizzati in relazione a specifici
problemi;I membri del gruppo tendono ad essere dei pari : è
il fatto di vivere o di aver vissuto una stessa condizione che definisce
l’appartenenza al gruppo;
q
Condividono obbiettivi
comuni ;L’azione è azione di gruppo : l’energia
e la forza che il gruppo è in grado di esprimere, sono sicuramente
maggiori e più significative delle possibilità che ogni singolo
partecipante ha a disposizione per la soluzione del problema;
q
Aiutare gli altri è
una norma espressa dal gruppo :
ognuno, con la propria esperienza e competenza, attraverso il confronto
e la condivisione, trae aiuto per sé e per gli altri;
q
Il potere è la
leadership : ogni decisione,
cambiamento, regola, viene formulata, discussa e accettata
democraticamente;
q
La comunicazione è di
tipo orizzontale : non ci
sono modelli strutturati di comunicazione: ognuno esprime liberamente il
proprio pensiero, rispettando gli altri e senza accentrare su di sé la
discussione;
q
Il coinvolgimento è
personale : ogni persona
decide autonomamente se e come prendere parte al gruppo. Non è una
decisione imposta da altri, partecipare al gruppo volontariamente
aumenta la sicurezza nelle proprie capacità di scelta ;
q
La responsabilità è
personale : ogni persona è
protagonista del cambiamento che vuole ottenere, la persona stessa è la
prima risorsa per sé e per il gruppo ;
q
L’orientamento è
all’azione : le persone
imparano e cambiano facendo. Uno degli scopi dei gruppi è quello di
sperimentare nuovi stili di vita e di comportamento, nuovi modi di
sentire e trasmettere i propri vissuti. Attraverso gli sforzi ed i
successi conseguiti e riconosciuti nel gruppo, la persona ha la
possibilità concreta di aumentare la propria autostima e di credere
nelle proprie risorse.
"La
vita è sperimentata attraverso i problemi”
Obiettivi
dei gruppi di auto-mutuo-aiuto:
¾
Aiutare i partecipanti ed
esprimere i propri sentimenti.
¾
Sviluppare la capacità di
riflettere sulle proprie modalità di comportamento.
¾
Aumentare la capacità di
riflettere sulle proprie modalità di comportamento.
¾
Aumentare le capacità
individuali nell’affrontare i problemi.
¾
Aumentare la stima di sé,
delle proprie abilità e risorse, lavorando su una maggiore
consapevolezza personale.
¾
Facilitare la nascita di
nuove amicizie.
CAREGIVER
Con
il termine di Caregiver si definisce colui che presta le cure.
Si
distinguono due tipi di questa figura:
1)
informale : figlio,
coniuge, altro familiare o amico del paziente, detto anche seconda
vittima della malattia per il suo grado di stress e coinvolgimento
emotivo.
2)
formale: infermiere o
altro professionista.
Il
caregiver ha un ruolo
fondamentale nella storia della malattia, in quanto dal suo equilibrio
fisico, mentale, affettivo e dalla sua tranquillità e disponibilità
economica dipende spesso l’evoluzione della malattia. La
variabilità dell’argomento è data innanzitutto dal fatto che sia il
soggetto che fornisce il sostegno, sia l’oggetto che lo riceve che la
natura precisa del sostegno stesso possono essere diversi. Si parla
quindi di caregiving in molteplici discipline e nell’ambito medico in
numerose branche ed in psichiatria in modo particolare. Affrontare
l'argomento caregiving in psichiatria è un compito piuttosto arduo
essendo un termine che indica un vasto campo d’azione, nel senso che
si trovano in letteratura soprattutto spunti riguardanti il caregiver
nei confronti del malato di Alzheimer, ma la figura del caregiver è
centrale anche in altri disturbi psichiatrici, quali la schizofrenia, i
disturbi legati alla sfera affettiva e alle dipendenze e i disturbi
mentali dell’infanzia e dell’adolescenza.
PROBLEMATICHE ATTUALI
Le
migliorate condizioni alimentari e sanitarie registrate negli ultimi 100
anni nei paesi occidentali hanno portato la vita media dai 60 anni di
inizio '900 ai 76 attuali tanto che, oggi, gli over 80 non sono più
l'eccezione bensì la regola. Di questo allungamento ne siamo tutti
lieti ma esso, come tutte le medaglie, ha il suo rovescio. La vecchiaia
porta con sé numerose patologie invalidanti che magari compaiono
lentamente ma che finiscono per annullare l'autosufficienza
dell'anziano: un destino quasi fatale per chi raggiunge età molto
avanzate. In Italia le persone anziane in varia misura bisognose di
assistenza sono milioni e oltretutto non ci sono solo vecchi da
accudire. Accanto a loro anche invalidi, disabili, persone con gravi
malattie ed altri soggetti incapaci di badare a se stessi, una cifra
prossima a 10 milioni: è evidente dai numeri l'impossibilità per lo
Stato di garantire a tutte un'adeguata assistenza. Ma allora chi si
prende l'impegno di farlo? Risposta semplice: i familiari per primi
seguiti da parenti, amici, vicini di casa e da collaboratori a
pagamento, nell'insieme definiti “caregiver”. Si impegnano un po' in
tutto: visitano tre volte al giorno la mamma che soffre di
arteriosclerosi, fanno la spesa per il vicino malandato, accompagnano un
anziano in carrozzina a fare un giro per la città, passano due ore in
casa di una vecchietta sola.
C'è chi
lo fa sotto la spinta di circostanze personali, chi sente il bisogno di
fare qualcosa per il prossimo, chi per battere la propria solitudine o
semplicemente per denaro. Oggi in Italia stando a dati del rapporto
annuale Istat presentato a inizio ottobre sono ben 13 milioni i
caregiver, in maggioranza donne sopra la cinquantina: se per un qualche
motivo sparissero d'incanto, i servizi di assistenza pubblica non
saprebbero certo come sostituirle. Quanto al “chi” riceve l'aiuto
del caregiver, sono gli anziani ad averne più bisogno: dai dati emerge
che oltre il 60% delle famiglie con un ultra 65enne necessitano
dell'aiuto di un prestatore di cura. Ci sono poi gli affetti da
invalidità acquisita, i soggetti nati con gravi patologie, chi soffre
di un disturbo mentale, gli ammalati temporanei. Sorprendente è invece
ritrovare tra i bisognosi dell'intervento del caregiver famiglie
“normali”, con figli piccoli: una su tre con bambini al di sotto dei
14 anni ha ricevuto aiuto, un rapporto che scende a una su sei se la
madre è casalinga. Ma anche una famiglia su tre con il capofamiglia
disoccupato, indipendentemente dal numero, dall'età o dalla presenza di
figli, ha avuto bisogno di un intervento di cura. Non è però il
problema dell'invecchiamento della popolazione e le mutate sensibilità
sociali verso chi ha comunque un bisogno a spingere 65 mila persone
l'anno ad aggiungersi all'esercito dei caregiver. La spinta a fare da sé,
ad inventarsi caregiver è data prima di tutto dall'assenza, o perlomeno
dall'incapacità, dell'ente pubblico di provvedere ai bisogni di un così
grande numero di persone. Sono cioè obbligate a far da sé, a prendere
congedi straordinari, a scambiar turni sul lavoro, a trascurare il resto
della famiglia, il tutto gratuitamente (nel 90% dei casi) ed anzi in
parte a proprie spese.
Le
cifre Istat
Dati del rapporto Istat: un italiano
su quattro assiste un familiare, un vicino o un amico. Dal 1983 al '98
il ritmo di crescita di questi assistenti è stato dell'8 per cento
raggiungendo i 13 milioni. Di questi solo il 5,6% operano in
organizzazioni di volontariato mentre quasi 10 milioni operano per conto
proprio.
Il 90% dei caregiver sono i genitori, amici e conoscenti (22%), i figli
non conviventi e nipoti (15%), vicini di casa (12%) e fratelli (11%).
La maggioranza ha un'età compresa tra i 55 e 59 anni (è ipotizzabile
che assistano i genitori tra i 75 anni e oltre) mentre l'età media è
passata dai 43 anni del 1983 ai 46 di oggi. Una donna su quattro svolge
un'attività a favore degli altri contro un quinto degli uomini. Una
differenza ridotta in percentuale ma a guardar meglio i numeri si scopre
una realtà diversa: ben due terzi delle ore prestate da tutti i
caregiver (330 milioni di ore al mese, quasi 4 miliardi l'anno) sono
delle donne.
Non bisogna d'altro canto pensare alla caregiver come una donna che, per
dovere, necessità o per mancanza d'altro si dedica agli altri. Chiaro
il rapporto Istat: il 57% delle caregiver è diplomata o laureata, per
il 23% ha un lavoro. Solo il 24% è casalinga “per forza” ed ha
anche una famiglia cui accudire. Quanto ai servizi sociali, il 40% dei
Comuni con più di 20 mila abitanti non ha un centro sociale per
anziani; il 30% non ha l'insegnante di sostegno per gli studenti con
handicap, sbandierato come diritto garantito; più del 50% non dispone
di servizi di inserimento lavorativo per disabili né centri per le
emergenze sociali né assistenza domiciliare o fornitura di pasti per
anziani soli e in difficoltà.
PROGRAMMI E OBIETTIVI
La
discrepanza fra bisogno assistenziale e risorse disponibili stimola un
maggior coinvolgimento del vissuto del paziente nell’assistenza;
spesso i familiari che partecipano al programma di cura sono affetti da
depressione e senso di abbandono.
Il
caregiver è la persona che si fa carico della responsabilità concreta
della cura, sia come investimento di tempo e di ruolo, sia come gestione
delle risorse disponibili.
Spesso
la persona che si prende cura del paziente non è scevra da legami
affettivi e non sempre dispone della competenza tecnico-professionale
necessaria.
Si
rende quindi necessaria una attenzione particolare verso i familiari e
le persone di riferimento del paziente, assecondando il loro bisogno di
ascolto.
Il
sistema attuale prevede la distribuzione del lavoro suddivisa in cure
ospedaliere, domiciliari e residenziali e non sempre vi è una corretta
interazione fra i vari livelli. Nel passaggio da un sistema all’altro
il paziente rischia di perdere i propri riferimenti terapeutici ed
assistenziali.
Occorre
sviluppare un programma di cure che superi la divisione settoriale
creando un sistema integrato di supporto assistenziale per gli utenti
curati nel proprio ambiente familiare, differenziando i pazienti secondo
la loro necessità di cura e assistenza.
LIVELLO
OSPEDALIERO: formazione di figure di riferimento sanitarie per il
paziente ricoverato attraverso l’analisi dei suoi bisogni e lo studio
del percorso clinico - assistenziale. Inserimento dei familiari nel
processo di cura ospedaliera attraverso un training condiviso.
LIVELLO
SUCCESSIVO: migliorare assistenza ed esistenza dei pazienti dimessi
dalla struttura aziendale nella fase post-ricovero attraverso una
maggior partecipazione dei familiari, sostenuti da un supporto
psicologico.
RISULTATI
ATTESI: riduzione ricoveri impropri, riduzione degenza media, riduzione
liste d’attesa per i ricoveri. In sostanza un modello organizzativo
orientato ai bisogni del paziente e che valorizzi le professionalità
sanitarie.
CURE “PALLIATIVE”
Le Cure
palliative non corrispondono a terapia del dolore. Di controllo del
dolore si parla già a partire dagli anni '50 ma è solo uno degli
aspetti, anche se probabilmente il più importante, che compongono la
realtà articolata delle cure palliative. Di queste però, si inizia a
parlare solo a partire dalla fine degli anni '70" In quel periodo,
infatti, visto il progressivo cronicizzarsi delle patologie acute ci si
è posti il problema di affrontare in modo globale lo stato di
sofferenza, caratterizzato da dolore grave e continuo, nonché tutti i
sintomi fisici e psicologici. Lo scopo principale è migliorare la
qualità di vita attraverso una rete di assistenza che l'OICP monitora
costantemente, formata da hospice e cure domiciliari. Una realtà in
crescita se si pensa che si annoverano 222 centri di cure palliative e
182 organizzazioni non profit dedicate a questi pazienti. Un numero
raddoppiato in dieci anni. Per non parlare del trend di crescita degli
hospice, strutture di ricovero specializzate nelle cure palliative che
sono aumentati di oltre 25 volte, da tre a 78.
Le cure palliative si fondano su una triade rappresentata da
malato, famiglia ed equipe medico - sanitaria. E’ stato fatto uno
studio su 77 centri di cure palliative, per un totale di 454 questionari
compilati in modo anonimo. Un dato colpisce su tutti. L'85% degli
italiani che accudiscono un malato terminale rischia la salute. Otto
volte su dieci si tratta di donne, figlie o mogli di pazienti. In media
hanno 55 anni e nella maggior parte dei casi tagliano i ponti con
l'esterno perché non possono permettersi una badante. Un
"inferno", così definito dagli stessi caregiver, che nel 75%
dei casi incide pesantemente sul bilancio familiare: una spesa che tra
costi diretti e indiretti può superare i 4 mila euro al mese.
Riguardo al livello di soddisfazione l'81% degli intervistati ha
giudicato ottime le cure offerte dalle unità di cure palliative.
Inoltre, da cinque o sei anni a questa parte, le cose stanno cambiando e
pur mancando sempre una scuola di specialità, esistono in Italia
diversi centri che prevedono master e corsi di perfezionamento
post-laurea.
ASSISTENZA
ALLE PERSONE AFFETTE DA DEMENZA
La demenza
non produce effetti solo sulla persona malata. Nella maggior parte dei
casi ha un impatto importante anche sui membri della famiglia e gli
amici che si prendono cura di loro. La maggior parte dei pazienti,
specialmente nello stadio iniziale della malattia, possono essere
assistiti a casa anziché ricorrere a case di riposo o altre strutture.
Più della metà dei pazienti continua a vivere nella propria casa, e
l'80-90% viene assistito da familiari e amici. In Europa risultano
parecchie le ragioni alla base della scelta dell’assistenza
domiciliare: un numero limitato di ospizi, alti costi per le strutture
di lunga degenza e motivi etico - culturali.
L'assistenza
a un malato di Alzheimer può provocare problemi emotivi, psicologici e
fisici. Con il progredire della malattia, chi si prende cura del
paziente finisce per allontanarsi dagli amici e dalle normali attività
sociali. Anche le persone più devote non possono fare a meno di provare
un senso di colpa per il rancore o la frustrazione che provano nel dover
affrontare le modificazioni del comportamento causate dalla demenza. La
demenza inoltre comporta notevoli problemi finanziari per i caregiver.
Chi assiste un paziente a tempo pieno perde in media più di tre
settimane di lavoro all'anno, mentre un quinto lascia definitivamente il
lavoro per poter dare assistenza continua.
Se la
demenza viene diagnosticata in uno stadio iniziale, i pazienti possono
contribuire alla strategia della propria cura (ad esempio occuparsi dei
problemi finanziari, redigere un testamento, prendere decisioni relative
ai periodi successivi della malattia). Un riconoscimento e una diagnosi
tempestivi della malattia di Alzheimer possono ridurre notevolmente il
carico assistenziale che grava sul caregiver. Uno dei principali
ostacoli a un'assistenza domiciliare ottimale è la mancanza di una
preparazione adeguata per i caregiver. I problemi posti da un paziente
affetto da demenza, come le alterazioni della personalità e del
comportamento, possono essere difficili da gestire per gli assistenti
non preparati. Se sono adeguatamente informati sulla demenza e si
adattano ai comportamenti del malato, i caregiver possono imparare a
personalizzare l'ambiente in cui egli vive, in modo da rendere
l'assistenza meno complessa e stressante. I caregiver che si avvalgono
del sostegno di gruppi di supporto e di strutture specializzate tendono
a tenere il paziente a casa più a lungo di coloro che non li usano.
Inoltre essi tendono a sentirsi più in salute e più gratificati dal
loro compito. Tuttavia, ad un certo punto, la maggior parte di queste
persone si rende conto che l'assistenza domiciliare al paziente non è
più possibile. Una pianificazione fatta in precedenza può ridurre il
trauma di dover decidere il passo successivo nella gestione
dell'assistenza al paziente.
LE
REGIONI E I PROGETTI SULL’ALZHEIMER
Le regioni
presentano i loro progetti di studio sulla malattia. Tutti i progetti
sono in fase iniziale, ma già ci sono i primi risultati. I pazienti
ricevono maggiore beneficio dalle cure domiciliari piuttosto che da
quelle ospedaliere.
Favorevoli
alle cure domiciliari si dimostrano anche i familiari dei malati di
Alzheimer, i cosiddetti caregiver informali, quelli cioè che forniscono
l’assistenza continua al malato pur non avendo conoscenze specifiche
in materia.
D’altra parte, la presenza per 6-8 ore al giorno di caregiver formali,
personale appositamente formato dalla regione, è di grande sollievo per
i familiari che possono così riprendere la loro vita sociale e
lavorativa. Un conforto che arriva anche dall’équipe di medici che
compie visite domiciliari settimanali e da un servizio giornaliero di
fisioterapia, sempre a casa del malato. Figure professionali che
contribuiscono a ridurre il senso di abbandono che le famiglie dei
malati provano. Anche per questo sono state espresse perplessità sulla
proposta di erogare un assegno domiciliare di assistenza, che da solo
non sarebbe sufficiente a coprire le spese per le cure e non
contribuirebbe a far sentire i familiari meno soli. Questo perché, al
di là di poche iniziative ancora in fase sperimentale, le famiglie non
hanno un punto di riferimento diverso dalle strutture ospedaliere.
Ma la domanda a cui gli operatori del settore non sanno ancora dare una
risposta è come poter allargare queste iniziative oltre la fase di
sperimentazione. Segnali concreti in questo senso arrivano proprio dal
Ministero che ha istituito una commissione per l’Alzheimer.
7) I CENTRI DI ASCOLTO
L’impatto psicologico, emotivo, sociale ed economico della
malattia sulle famiglie e su quanti vivono con un malato di Alzheimer è
enorme. Famiglie e amici di persone affette da malattia di Alzheimer
sopportano pesi psicologici e finanziari, e i caregiver stessi sono ad
alto rischio di incorrere in problemi fisici e di salute mentale.
I centri
di ascolto nascono proprio dalla necessità delle famiglie o del
caregiver di avere un punto di riferimento preciso dove trovare persone
in grado di ascoltare i propri problemi o dubbi, avere un'opportunità
di sfogo e di sollievo per le proprie sofferenze.
Al centro d'ascolto si possono incontrare operatori che per esperienza o
professionalità (medico, psicologo, infermiere professionale ecc.) sono
in grado di dare tutte le informazioni di supporto e aiuto ed
indirizzare nella corretta gestione del paziente.
Questi centri sono attivi anche nella creazione di momenti di confronto
tra familiari che vivono o hanno vissuto le stesse esperienze, cercando
di costituire momenti di sollievo e conforto per poter proseguire nel
gravoso lavoro di cura, anche con l'aiuto di esperti (psicologo,
geriatra, neurologo, psichiatra, I.P. ecc);
Il centro d'ascolto orienta i famigliari dando informazioni precise per
muoversi nella rete dei servizi al fine di accedere a servizi e
prestazioni (accesso alle strutture pubbliche; come procedere per
ottenere l'assegno di cura o l'indennità di accompagnamento; presidi
sanitari; visite specialistiche ecc.);
E' stata strutturata anche un'attività di monitoraggio della qualità
percepita dalle famiglie che usufruiscono di servizi specifici per le
persone affette da demenze. La ricerca viene compiuta attraverso la
somministrazione di un questionario al caregiver, con specifico
riferimento a: la fonte informativa; il percorso di accesso;
l'accoglienza; il servizio fornito; la dimissione; l'eventuale rapporto
avuto con il Servizio Sociale di Base ed ai suoi esiti.
Controllo di
gestione in sanità
Il
SSN, a partire dai primi anni 90, è stato investito da un profondo e
radicale processo di cambiamento; c’è stato un processo di
aziendalizzazione delle strutture sanitarie, tale processo, con il
conseguente aumento della loro autonomia gestionale, ha fatto sì che le
direzioni aziendali abbiano agevolato la nascita di strumenti gestionali
ed introdotto nuovi sistemi operativi per garantire un’efficace ed
economica attività delle aziende sanitarie.
Il
primo passo da compiere da parte dell’azienda sanitaria è
l’elaborazione delle linee strategiche analizzando la situazione
attuale, frutto di quella passata e base per le azioni future.
In
primis occorre valutare l’efficacia dell’azienda rispetto ai bisogni
manifestati dalla collettività analizzando la domanda potenziale,
quella effettiva e quella realmente soddisfatta dall’azienda, al tal
fine di comprendere in quale direzione si stanno muovendo i
bisogni degli utenti.
Funzionale
al processo di pianificazione è l’implementazione di un sistema di
osservazione ambientale che possa monitorare gli aspetti fondamentali ad
essi connessi, quali quello economico, politico, tecnologico, ecc.
La
tendenza economica del Paese in cui opera l’azienda sanitaria è di
importanza fondamentale al fine di desumere, in via indiretta, le
risorse che verranno destinate al settore sanitario.
L’aspetto
politico, invece, relativamente alle forze di Governo può condizionare
le politiche sanitarie adottate.
Lo
studio della domanda per un’azienda di tipo sanitario, risulta di
estrema importanza, in quanto, il suo carattere pubblico implica la
capacità di soddisfare ogni tipologia di domanda.
Nell’analisi
della domanda è necessario, anche, valutare le aspettative degli utenti
e le loro decisioni di scelta in merito alle strutture presenti sul
territorio; ciò potrebbe condurre ad una migliore distribuzione dei
servizi offerti, garantendo una segmentazione tale da soddisfare le
richieste provenienti dalle diverse tipologie di utenti.
Definita
l’attività di pianificazione strategica, gli obiettivi, attraverso la
pianificazione operativa, vengono tradotti in termini
monetario-quantitativi attraverso lo strumento fondamentale del budget.
Il
budget può essere di iniziativa, connesso al raggiungimento di un
obbiettivo ben definito, o di periodo, se riferito ad un obiettivo da
attuarsi entro un determinato periodo di tempo.
Può
essere inoltre, generale, se riferito all’azienda nel suo complesso, o
settoriale , se riferito a specifici settori .
Il
budget generale, essendo un insieme coordinato di budget settoriali
permette un controllo di carattere globale su tutta l’attività, sia
sul piano economico sia sul piano finanziario.
Infine,
a secondo del contenuto, esso può essere classificato in:
-
budget
degli investimenti, che
elenca e descrive gli investimenti gli investimenti programmati, vale a
dire una serie di progetti che l’azienda intende finanziare
nell’anno di budget;
-
budget
di cassa, che evidenzia le entrate e le uscite, ossia incassi ed esborsi;
-
budget
operativo, che esprime il programma di gestione relativo ad un determinato periodo
di tempo.
Gli
elementi che costituiscono il budget sono:
-
i
costi o le uscite, che rappresentano, generalmente , i fattori produttivi quali il
personale, le materie prime e altre risorse;
-
i
ricavi o le entrate, che
esprimono gli introiti derivanti dalle operazioni aziendali di vendita
di merci o prestazione di servizi;
-
i
dati di attività, che possono essere rappresentati da indicatori di processo (indicatori
di carico di lavoro) e da indicatori di risultato (indicatore
obiettivo).
Il
budget in sanità, sorto dalla necessità di contenere e controllare la
spesa, non può essere ricondotto a strumento di mero controllo dei
costi.
Esso,
infatti deve essere sia un’efficace strumento di programmazione delle
azioni gestionali future, sia un valido strumento di misurazione
dell’efficienza raggiunta attraverso la responsabilizzazione degli
operatori sanitari verso comportamenti ottimali.
La
formulazione del budget ha
valenza programmatoria in genere, per il periodo di un anno.
In
questa fase vengono definiti gli input o risorse in entrata, che nel
caso del DSM sono soprattutto risorse umane, strumentali, strutturali e
che servono per la produzione (o per l’acquisto) di beni e servizi.
Contesto
dei sistemi di classificazione del “prodotto sanitario”
Il
tema della definizione del prodotto sanitario, attraverso la definizione
di un sistema di classificazione dei casi trattati è un argomento
centrale in ogni sistema sanitario moderno. Giungere all’elaborazione
di un sistema che classifichi i casi curati in un azienda sanitaria in
modo significativo in termini clinici ed economici e che consenta di
attribuire ad essi un valore standard ben definito nel contesto di un
preciso ambito territoriale temporale,
significa possedere un strumento idoneo a valorizzare il lavoro
clinico di un’azienda sanitaria ed a confrontarlo in termini di
efficacia ed efficienza con i risultati effettivamente conseguiti.
È
la premessa, cioè, per finanziare l’azienda sulla base del valore
prodotto e per valutarne la qualità nelle sue varie accezioni di qualità
progettata, prodotta, distribuita, attesa e percepita.
Il
sistema dei DRG
Questo
lavoro fu impostato negli USA verso la fine degli anni ’60, con lo
scopo di definire gruppi di pazienti simili, per poter verificare
l’appropriatezza dell’assistenza da loro ricevuta, nonché i costi
del trattamento.
Questi
raggruppamenti vennero chiamati DRG-Diagnoses Related Groups.
La
prima versione generalmente accolta fu quella del prof. Fetter (1980) e
poi modificata sempre dallo stesso nel 1982 con i seguenti obiettivi:
-
i gruppi dovevano essere
coerenti dal punto di vista medico;
-
omogenei per le risorse
assorbite;
-
definiti con variabili
presenti nella scheda di dimissioni ospedaliera;
-
consistenti in un numero
non troppo elevato.
Il
database era rappresentato da 1,4 milioni casi provenienti da 325
ospedali rappresentativi di tutte le regioni USA.
Il
primo passaggio fu l’identificazione da parte di un gruppo di clinici
di 22 Major Diagnostic Categories mutuamente esclusive ed esaustive.
Le
MDC rappresentavano una riaggregazione dei grandi gruppi di patologie
presenti nella ICD-9.
Per
arrivare dalle MDC ai DRG furono prese in considerazione variabili
ritenute significative da un punto di vista clinico e delle risorse
impiegate:
-
la diagnosi principale;
-
presenza/assenza di
intervento chirurgico;
-
presenza di malattie
associate e di complicanze;
-
età del paziente.
I
DRG sono definiti come “Categorie
di pazienti ospedalieri definita in modo che essi presentino
caratteristiche cliniche analoghe e richiedano per il loro trattamento
volumi omogenei di risorse ospedaliere. Per assegnare ciascun paziente
ad uno specifico DRG sono necessarie le seguenti informazioni: la
diagnosi principale di dimissione, tutte le diagnosi secondarie, tutti
gli interventi chirurgici e le principali procedure diagnostiche e
terapeutiche, e l’età, il sesso e la modalità di dimissione. La
versione attualmente utilizzata è la decima”.
I
DRG più che un sistema di codifica sono un sistema di classificazione
in quanto non si limitano solo a descrivere gli eventi ma vengono dati
con una logica di organizzazione che definisce le condizione di
similarità tra casi diversi attribuiti alla stessa categoria.
Il
D.M. del 15 aprile 1994, emanato in attuazione del decreto legislativo
517/93, determina i criteri che debbono essere tenuti presenti dalle
regioni per la fissazione delle tariffe seguendo sostanzialmente gli
stessi principi del sistema americano prevedendo cioè che i ricoveri
ordinari attribuiti a ciascun DRG siano remunerati secondo tre distinte
tariffe, relative rispettivamente a:
1)
ricoveri di un giorno per
pazienti non deceduti o trasferiti ad altri ospedali (T1);
2)
ricoveri “anomali”,
con durata più lunga rispetto alla media del gruppo (trim point)
definito a livello regionale e per i quali è previsto un incremento
della tariffa ordinaria (T3);
3)
ricoveri standard con
durata di degenza superiore ad un giorno ed inferiore al punto di
“trimmatura” che identifica i ricoveri anomali (T2).
Alcune
critiche mosse ai DRG sono:
-
non hanno la sufficiente
flessibilità in rapporto ai più articolati percorsi di cura e alle
variabili legate ai bisogni dei pazienti
più che alla diagnosi;
-
non tengono conto della
severità delle patologie;
-
spostano l’attenzione
dalla qualità dei servizi ai costi e alla durata di degenza;
-
influenzano la
codificazione delle diagnosi sulla base del peso dei DRG in rapporto ai
costi.
SISTEMI INFORMATICI IN PSICHIATRIA
I
servizi internet sono l’ambito più attuale con il quale
l’informatica psichiatrica si incontra con il grande pubblico. I
servizi oggi offerti possono essere suddivisi in tre grandi gruppi:
- Informazioni on line
(motori di ricerca, portali, riviste on line e notiziari)
- Didattica e siti di
discussione on line (congressi on line e didattica a distanza)
- Prodotti sanitari on
line (teleprenotazioni, telemonitoraggio, teleconsulto, e-therapy)
Il
primo gruppo rappresenta un impiego della rete internet di tipo
informativo, gli ultimi due gruppi invece sembrano poter rappresentare
dei prodotti nell’ambito di una digital economy che coinvolga anche la
sanità.
I
portali sono dei siti internet dove ci si può indirizzare per avere una
panoramica dei servizi sulla rete su uno o più determinati argomenti. I
motori di ricerca sono degli archivi di indirizzi, classificati in
funzione della descrizione fornita dagli stessi autori in campi speciali
della pagina web. I motori di ricerca spesso sono anche portali e
talvolta al loro interno integrano anche una rivista on line. Le riviste
on line sono un analogo della rivista cartacea,con articoli, dossier,
foto, ecc.
In
psichiatria sono presenti sul web diverse riviste on line. La
maggioranza sono la versione telematica di riviste cartacee ben note.
Altre invece sono nate direttamente sul web.
Un
importante problema suscitato dalla diffusione di informazioni tramite
internet è la trasparenza sulla qualità dei contenuti. La qualità
dell’informazione scientifica si può valicare in funzione di cinque
criteri: l’aderenza a linee guida “editoriali”, il riferimento ad
osservazioni sperimentali, il riferimento ad osservazioni della vita di
tutti i giorni, il riferimento ad un gruppo di consenso, la
dichiarazione di opinione personale.
Il
processo di emancipazione dell’utente non è solo sostenuto
dall’evoluzione culturale ma anche da fattori prettamente economici
che, attraverso l’attivazione di tutte le risorse coinvolte, tendono
ad una riduzione dei costi dell’assistenza sanitaria e quindi ad
un’estensione dei settori della popolazione ai quali possono essere
erogati servizi di qualità; l’utente quindi non viene più
considerato solo un soggetto passivo e “paziente” assolutamente
inconsapevole del proprio problema.
In
alcuni casi l’utente diviene addirittura l’attore principale della
propria salute realizzando programmi di igiene mentale adeguati a
garantire il mantenimento della propria salute mentale, anche a fronte
di sollecitazioni stressanti, difficoltà relazionali o eventi
significativi di perdita o eventi traumatici.
Il
monitoraggio clinico computerizzato si avvale di tre indicatori : di
struttura, di attività e di esito.
Gli
indicatori di struttura permettono di confrontare tra loro le risorse
diverse in funzione delle proprietà che le caratterizzano.
Gli
indicatori di attività misurano quanto una struttura fa ed infine, gli
indicatori di esito sono quelli che ci permettono di sapere quanto una
struttura riesca a raggiungere gli obiettivi dichiarati.
In
ogni caso questi indicatori possono essere applicati sia a strutture
sanitarie che non utilizzino sistemi informatici, che a strutture
sanitarie che ne facciano uso.
L’informatica
e la telematica hanno determinato un importante impatto in psichiatria
su quattro aspetti: la clinica assistita dal calcolatore ( capitoli
della cartella clinica, scale di valutazione ecc..); l’organizzazione
operativa ed amministrativa degli interventi (controllo della spesa,
gestione delle risorse, monitoraggio degli esiti); della produzione,
della validazione, dell’integrazione e della gestione di modalità di
accesso alle conoscenze specifiche; della distribuzione e della
discussione su conoscenze ed informazioni professionali.
Per
quanto riguarda i filoni culturali dell’informatica psichiatrica, le
esperienze italiane si avvalgono principalmente a due gruppi
scientifico-culturali. Il primo gruppo (es. Progetto CIP di Furlan,
Pancheri, Conti ed Invernizzi) fa riferimento a realizzazioni
informatiche che supportano l’attività clinica di tutti i giorni ed
attraverso un’integrazione di rete permettono di realizzare sistemi di
osservazione epidemiologica ed organizzazioni operative di risorse
multiple sul territorio.
Il
secondo gruppo ( Pol-It e PsychoMedia ) fa riferimento a realizzazioni
informatiche che sostituiscono i classici strumenti mass-mediatici di
tipo editoriale.
Negli
ultimi dieci anni l’informatica clinica psichiatrica ha effettuato
passi da gigante nell’introduzione dello strumento informatico nella
prassi di tutti i giorni. In
Italia, vi sono diverse esperienze che applicano da anni questi
strumenti a vari aspetti della disciplina psichiatrica. Attualmente il
CIP sta realizzando alcuni progetti di ricerca multicentrici. Le
applicazioni più diffuse sono i sistemi di automazione del test MMPI,
del test di Rorschach e le versioni computerizzate di diverse batterie
di test neuropsicologici.
Il
moltiplicarsi di iniziative e l’estendersi delle applicazioni e del
livello di integrazione tra sistemi ed aree diverse ha prodotto il
risultato che esistono sistemi che nel loro complesso coprono tutti gli
aspetti dell’assistenza psichiatrica.
Il
Registro Casi Verona Sud, ad esempio, è un servizio attivo dal 31
dicembre 1978 e raccoglie informazioni socio-demografiche,storia
psichiatrica e storia clinica dal primo contatto con i servizi
psichiatrici dei residenti della zona sud di Verona di età superiore ai
quattordici anni. Include tutti ricoveri in SPDC, reparti neurologici e
cliniche private; i pazienti del SERT; i contatti di pazienti esterni
con psicologi, psichiatri, infermieri ed assistenti sociali; le
telefonate di una certa importanza clinica.
Il
sistema PAMS è in uso presso l’ARTEMIS Neuropsichiatria. La cartella
presenta una struttura modulare. I moduli possono essere raggruppati in
quattro gruppi: descrizione della biografia del paziente attraverso la
descrizione di eventi specifici della sua vita; descrizione del problema
clinico scomposta in funzione dei diversi metodi utilizzati; descrizione
del tipo di intervento effettuato; descrizione del progetto clinico e
del piano personale di assistenza.
L’integrazione
dei dati avviene mediante l’utilizzo di programmi statistici esterni o
l’impiegodi strumenti di elaborazione di tipo connettistico.
La
cartella clinica di fatto è costituita da due tipi di archivio,
l’archivio di base sui dati individuali e l’archivio dei dati
personali. La cartella clinica vera e propria è rappresentata
dall’archivio di primo tipo.
Il
Centro Clinico Colle Cesarano (CCCC) ha sviluppato un sistema
informatico finalizzato al monitoraggio ed al controllo del processo
clinico, nell’ambito del programma aziendale di garanzia della qualità
e di certificazione secondo la normativa ISO 9001; è stato sviluppato
un nuovo modello organizzativo di tipo “a matrice”. L’essenza
dell’esperienza in corso presso il CCCC è l’integrazione della
procedura di osservazione clinica con procedure di controllo di tutto il
processo di assistenza ospedaliera in una struttura di 234 posti letto.
Il sistema nella fase attuale di sviluppo permette una visibilità e
quindi un monitoraggio della tipologia degli assistiti,
dell’appropriatezza dell’intervento farmacologico, della durata
degli interventi effettuati ecc.
Nel
dicembre del 1994 si è costituito il Comitato per l’informatizzazione
in psichiatria ( Progetto CIP ) per iniziativa degli Istituti di
psichiatria delle Università di Pisa, Roma, Milano e Torino. Si è
voluto mettere in comune l’esperienza delle sedi universitarie che
hanno avuto esperienza nell’ambito dell’informatica psichiatrica. Le
università di Roma e Pisa hanno una presenza oltre ventennale
nell’ambito. Il gruppo di Milano ha da anni esperienza
nell’informatizzazione clinica, utilizzando un sistema informativo
ospedaliero in rete. Il gruppo di Torino ha sviluppato alcuni supporti
ipertestuali alla didattica.
Il
CIP si è posto l’obiettivo di creare una compatibilità nelle
osservazioni effettuate da diverse agenzie sul territorio nazionale ed
ha focalizzato la propria attività nel definire un insieme minimo di
informazioni, la raccolta delle quali è raccomandata in tutte le sedi
di assistenza psichiatrica.
Il
paziente risulta essere l’elemento unificante di tutto il sistema
informativo dal punto di vista clinico. Egli viene descritto secondo le
invarianti che lo caratterizzano dalla nascita alla morte, secondo il
suo stato funzionale anche in riferimento alla presenza di un evento di
tipo clinico. Si fa inoltre cenno alle informazioni storico-biografiche,
in particolare quelle riguardanti precedenti patologici, la percorrenza
delle principali fasi di sviluppo e la storia familiare.
IL
PROGETTO PSYCHO-NET
Si
tratta di un ulteriore livello convenzionale sull’organizzazione di
una rete psichiatrica, per logica assimilabile ala rete internet ma
dedicata alla psichiatria ( intranet psichiatrica ).Tramite questa
convenzionalità la intranet psichiatrica ( Psycho-Net
) può divenire la grande autostrada attraverso la quale condividere
dati clinici, fornire teleconsulti e supervisioni di qualità,
effettuare valutazioni farmaco-economiche e di economia sanitaria in
senso lato, realizzare ricerche multicentriche ed infine distribuire
conoscenze.
Questo
è dunque il presupposto complementare al progetto CIP per
l’organizzazione di un sistema intelligente pluri-individuale in
ambito psichiatrico. L’organizzazione all’interno di una intranet
non è più gerarchica , ma è una rete di connessioni trasversali
pari-a-pari in cui il coordinamento diviene di fatto assegnato in modo
dinamico in funzione della competenza nei confronti dello stato attuale
del problema.
Psicho-Net
è dunque un sistema di scambio d’informazioni,
organizzato sul principio dello scambio di documenti in reti
polidimensionali. I documenti sono organizzati in archivi nei quali essi
sono raccolti secondo criteri di significato e funzione.
Quali
vantaggi concreti derivano alla psichiatria dall’uso
dell’informatica e dalla
telematica?
In
modo particolare la psichiatria se ne avvantaggerebbe proprio per la sua
necessaria vocazione ad abbandonare un modello centralizzato di gestione
della malattia mentale sviluppatosi entro le mura
degli asili, unici grandi centri di cura del passato per
sviluppare interventi sempre più integrati.
Lo
spazio di tale integrazione non è più identificabile con un luogo
preciso, uguale per tutti i pazienti, ma diversificato, distribuito sul
territorio, in una continua interazione tra livelli diversi di
operatività; ogni professionalità non opera più in competizione con
le altre ma acquista significato solo ed esclusivamente in un percorso
progettuale che parte dalla prevenzione,s confronta con la diagnosi
precoce e si concretizza in percorsi terapeutici da realizzare in luoghi
e tempi diversi scanditi secondo una progettualità
comune.
Ecco
allora la necessità di avere un supporto a tale integrazione, una rete
di comunicazione tra enti,
strutture e soggetti diversi; solo in tal modo si potranno identificare
percorsi diversificati e personalizzati per ogni paziente da definirsi
di volta i volta con la collaborazione di tutti gli attori e con la
possibilità per tutti di verificarne l’andamento ed i risultati.
- Gestione
informatizzata e telematica delle cartelle cliniche:
Oggi
è possibile , grazie alla combinazione di informatica e di telematica,
ampliare il concetto stesso di cartella clinica. La base dati non
sarebbe più locale, ma unica per tutti i servizi dello stesso
dipartimento.
In
tal caso, ogni operatore potrebbe, ovunque si trovi, accedere ai dati e
procedere alle modifiche o all’aggiornamento in tempo reale degli
archivi, pur standosene a decine o migliaia di chilometri di distanza
dalla propria sede di lavoro.
- Gestione sanitaria
ospedaliera:
Archivi
di base, gestione referti, accettazione amministrativa con ricoveri,
trasferimenti e dimissioni diverrebbero molto più funzionali con
conseguente risparmio di tempo sia nell’accesso dati sia evitando
inutili duplicazioni degli stessi.
- Gestione
dell’amministrazione sanitaria:
Gestione amministrativa specifica: controllo
di gestione economico-contabile, giuridica, fatturazione, gestione del
personale, magazzino ecc. Ognuna di queste funzioni diventerebbe
centralizzata, rapida e con enormi vantaggi specialmente dopo
l’accorpamento di più unità operative.
Centro unificato per la prenotazione:
si tratta di centralizzare le procedure legate alla prenotazione di
visite specialistiche o esami strumentali.
Trasmissione dei dati e comunicazioni
tra servizi: tramite la posta
elettronica o procedure ancora più avanzate di invio e scambio di dati
si eliminerebbero i lunghi tempi necessari alla consegna della posta
cartacea con eventuali perdita o ritardo nella comunicazione.
Uffici relazioni con il pubblico: Vi
è la possibilità di consultare gli orari d’ufficio, conoscere lo
stato di avanzamento delle pratiche ecc.
- Organizzazione di
ricerche e trial clinici:
Le
ricerche multicentriche, in tal modo, non risentirebbero più della
dispersione spaziale dei partecipanti; si avvierebbero quindi,
collaborazioni anche internazionali tra centri di studio interessati
allo stesso lavoro.
Sviluppo
di strumenti sempre aggiornati d’informazione rivolti al pubblico ed
agli utenti con scambi attivi con tutti i gruppi che operano sul
territorio. Si determinerebbe una rete di collaborazione interattiva.
Possibilità
grazie alla interattività ed alla multimedialità di creare gruppi di
formazione, ricevendo il materiale didattico tramite posta elettronica e
partecipando a vere e proprie sessioni didattiche on line.
- Accesso a banche
dati pubbliche:
Possibilità
di accedere a banche dati costantemente aggiornate di strutture
psichiatriche su tutto il territorio nazionale contenenti informazioni
circa l’utenza ospitata, il tipo di assistenza garantita, la
disponibilità di posti o eventuali tempi d’attesa.
- Aggiornamento e
confronto
Riviste
on line, servizi e bollettini di aggiornamento professionale con
informazioni aggiornate quotidianamente su aspetti farmacologici,
clinici e giuridici, mailing list, gruppi di discussione, comunità
virtuali ecc. con possibilità di confrontare le proprie esperienze con
quelle di altri colleghi o di servizi dislocati su tutto il territorio
nazionale ed internazionale.
Queste
sono alcune delle infinite possibilità di utilizzo degli strumenti che,
attualmente gran parte dei servizi possiede già ma che ancora non
utilizza al meglio delle possibilità.
In
fondo per realizzare le cose basta poco: un server, almeno un computer
in ogni servizio, connessioni tra i vari computer ( anche via modem),
qualche buon programma, un aiuto da chi ne sa qualcosa ed un po’ di
buona volontà.
L’EMPOWERMENT
L'empowerment
storicamente nasce negli anni cinquanta del ‘900 in seguito allo
svilupparsi di iniziative di difesa dei diritti dei pazienti per
ottenere atti legislativi favorevoli e migliori trattamenti. Negli anni
sessanta empowerment è stata una parola d'ordine di molti gruppi che
chiedevano più libertà e più diritti in loro favore, per esempio il
diritto al lavoro dei pazienti psichiatrici. Negli anni settanta si
definì compiutamente il principio fondamentale del modello dell'empowerment
che contrapponendosi alla istituzione totale medicalizzata del manicomio
nella gestione della malattia mentale affermava il diritto alla
produzione e al controllo dei servizi sanitari da parte dei consumer.
La cultura dell'empowerment in
psichiatria nasce e si sviluppa come metodologia di intervento sui
pazienti (e sui famigliari) rivolta al recupero e al potenziamento
dell'autonomia e della responsabilizzazione, alla capacitazione delle
loro risorse personali in una linea di indirizzo che utilizza come
condizioni operative di base la matrice relazionale, la presa in carico
del paziente, la negoziazione dei trattamenti e ha come obbiettivo il
miglioramento dell'efficacia e della appropriatezza degli interventi, la
qualità dei trattamenti e la soddisfazione dell'utente. Ciò ha
comportato la realizzazione di percorsi curativi per promuovere il
passaggio del paziente da una condizione di learned helplessness,
caratterizzata da mancanza di iniziativa, bassa capacità relazionale e
di accesso alle risorse – chiave della comunità, incapacità/inadeguatezza
a dominare gli eventi e da sentimenti quale la sfiducia, lo sconforto l'hopelessness
a una condizione di self-efficacy e di mastery.In generale la gestione manageriale dell'azienda
sanitaria attribuisce particolare importanza alla relazione e alla
comunicazione non soltanto nei riguardi del paziente ma anche nella
gestione ottimale degli operatori sanitari e del gruppo di lavoro.
Questo aspetto in psichiatria si è sviluppato indipendentemente e in
maniera sistematica con l'apporto delle teorie fenomenologiche,
sociogenetiche e con l'applicazione della psicoanalisi allo studio dei
fenomeni istituzionali e dei disturbi mentali in chiave ermeneutica e
relazionale. Quindi l'incontro della cultura manageriale, riguardante la
gestione delle dimensioni comunicativo-relazionali nel gruppo di lavoro,
con l'organizzazione del lavoro della psichiatria istituzionale fondata
oltre che sull'applicazione delle conoscenze scientifiche basate
sull'evidenza anche sulla conoscenza prodotta dalla matrice relazionale
e sulla presenza dell'équipe come fattore strutturale e procedurale
fondamentale per la prassi operativa, ha rilevato punti di contatto come
se nella seconda, pur su presupposti teorici ed epistemologici
differenti fosse possibile trovare aspetti di convergenza con la prima,
e mettere in evidenza l'esistenza di organizzazioni di lavoro già
attrezzate per sviluppare processi di empowering organizzativo e di
potenziamento e capacitazione delle risorse umane coinvolte nel lavoro.
L’approccio
empowerment rappresenta una cultura che, partendo dalla centralità
della persona, tende all’affermazione di mature espressioni della
soggettività, all’ampliamento delle libertà e dei diritti, allo
sviluppo delle potenzialità, della padronanza, della
responsabilizzazione e della capacitazione;
come tipo di mentalità che privilegia l’integrazione delle conoscenze
e delle pratiche.
E’ una cultura le cui
logiche sono di tipo inclusivo ed anti-autoritario, integrative e per
questo non riduzioniste, che si propone come aggiuntiva e non
sostitutiva rispetto a pre-esistenti saperi e ai diversi modelli di
intervento.
L’empowerment
è una parola duplice che definisce sia uno stato di risultato (il
livello empowerment di una persona o di una organizzazione rispetto ad
un'area che li riguarda) sia il processo operativo attraverso cui tale
condizione-risultato viene raggiunto; questo termine è stato adottato
per definire elementi e fenomeni di natura intrinsecamente diversa.
L'aggregazione
di questi elementi abbia condotto allo sviluppo di una cultura vera e
propria in cui egli evidenzia soprattutto alcune componenti costitutive
significative:
o
un costrutto
psicologico, una caratteristica cioè del soggetto nella sua
interazione con l'ambiente; l'approccio empowerment come costrutto
psicologico è quella che, studiata prevalentemente in psicologia di
comunità, forse meglio aiuta a raggiungere le dimensioni costitutive e
a capire la natura profonda dell'empowerment, dando spessore e
consistenza anche alle successive applicazioni operative più
pragmatiche;
- un
processo operativo, percorrendo il quale il soggetto
sviluppa-aumenta il suo livello di empowerment rispetto ad uno
specifico oggetto-area.
- un
approccio applicativo orientativo, che guida
metodologicamente e processualmente nel fare operativo.
L'empowerment
psicologico è "il senso di padronanza e controllo su ciò che
riguarda la propria vita", farebbe riferimento a qualcosa di
intrinseco al soggetto in relazione con il mondo, qualcosa di soggettivo
(un sentimento, un vissuto di sé) che attiene l'uso che l'individuo
sente di sapere e di potere fare delle proprie risorse personali e delle
risorse che può acquisire. Quindi, in senso completo sarà dato dalla
somma e dalla sinergia dell'empowerment psicologico e dall'empowerment
soggettivo-ambientale rappresentatodalle risorse e dalle possibilità
fornite/consentite dall'ambiente.
In psichiatria l'empowerment
può essere definito tanto verso il paziente che per i componenti del
gruppo di lavoro come una consapevole e responsabile progettualità
generativa della persona. Per quanto riguarda il paziente l'empowerment
può essere proposto come obbiettivo generale della presa in carico che
si esprime in un percorso di cura che ha come obbiettivo non soltanto la
guarigione del disturbo ma anche l'attivazione complessiva di un
soggetto interagente nel suo ambiente sociale e comunitario.
L'approccio empowering al
paziente sarà più facilitato, e sorretto da una più salda
motivazione, quanto più i singoli componenti del gruppo di lavoro
avranno potuto vivere all'interno dell'organizzazione un'analoga
esperienza emancipativa, di cui avranno colto il senso, i valori, le
logiche e gli ingredienti trasformativi. L'organizzazione punterà sulla
persona, promuovendone e facilitandone l'elevazione,
l'autodeterminazione e la responsabilizzazione verso i processi, i
prodotti e i clienti. Peraltro che tocca ai collaboratori scegliere di
essere empowered, di voler intraprendere un percorso che da una
condizione di powerlessness, caratterizzata da marginalità nel processo
decisionale, passività, scarsa autonomia esecutiva, bassa produttività,
sfiducia nelle proprie capacità, giunga ad una condizione empowered
riscontrabile in quell'operatore che sia capace di assumere iniziative e
di portarne la responsabilità e sia considerato non più
"dipendente", fattore di costo da razionalizzare, o risorsa da
gestire e controllare, ma partner affidabile, creativamente positivo e
responsabile, e a sua volta generatore di empowerment. Il gruppo di
lavoro informato a questo principio non si avvale della cultura
burocratica del comando e del controllo necessaria per fare eseguire un
lavoro sentito come dovere.
L'équipe è uno strumento
di elaborazione intellettiva ed emotiva, essa esplica una funzione ben
precisa e perde il significato di dimensione concreta in cui
semplicemente convivono e si sommano gli interventi condotti ai diversi
livelli dai diversi operatori. L'impatto con il paziente grave comporta
nei curanti stati mentali del tutto specifici; l'intensità, la
pervasività, la frammentarietà e la confusività di tali esperienze
rendono insufficiente la preparazione e la competenza del curante
singolo.
La funzione del gruppo
istituzionale risulta pertanto fondamentale come potente organismo di
contenimento, di supporto e di elaborazione degli stati affettivi e
delle criticità comunicativo- relazionali del singolo curante e degli
altri operatori; cioè il gruppo svolge funzioni di restauro, di
mantenimento, di rinforzo e arricchimento del singolo curante e degli
operatori coinvolti con il paziente.
Al
leader spetta la promozione della funzione ecologica del gruppo affinché
per mezzo di essa ciascuno possa usufruire di sostegno emotivo, di
rifornimento e di rivitalizzazione del proprio assetto mentale
all'interno di uno spazio protettivo, propizio e sufficientemente
vivibile. La funzione ecologica del gruppo produce per esempio il
recupero dell'autostima di fronte a stati mentali di perdita di fiducia
e di speranza ma soprattutto concorre a restituire senso, significato e
valore per la conoscenza e per l'arricchimento professionale, a
esperienze emotive dolorose, disturbanti, destabilizzanti che derivano
dalle interazioni istituzionali. Per il curante e per gli operatori
l'esistenza del gruppo può rappresentare un'area di sensazioni ed
esperienze di carattere fisico oltre che emotivo e fantasmatico. Esso può
fornire la sensazione di appartenere ad un comune terreno condiviso e di
far parte di un unico corpo indistinto e unificato. Questo tipo di
esperienza, ovviamente se non è ipertrofica, è una condizione
favorevole per lo svolgimento di un buon lavoro perché permette di
provare un senso di protezione, appartenenza e sostegno quando di fronte
all'impatto con il paziente c'è bisogno di ritrovare un luogo con
connotati di vitalità, calore e fiducia per il senso di minaccia
percepito nei riguardi del proprio Sé, cioè uno spazio fisico, ma
anche psichico e affettivo, la cui presenza rappresenta una sorta di
apparato di base di rifornimento affettivo e di sostegno.
EPIDEMIOLOGIA
Definizione: studio
della distribuzione e dei determinanti della frequenza delle malattie
nelle popolazioni umane.
Può considerarsi ancorata a due assunti fondamentali:
1 Le malattie degli uomini non si verificano a caso e per
caso.
2 Tali malattie hanno fattori casuali e preventivi che possono essere
identificati attraverso indagini sistematiche, condotte su popolazioni
differenti o su sottogruppi di individui all’interno di una
stessa popolazione, in posti e/o tempi diversi.
La progressione naturale
del ragionamento epidemiologico muove dal sospetto della
possibile influenza di un certo fattore su un evento morboso e
conduce alla formulazione di una specifica ipotesi.
BREVI CENNI STORICI
Per avvicinarci all’attuale significato di epidemiologia bisogna
arrivare fino all’Inghilterra della Rivoluzione Industriale
(fine del XVII e metà del XIX secolo), con le prime imponenti
raccolte di dati demografici su natalità e mortalità
che portarono ad un articolato studio su fecondità
e mortalità .
Nel corso del XVIII secolo si consolidano le competenze demografiche e
si sviluppa la “geografia medica”, che pone in
relazione la distribuzione della malattie con alcune caratteristiche
ambientali precise.
Risale al 1873 l’istituzione del General Register Office for
England and Wales, il primo vero e proprio Istituto centrale di
statistica inglese.
E’
soprattutto attraverso lo studio delle grandi epidemie che si procede
all’affinamento
delle metodologie di analisi dei dati; John Snow riuscì
a correlare l’epidemia di colera che colpì
Londra nel 1854 con l’inquinamento di un
tratto delle acque del Tamigi e con le compagnie fornitrici d’acqua dei diversi distretti cittadini.
Solo nel XX secolo si assiste all’ampliamento dei
campi applicativi ed al consolidamento dei quadri metodici dell’
Epidemiologia. A partire dal dopoguerra si è avuto uno
straordinario periodo di progresso della ricerca
SCOPI E CLASSIFICAZIONI
DELL’EPIDEMIOLOGIA
I suoi scopi sono da un alto quello di descrivere lo stato di salute
attraverso le misure di occorrenza e di frequenza di una specifica
patologia, nonché
i sui andamenti temporali e geografici; dall’altro indaga le
ipotesi formulate approfondendo i fattori determinanti, con lo scopo
ultimo di capire se una esposizione possa causare una malattia e se sia
possibile prevenirla.
Una delle più frequenti classificazioni dell’Epidemiologia
è la
seguente:
DESCRITTIVA: relativa
alle descrizione delle caratteristiche generali della
distribuzione della malattia, con riferimento particolare alla PERSONA
(variabili di dettaglio quali età, sesso, razza);
LUOGO (distribuzione geografica, differenze tra paesi); TEMPO
(variazioni stagionali, modifiche nel tempo e loro confronto). Con
queste informazioni e possibile trarre le prime informazioni sui fattori
di rischio.
ANALITICA: relativa all’indagine esplicita sulla forza associativa di
un certo fattore di rischio con la patologia di cui si considera
possibile determinate. Il dove, il quando e il chi vengono studiati nel
dettaglio, ricorrendo all’utilizzo di misure appropriate.
VALUTATIVA: relativa alla valutazione dell’impatto dell’utilizzo
dei risultati di ricerca, nonché degli interventi messi
in atto. Può essere efficace nella pianificazione in ambito
sanitario.
MISURE IN EPIDEMIOLOGIA
l’indagine epidemiologica si basa sull’uso
appropriato di adeguate e corrette misurazioni.
MISURE DI OCCORENZA
L’occorrenza di una malattia o di determinati eventi
in certe popolazioni (la frequenza del loro verificarsi), può
essere descritta attraverso l’utilizzo di alcune
misure di base:
la PREVALENZA
e l’INCIDENZA
LA PREVALENZA
Quantifica
la proporzione di casi presenti in un
determinato istante di tempo nella popolazione di riferimento. Viene
espressa con:
P(x)= C(x) /N(x)
P è la proporzione di casi in atto nel tempo x
C è il numero di casi in atto nel tempo x
N è il numero di soggetti presenti nel tempo x
(popolazione totale)
L’INCIDENZA
Quantifica il numero di nuovi casi che si sviluppano nella popolazione
di riferimento durante un definito intervallo di tempo. Può
essere esplicitata come INCIDENZA COMULATIVA o come DENSITA’
DI INCIDENZA.
INCIDENZA COMULATIVA
Stima la probabilità (rischio) che in un individuo sviluppi una
malattia durante un definito periodo di tempo ed in riferimento ad una
popolazione assimilabile ad una coorte fissa (vedi oltre). Viene
espressa con
IC (T1–T0)=
n (T1–T0) / N (T1–T0)
IC è la proporzione di persone che si ammalano nel
periodo di tempo considerato (T1–T0)
n è il numero di nuovi casi che si manifestano nel
periodo (T1–T0)
N è il totale di pazienti a rischio
DENSITA’
DI INCIDENZA
E’ una stima molto più
precisa dell’impatto dell’esposizione in
una certa popolazione (coorte aperta), valutando tale esposizione per la
sommatoria dei tempi di osservazione di tutti gli individui considerati.
Viene espressa con
DI (T1–T0) = n (T1–T0) / Nt
DI è il tasso istantaneo di concentrazione
di nuovi casi di malattia in una popolazione nel tempo (T1–T0)
n è il numero di nuovi casi che si manifestano nel
periodo (T1–T0)
Nt(perone per tempo) è la somma del tempo di rischio di ciascun
individuo, ovvero la somma dei tempi durante i quali ciascuna persona è
stata sotto osservazione e periva di malattia
La prevalenza e l’incidenza
sono legate dalla relazione:
P = I . durata media della malattia
Il numero complessivo di casi quindi dipende dal numero di nuovi casi e
dalla durata della malattia stessa.
I DATI DI PREVALENZA SONO IN GENERE FUNZIONALI ALLA PIANIFICAZIONE IN
SANITA’
PUBBLICA ED ALLA CORRETTA ASSEGNAZIONE DELLE RISORSE.
Per completare la trattazione di tali unità è
importate parlare di due elementi fondamentali:
il RISCHIO ed il TASSO
Il rischio: é
la probabilità di contrarre la malattia oggetto di studio in un
intervallo di tempo definito. Viene espresso con
R = I / N
R è il rischio nell’intervallo (T1–T0)
I è il numero di nuovi casi nel periodo (T1–T0)
N è il numero totale di soggetti candidati al tempo T0
Il tasso: è l’espressione della
variazione istantanea di una certa quantità al variare
unitario di un’altra quantità
ad essa funzionalmente collegata. Si applica al numero di soggetti a
rischio nell’istante per cui è calcolato. Viene
espresso con
T = I / M
T è il tasso medio di incidenza nel periodo dello
studio
I è il numero di nuovi casi insorti nel medesimo
periodo
M è la massa tempo- persone osservata (giorni, mesi)
MISURE DI ASSOCIAZIONE
E’ di grande importanza poter stimare la forza dell’associazione
statistica tra esposizione e malattia.
Quando parliamo di misure di associazione intendiamo sempre misure
basate sul confronto delle frequenze di malattia in popolazioni diverse,
una delle quali è
assunta come popolazione di riferimento (quella con esposizione nulla o
bassa). Sono quindi dei rapporti o delle differenze fra le diverse
frequenze di malattia nei due gruppi.
Il rapporto ci consente di indicare quanto maggiore sia la probabilità
di sviluppare la malattia in un gruppo rispetto all’altro:
RISCHIO RELATIVO. Viene espresso con
RR = IC esposti / IC non esposti
RR è il rischio relativo che può
variare tra 1 e infinito
IC è l’incidenza comulativa
calcolata sia per gli esposti che per i non esposti
La differenza ci
consente di stimare l’eccesso di malattia attribuibile all’esposizione
e quindi ci fornisce informazioni sull’effetto assoluto
dell’esposizione: RISCHIO ATTRIBUIBILE. Viene espresso
con
RA = I esposti / I non esposti
RA è il rischio attribuibile o differenza di rischio
I è l’incidenza di malattia
calcolata sia negli esposti che nei non esposti
Quando non è possibile calcolare direttamente il rischio
relativo si può comunque stimarlo utilizzando il rapporto fra
la “probabilità”
di esposizione fra i casi, in relazione a quella fra i controlli.
ERRORI SISTEMATICI (bias)
PRECISIONE: è la relativa assenza di errori casuali. Viene
indicata dall’intervallo di confidenza fra il limite inferiore e
quello superiore all’interno del quale il valore del parametro
individuato può oscillare. È
importante esplicitare sempre l’intervallo di confidenza
della misura.
VALIDITA’: è il grado di accordo
della misura con il valore “vero”
e si può considerare il risultato della relativa assenza di
errori sistematici.
RIPRODUCIBILITA’: è
la concordanza fra misure ripetute dello stesso fenomeno da parte
del medesimo osservatore in tempi diversi, oppure la concordanza tra
osservatori diversi.
Dalla categoria degli
errori sistematici (bias) dipende il rischio di distorsioni nelle
associazioni fra esposizioni e malattie. Si dividono in due categorie:
BIAS DI SELEZIONE: sono la conseguenza di errori commessi nel
reclutamento dei soggetti da
includere nello studio.
BIAS DI INFORMAZIONE: sono la conseguenza di errori di misurazione che
possono dipendere dalla raccolta non accurata di dati. Sono compresi in
questa categoria gli errori di misclassificazione cioè
quando le categorizzazioni dei soggetti in base alla malattia o all’esposizione
non sono corretti, tale scorrettezza non è casualmente
distribuita nei diversi gruppi dello studio.
PER QUESTE CATEGORIE DI ERRORI L’UNICO INTERVENTO
APPROPRIATO E’ UN ACCURATO DISEGNO DELLO STUDIO E
LA SUA METICOLOSA
CONDUZIONE
CONFONDIMENTO
DEFINIZIONE: fenomeno di
alterazione dell’associazione esistente tra l’esposizione
e la malattia, dovuto alla presenza di una condizione estranea (detta
fattore confondente) che è correlata sia all’esposizione
che alla malattia.
Esistono alcuni metodi che consentono di controllare gli effetti del
confondimento.
Tre sono quelli utilizzabili
in fase di progettazione dello studio:
RANDOMIZZAZIONE: si può
utilizzare solo in studi sperimentali e indica l’assegnazione
casuale dei diversi soggetti alle diverse categorie di esposizione. Se
il campione di studio è sufficientemente ampio consente di ottenere
una distribuzione virtualmente corrispondente alla realtà
sia dei fattori confondenti già noti, sia di quelli non
noti o non sospettati.
RESTRIZIONE: controllo
dei criteri di ammissione allo studio, includendovi solo i soggetti che
abbiano un determinato valore del confondente (es.: razza o sesso). È
applicabile in tutti gli studi analitici, è semplice ed a
costo zero, però porta ad una diminuzione dei soggetti
eligibili per lo studio e non consente di valutare l’associazione
fra esposizione e malattia al variare dei livelli del confondente
APPAIAMENTO:
utilizzabile in tutti gli studi analitici (soprattutto nei caso-contollo),
consiste nella selezione dei soggetti in modo tale che tutti i
potenziali confondenti siano distribuiti in modo identico nei diversi
gruppi di studio. Può
essere di difficile e costosa applicazione data problematicità
a trovare un numero sufficiente di soggetti con le giuste
caratteristiche per il corretto appaiamento; si tende quindi ad usarla
con campioni di dimensioni limitate.
Due sono i metodi
utilizzabili in fase di analisi:
STRATIFICAZIONE: è la valutazione dell’associazione
all’interno di categorie omogenee (strati) per un dato
valore del confidente; cioè disaggreghiamo la
popolazione studiata in strati che controllano il valore che ci
interessa (sesso, razza, classi di età). Il limite di questo
metodo è l’incapacità
di tenere sotto controllo simultaneamente un numero anche modesto di
potenziali confondenti.
ANALISI MULTIVARIATA: può tenere sotto controllo più
variabili contemporaneamente. Sono stati sviluppati molti modelli per
scopi specifici e la scelta di quello più appropriato è
in genere alquanto complessa, basata sulle caratteristiche proprie dello
studio.
STUDI EPIDEMIOLOGICI
Analizzeremo due grandi
categorie di studi epidemiologici:
Gli STUDI DESCRITTIVI che descrivono le caratteristiche generali e le
frequenze di malattia, nonché i loro andamenti temporali.
Gli STUDI ANALITICI che si propongono di testare specifiche ipotesi
eziologiche o cercando di generarne di nuove, anche preventive,
suggerendo meccanismi di casualità o possibili interventi di prevenzione.
SPESSO STRATEGIE COMBINATE SI RIVELANO LE MIGLIORI
STUDI DESCRITTIVI
Sono capaci di fornire informazioni essenziali per la programmazione di
interventi in sanità pubblica rappresentando sempre il primo passo per
costruire ipotesi ragionevoli che possano condurre alla soluzione di
tali problemi; sono poco costosi e richiedono tempi contenuti per la
conduzione, essendo di conseguenza i più comuni.
I principali tipi di studi descrittivi sono quelli di correlazione,
di caso e serie cliniche, le indagini di prevalenza.
STUDI DI CORRELAZIONE:
descrivono particolari aggregazioni di caratteristiche delle malattie
per compararle in diverse popolazioni nel medesimo periodo di tempo,
oppure nella stessa popolazione in periodi differenti. È utile per
formulare ipotesi generali, visto che si occupa di intere popolazioni,
però
non riesce a tenere sotto controllo i confondenti.
STUDI DI CASO CLINICO:
rappresentano la forma più elementare di studio descrittivo condotto a
livello di individuo; possono essere ampliati alla descrizione delle
caratteristiche di un certo numero di pazienti dando origine alle serie
cliniche. Questi studi sono un’interfaccia
importante tra l’epidemiologia e la clinica, però
generalmente poco utili per dimostrare la presenza di una valida
associazione statistica.
INDAGINI DI PREVALENZA o
TRASVERSALI: studiano contemporaneamente sia lo stato di malattia che l’esposizione
in una popolazione definita o in un campione randomizzato di essa. Il
tempo considerato può essere sia un istante preciso che un periodo
determinato. Uno dei problemi che si pone usando questo tipo di studio è
che spesso diventa difficile determinare la sequenza temporale tra
fattori di rischio e stato morboso, visto che si rivelano insieme lo
stato di malattia e di esposizione. Questo comporta il rischio d’interpretare come
causa ciò che in realtà è
una conseguenza e viceversa.
STUDI ANALITICI
Comportano il raffronto esplicito fra esposizione e malattia; comparano
diversi gruppi di individui con l’obbiettivo di investigare se il rischio di
malattia differisca o meno per i soggetti esposti e non esposti al
fattore che ci interessa.
Si dividono in sperimentali (dove il ricercatore interviene sull’esposizione)
e osservazionali (dove il ricercatore osserva il corso naturale
degli eventi).
TIPO SPERIMENTALE: sono
influenzati da considerazioni etiche, in quanto l’assegnazione
a determinati fattori di esposizione è legata alla sua
potenziale pericolosità. Si usano per valutare la capacità
di un certo agente di ridurre i sintomi, il rischio di ricadute o di
morte, oppure per valutare se certi agenti o procedure siano in grado di
ridurre il rischio di sviluppare la condizione morbosa in studio.
L’affidabilità dei risultati di
questo genere di ricerche è certamente superiore a
quello di qualunque studio osservazionale, il loro costo è
però più elevato.
TIPO OSSERVAZIONALE: si
dividono in studi di coorte e caso-controllo.
STUDI DI COORTE: i soggetti sono classificati sulla base della presenza
o assenza dell’esposizione ad un particolare fattore; vengono
seguiti nel tempo per valutare se ed in che misura lo sviluppo della
malattia sia determinato dalle diverse condizioni di esposizione.
Possono essere sia prospettici che retrospettivi. Consentono d studiare
le esposizioni rare, di ricostruire la storia della malattia , di
esaminare l’esposizione
ed i suoi effetti, rilevano l’incidenza della malattia
e permettono il calcolo del rischio relativo. È
inadatto allo studio di malattie rare quando non sia presente una
percentuale alta di rischio attribuibile. Ha un costo molto elevato.
STUDI CASO-CONTROLLO: i
soggetti vengono selezionati in base alla presenza della malattia
considerata e messi a confronto con un altro gruppo di individui che
presentano una serie di caratteristiche simili, ma senza la condizione
morbosa indagata allo scopo di valutare l’associazione fra esposizione e malattia. E’
molto importante decidere all’inizio dello studio se
ammettere come casi tutti coloro che presentano la malattia in qualunque
stadio del suo sviluppo, oppure solo quelli che vengono diagnosticati
dopo l’inizio
dell’osservazione. Sono poco costosi, hanno una durata
contenuta e possono arruolare un numero ristretto di soggetti, però
è possibile che si commettano molto bias nella
selezione dei soggetti arruolabili.
VALIDITA’
DEGLI STUDI
Il protocollo di uno studio epidemiologico dovrebbe sempre esplicitare:
Motivazioni dello studio corredate dalla bibliografia relativa
alle informazioni derivanti da studi precedenti.
Criteri seguiti per selezionare quello specifico schema
logico-formale di studio.
Strumenti e metodi per la rilevazione dei dati, nonché
un preciso piano di analisi, prefigurando le possibili interpretazioni
dei risultati.
Considerazioni di fattibilità
relative ai tempi ed alle risorse economiche,
logistiche e professionali disponibili.
La validità
di uno studio si basa sulla qualità delle
informazioni che raccoglie, che devono essere accurate e pertinenti, e
sulla rigorosità delle metodiche utilizzate.
Bisogna inoltre prestare particolare attenzione alla confrontabilità
delle popolazioni arruolate nello studio ed alla loro rappresentatività
rispetto alla popolazione generale.
Se questi criteri vengono rispettati si hanno buone garanzie che i
risultati dell’indagine possano essere generalizzati anche a
popolazioni, tempi e contesti diversi, aumentando la potenza dello
studio.
Per la validità
dello studio è importante avere la possibilità
di mettere in campo, prima del disegno definitivo, uno studio pilota
che consenta, in un contesto di dimensioni e mezzi ridotti, di avere
importanti indicazioni sulle caratteristiche di validità dell’indagine
che si intende avviare.
SORVEGLIANZA
EPIDEMIOLOGICA
DEFINIZIONE: è la continua ed accurata osservazione di un
fenomeno, finalizzata ad intervenire su di esso. L’analisi
mira essenzialmente a mettere in evidenza eventuali scostamenti da
valori standard che sono stati assunti come riferimento.
Il MONITORAGGIO invece si limita alla registrazione dell’andamento
del fenomeno in esame.
EPIDEMIOLOGIA DEI
DISTURBI MENTALI NELLA
POPOLAZIONE
Numerosi soggetti ,
nella popolazione, presentano sintomi psichiatrici, per la maggior parte
di tipo nevrotica. Nei casi in cui una diagnosi può
essere fatta, essa e’ perlopiù
una diagnosi di disturbi dell’affettività’,
su base ansiosa o depressiva; per questa ragione molti sul disagio
psichica nella popolazione vertono su tali disturbi.
Le teorie psichiatriche sui disturbi di tipo affettivo furono formulate
per la prima volta nel diciannovesimo secolo, a partire dall’esperienza
fatta con i pazienti ricoverati negli ospedali psichiatrici per gravi
disturbi depressivi.
LE TECNICHE DI
IDENTIFICAZIONE DEL CASO
Sebbene il metodo epidemiologico si dimostri molto adatto a tali studi,
tuttavia la sua applicazione a un contesto vasto come la popolazione
generale fa insorgere certi problemi nel disegno sperimentale e nel
metodo di ricerca. Il problema più importante e’
quello della descrizione clinica e della classificazione del disturbo
psichiatrico. Tale descrizione dovrebbe essere, per quanto possibile,
standardizzata ( in termini sia categorici che dimensionali).
Negli studi di
popolazione condotti in Scandinavia alcuni psichiatri rivolsero la loro
attenzione all’identificazione di casi con
caratteristiche cliniche sovrapponibili a quelle dei pazienti ricoverati
negli ospedali psichiatrici.
In seguito i ricercatori si servirono di questionari di
autosomministrazione. Tali sudi non furono progettati con lo scopo di
identificare o spiegare disturbi specifici, ai ricercatori interessava
una dimensione ai cui estremi si collocavano i concetti di salute e di
malattia.
Nella terza fase la
questione più importante è stata quella di
giungere a una descrizione dettagliata e a una definizione
differenziale, da riportare in un glossario. Le sale AMDP-System e PSE
utilizzano questi criteri, ma non furono costruite per
fare diagnosi, permettono solamente di ottenere un ampio,
ragionevole e attendibile profilo clinico, se usate da personale
esperto.
La DIS
è
il più recente strumento statunitense e permette una o più
diagnosi longitudinali a vita in
accordo con i criteri diagnostici del sistema nosografico del
DSM-III.
Il problema nell’utilizzo di tale scala è
la priorità diagnostica da assegnare a ogni sintomo, qualora più sintomi siano contemporaneamente presenti.
Mentre può
apparire semplice valutare l’incidenza dei disturbi
affettivi, calcolando il numero dei primi contatti con i servizi
psichiatrici, ciò presuppone
che si sia deciso cosa è compreso nel disturbo affettivo, e che tutti
i pazienti con questo tipo di disturbo si rivolgano ad uno specialista.
Alcuni autori ritengono
possibile stabilire la data di esordio di un episodio psichiatrico,
perlomeno se si colloca nell’anno precedente l’intervista,
con una precisione tale da poter utilizzare i dati raccolti per studiare
le cause che appaiono temporalmente più vicine al
disturbo.
Essi ottengono in tal modo un tasso di insorgenza dei disturbi e non un
tasso d’incidenza.
Fino a che non si sarà verificato fra i ricercatori un accordo
sufficientemente elevato sull’epoca d’esordio
dei disturbi, però, sarà molto difficile
formulare criteri di controllo.
Le stime dei tassi di
prevalenza sono meno problematiche, ma sono anche meno utili per
studiare le cause dei disturbi psichiatrici.
Se si osservano i dati riportati da alcuni studi si osserva che sia i
tassi relativi agli uomini, che quelli relativi alle donne variano da
tre a quattro volte, e che quelli ricavati utilizzando un questionario
autosomministrato e un punteggio-soglia hanno prodotto i più alti tassi di
prevalenza. Se escludiamo gli studi che utilizzano scale
autosomministrate troviamo un miglior accordo dei tassi di prevalenza.
LA VALUTAZIONE DEL
“DISAGIO SOCIALE”.
Per comodità si sono distinte due componenti del disagio
sociale: gli eventi (circostanze che si verificano nel corso
della vita in modo più o meno discontinuo), e i problemi o difficoltà
(più costanti e perduranti nel tempo).
Il verificarsi di eventi può essere valutato
presentando al soggetto un elenco predeterminato di circostanze delle
quali egli può avere avuto esperienza.
Un’alternativa è rappresentata
dall’uso di un’intervista
semistrutturata che copra vari eventi che possono occorrere ad un
soggetto.
Esistono due diverse
strategie per valutare le conseguenze di un evento:
la prima richiede l’impiego di un campione da utilizzare per il
procedimento di attribuzione dei punteggi. A questo campione di persone
viene richiesto di esprimere un punteggio per ogni categoria presente
nell’inventario.
Ad alcune categorie vengono attribuiti punteggi standard: si ottengono
così
alcuni riferimenti per attribuire i punteggi alle altre categorie. Viene
poi fatta una media dei valori riportati per ogni evento, per produrre
un punteggio finale ad esso attribuibile.
La seconda prevede l’uso
di ricercatori operanti in gruppo. Può essere usata sia
per valutare l’influenza degli eventi, sia per decidere quali
di essi debbano essere presi in considerazione nelle analisi. Gli eventi
sono descritti in dettaglio, come il contesto sociale in cui vivono le
persone che li hanno vissuti. I punteggi si basano su una scala a
quattro punti, attribuiti tenendo conto del grado di minaccia che gli
eventi stessi comportano. Quelli che sono stati considerati come
più significativi
sono il totale dei cambiamenti che un evento comporta e il totale dei
momenti di stress che esso determina. Lo stress è
la componente più significativa nella genesi dei disturbi di
tipo affettivo.
GLI EVENTI POTREBBERO SIA CAUSARE DISTURBI PSICHIATRICI, CHE ESSERNE UNA
CONSEGUENZA.
I soggetti depressi
avendo una visione più triste degli avvenimenti vissuti nel corso
della vita, possono fornire di essi un resoconto non obbiettivo. È
essenziale che gli eventi e l’esordio dei sintomi
siano precisamente datati e che siano esclusi dall’analisi
gli eventi verificatisi dopo l’insorgenza di sintomi
significativi.
Coloro che assegnano i
punteggi non ricevono nessuna informazione sullo stato di salute mentale
dei soggetti o sull’effettiva reazione a un determinato evento. Si
tratta di un tentativo di prevenire alcuni dei potenziali errori
metodologici in cui si può incorrere nella valutazione dei soggetti.
Un’altra tecnica è quella che
esclude dall’analisi quegli eventi che, a causa della loro
relazione con le azioni del soggetto, potrebbero essere accaduti proprio
per il fatto che il soggetto era disturbato.
ALCUNI STUDI INGLESI …
Brown e collaboratori esaminarono un campione di popolazione generale di
Camberwell composto da 458 donne. Si servirono della PSE per ricavare
eventuali sintomi; gli eventi furono rilevati attraverso un’intervista,
e ad essi venne assegnato un punteggio. Un obbiettivo dello studio era
quello di mettere in relazione le differenze nei tassi di disturbi, in
diverse classi sociali, con i livelli delle avversità subite. I
sottogruppi con i più alti tassi di disturbi psichiatrici non erano
quelli che avevano dovuto subire i più alti livelli di
avversità.
I ricercatori
suggerirono che la ragione di tali risultati derivasse da una maggiore
sensibilità agli eventi da parte delle donne che si trovavano
in particolari circostanze e identificarono quattro fattori di
vulnerabilità:
perdita prematura della madre, essere senza lavoro, dover provvedere ai
bisogni di un bambino, mancanza di una relazione affettiva valida. Tali
fattori agivano in modo tale da accrescere il rischio di depressione.
Emersero notevoli difficoltà quando si tentò
di riprodurre il loro studio. Uno dei limiti di questo studio trae
origine dal fatto che fu utilizzata la versione breve della PSE,
somministrata da intervistatori non psichiatri.
I risultati di altri
studi hanno dimostrato che i disturbi emotivi nella popolazione generale
erano due volte e mezzo più frequenti nelle donne che negli uomini.
Furono riscontrati bassi tassi di disturbo negli uomini sposati, mentre
le loro mogli presentavano tassi molto elevati. Ciò sembra dipendere
soprattutto dal fatto che le donne sposate tendono ad abbandonare il
lavoro fuori casa per impegnarsi nella cura dei bambini. Le donne della
classe operaia che lavorano in casa, con figli, si sono dimostrate
particolarmente inclini a manifestare disturbi psichiatrici lievi come
reazione alle avversità.
Tuttavia l’associazione tra disturbo psichiatrico e classe
sociale è risultata trascurabile e poco significativa.
Le condizioni
psicopatologiche più gravi e strutturate sono con minore
probabilità provocate da eventi di tipo socio-ambientale,
esistono però studi che non hanno dimostrato l’esistenza
di una stratificazione così marcata.
L’ultimo
studio di popolazione che vogliamo ricordare è
quello condotto a Edimburgo su un campione casuale di 576 donne. Gli
autori, ben consci della difficoltà di ottenere descrizioni
delle condizioni psichiatriche, hanno deciso di registrare le
interviste. I ricercatori hanno ascoltato i nastri delle interviste e,
se necessario, hanno modificato i punteggi assegnati dal personale non
psichiatrico. Questo cambio di punteggio avvenne generalmente nel senso
della diminuzione, questo studio infatti riporta i più bassi tassi di prevalenza mai riscontrati
prima. Lo strumento utilizzato ha combinato le domande della PSE con
quelle della SADS. Questo uso combinato di strumenti diversi appare la
strategia che sarà sempre più impiegata negli
studi.
CARATTERISTICHE DEGLI
STUDI
Prima di tutto il campione di popolazione dovrebbe essere veramente
casuale, usando un accurato processo di randomizzazione.
Dovrebbe essere condotto in due fasi. Nella prima fase di selezione
dovrebbe essere eseguita una valutazione psichiatrica provvisoria, e il
campione di popolazione andrebbe raggruppato in strati secondo le
differenti probabilità
di presentare disturbi intercorrenti. Nella seconda fase dovrebbero
essere intervistati sottocampioni dei diversi strati, in modo tale che
il campione finale sia costituito prevalentemente da coloro che sono
realmente casi.
NON E’ CHIARO SE PUO’ ESSERE
VANTAGGIOSO USARE NELLA FASE DI SELEZIONE LE VERSIONI BREVI DI STRUMENTI
PIU’
COMPLESSI USATI NELLA FASE FINALE
Il miglior metodo per
indagare il ruolo dell’ambiente sociale nell’esordio
dei disturbi psichiatrici consiste nell’utilizzare l’intervista
e le tecniche di valutazione di Brown. Inoltre è
necessaria una precisa identificazione delle date di esordio dei sintomi
psichiatrici e degli eventi vissuti. Solo gli eventi classificati come
indipendenti dovrebbero essere inclusi nell’analisi.
Il burn-out
SINTOMI
PSICHICI
incapacità
a rilassarsi
preoccupazione
trasalimenti
tremiti
maggiore timore per eventi stressogeni
irritabilità
iporessia/bulimia
riduzione della memoria
difficoltà
di concentrazione
disturbi addormentamento/risveglio
riposo incompleto/agitato
stanchezza da risveglio
incubi
SINTOMI
FISICI
dolori
muscolari
contratture/intorpidimenti
contrazione
mandibolare/bruxismo
disturbi
ritmo cardiaco
disturbi
del respiro
dispepsie/nausea/conati
di vomito
disfagia
dismenorree
frigidita’/disturbi sessualita’
disturbi
della diuresi
cefalea
rossore/pallore
parestesie
ronzio
auricolare/acufeni
Quadro sintomatologico
specifico
espressione di disagio
personale determinato dalla azione sinergica di:
-fattori
relativi all’organizzazione del lavoro
-fattori originati dal contesto politico-sociale
-fattori individuali
6
DISCREPANZE TRA LAVORO E PERSONA RAPPRESENTANO LE FONTI EMBLEMATICHE DEL
BURN-OUT
•
SOVRACCARICO DI LAVORO
•
MANCANZA di CONTROLLO
sulle
POLITICHE DI GESTIONE AZIENDALE
•
REMUNERAZIONE INSUFFICIENTE
•
ASSENZA DI FIDUCIA E RISPETTO
nel CONTESTO
LAVORATIVO
•
CROLLO del SENSO di APPARTENENZA
alla
COMUNITA’
•
CONFLITTO DI VALORI
(tra ciò
che richiesto dall’azienda e le proprie aspettative)
RISVOLTI EMOZIONALI
FRUSTRAZIONE
+
RABBIA
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