Follia d'amore: Altre adozioni Chiuso il manicomio, a Collegno diciotto famiglie hanno deciso di aprire case, affetti e vita quotidiana ai malati psichiatrici
di Maurizio Crosetti e Tiziana Catenazzo
Foto di Alessandro AlbertUn matto in casa, che vive con noi, usa la nostra doccia e la nostra biancheria, prende ciò che vuole dal nostro frigorifero e si cucina quel che gli piace, guarda la televisione accanto a noi e risponde al telefono, legge, dorme, gioca, ride, è allegro, è triste. Che si comporta in casa nostra come se fosse sua. Che non è un "ospite", perché vive sotto il nostro tetto "a tempo indeterminato", e soprattutto è un adulto che soffre di disturbi psichici. Un malato di mente. Il progetto di inserimento dei "matti" nelle case di famiglie "normali" prosegue con successo da 11 anni in provinci di Torino. All'Asl 5 di Orbassano-Collegno. E fa riferimento a tre persone: Pier Maria Furlan, psichiatra e docente universitario, oltre che direttore del dipartimento di salute mentale all'ospedale San Luigi Gonzaga di Orbassano; Irene Olanda, infermiera specializzata in psichiatria; Gianfranco Aluffi, psicologo specialista in psicologia clinica e autore di Dal manicomio alla famiglia. Ovvero, la guida teorico-pratica allo Iesa (inserimento eterofamiliare supportato di adulti sofferenti di disturbi psichici). Il dottor Furlan ha un piccolo studio con un curioso quadro alla parete. Si intitola Macchina per rubare le anime. Tra i diciotto malati attualmente accolti dalle famiglie, anche alcuni pazienti dell'ex manicomio di Collegno (quello dello "smemorato"), che fu uno dei più grandi d'Europa. C'è Francesca, 64 anni, ricoverata la prima volta all'età di nove anni perché giocava al dottore sotto i ponti e per strada: in vent'anni di manicomio le hanno fatto 48 elettroshock, anche ai genitali. Lei non era malata, è impazzita dopo, inevitabilmente. Da oltre cinque anni vive a casa di Luciana, che è separata e di giorno si prende cura dei nipoti. Francesca è dimagrita di venti chili e ha imparato a prendersi molta cura di sé, ha smesso di nascondere il gorgonzola sotto il materasso, i nipoti di Luciana la chiamano nonna e le hanno insegnato a leggere e a scrivere. Nella sua stanza, la cyclette e le foto dei viaggi fatti con la "cugina" Luciana (si sono presentate così ai vicini e al quartiere per non destare sospetti). "Abbiamo legato subito", spiega la padrona di casa. "Francesca mi accompagna ovunque. Non ho mica dovuto dare grandi spiegazioni ai conoscenti, semplicemente ho detto che mia cugina è venuta a stare da me per non rimanere più sola. Mi aiuta in casa, gioca con i bambini (li fa sempre vincere, però) ed è educatissima. Dimostra un'attenzione straordinaria per tutto, le voglio veramente bene. Quando si accorge che comincio a prendermela per qualcosa, è l'unica che riesca a calmarmi". Le finte cugine sono andate di recente a CioccolaTò, la fiera dei golosi, e a uno spettacolo di spogliarellisti l'8 marzo. Divertendosi, è il caso di dirlo, come matte. "Quando, nel 1996, ho assunto la direzione del dipartimento, a Collegno c'erano ancora 526 malati da dimettere", spiega il professor Furlan. "Ci sono voluti 22 anni, dalla legge Basaglia, per giungere alla definitiva chiusura del manicomio. Ma dal manicomio alle comunità, agli alloggi e ai centri di accoglienza, il passo non è stato affatto immediato. Questo progetto di inserimento nelle famiglie è un'alternativa, e ciò che lo rende formidabile è la possibilità, finalmente, di fornire al paziente una situazione di normalità, con abitudini e modelli di vita familiari che neppure la migliore comunità terapeutica potrebbe mai offrire: la convivenza con altri malati psichiatrici è uno dei grandi limiti di ogni trattamento. Un matto non necessariamente trova divertente giocare a briscola con un altro matto". Angela, 43 anni, frequenta la casa di Anna e Alfredo, pensionati (lei è un'ex operatrice del manicomio) ogni mercoledì mattina. "Questo per il momento, perché non è ancora pronta", spiegano Irene Olanda e Gianfranco Aluffi, che visitano settimanalmente le famiglie e organizzano incontri. "Si verificano anche episodi di conflitto, perché il litigio fa parte della vita quotidana, e allora se ne parla. Insieme cerchiamo un possibile accordo. A volte si discute per ore su dettagli minimi, che per queste persone hanno invece un'importanza enorme". I malati "adottati" per brevi o per lunghi periodi dalle famiglie hanno le chiavi dell'appartamento, e sempre del denaro in tasca. "Per il resto della settimana, Angela vive in comunità", aggiunge Anna, che la ospita. "Ma quando viene da me, riusciamo a fare tantissime cose. Ha un enorme desiderio di imparare e di fare. E allora cuciamo, cuciniamo, andiamo al mercato. È una donna molto espansiva, spontanea, ma soprattutto sa ascoltare". L'esperienza di Orbassano è stata la prima in Italia, e purtroppo quasi l'unica a funzionare regolarmente, nonostante gli ottimi risultati conseguiti: zero ricoveri in ospedale per oltre 22 mila giorni di convivenza. Giorgio (63 anni) e Raimondo (39) vivono invece in una bella cascina tra capre e cavalli, nel verde di San Giorgio Canavese, ospiti di Anna Maria e Salvatore che hanno tre figli grandi. Mascia, la più giovane, ha 16 anni ed è legatissima al "nonno" Giorgio. "Quando piove e arrivo da scuola con l'autobus, il nonno viene ad aspettarmi alla fermata con l'ombrello, e si preoccupa quando esco la sera. Ama il mio cavallo, Baygon, e mi aiuta a dargli da mangiare e a tenerlo pulito". Anna racconta che, per un po' di notti, Giorgio faceva la pipì a letto. "È molto emotivo, ha paura degli altri. Quand'è arrivato si teneva tutte le sue cose addosso, temeva che gliele portassimo via. Anch'io avevo dei pregiudizi, prima di conoscere queste persone, ma a viverci accanto, con semplicità e buon senso, si riceve tantissimo da loro. Cadono i muri, si vincono l'egoismo e i tabù. Giorgio e Raimondo mi aiutano a tagliare la legna, a pelare le patate". Perché è vero che le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida e visionaria follia. "Ho bussato a tante porte per proporre il progetto dello Iesa, ma solo il professor Furlan ha avuto il coraggio di accettare: l'ha trasformato in un servizio strutturato, che oggi funziona da modello", ricorda il dottor Aluffi. I criteri di selezione delle famiglie sono diversi. Anzitutto, disponibilità di spazi, perché il malato accolto in casa deve avere come minimo una propria stanza; l'autosufficienza economica delle famiglie ospitanti, perché l'accoglienza non diventi per loro una mera opportunità di guadagno, nonostante la somma di circa mille euro mensili come assegno terapeutico; infine, l'assenza di conflittualità interne alla stessa famiglia, perché il malato venga accolto in un clima il più possibile sereno e protetto, per quanto non privo delle quotidiane e normali difficoltà relazionali e comportamentali proprie di tutte le famiglie. Se ci sono bambini, meglio. E se ci sono anche cani e gatti, meglio ancora, l'affettività può solo guadagnarci. In questi undici anni di lavoro e selezione, il dipartimento di Grugliasco ha abilitato 76 famiglie, e a breve ci sarà una sorta di cerimonia di consegna dei diplomi. Le domande di quanti si sentono pronti ad accogliere raddoppiano di anno in anno. Parlando con future madri e padri, e sorelle e fratelli di quelle prossime famiglie allargate, ciò che più stupisce è il desiderio, quasi il bisogno di accudire qualcuno, di volersi prendere cura - e nel migliore dei modi - di un'altra persona. Succede a Isabella Milioto, mamma di due figli di 8 e 14 anni, che ha perso la madre malata di cui si è occupata per anni. Ma succede anche a Calogero Inserra, 63 anni, che ha conosciuto la solitudine dopo una vita difficile e due matrimoni falliti. "In due persone si è già famiglia", racconta. "E io vorrei un amico di cui fidarmi, con cui viaggiare in camper e stare in compagnia". Poi c'è Mariarosa, 24 anni, una delle pazienti più giovani in cura al dipartimento. Interdetta - sotto tutela del direttore generale, ingegner Giorgio Rabino, grande sostenitore del progetto - vive da qualche mese a casa di Michela e Giovanni: "È una bravissima ragazza, ma a volte ci fa disperare perché esce senza avvertire e non sappiamo dove andare a cercarla. Lei si sa gestire, per spostarsi usa i mezzi pubblici, a volte arriva in ospedale solo per vedere l'infermiere di cui si è innamorata". Spesso succede che un'autentica amicizia leghi operatori e pazienti, ed è tutto uno schioccare di baci sulle guance. Norma è una delle migliori amiche di Irene Olanda. "È una storia che ho preso a cuore fin dall'inizio", racconta l'infermiera. "Io e Norma siamo coetanee, abbiamo 45 anni. Lei ne aveva poco più di 20 quando si è sposata, ha avuto una figlia che poi ha perso, quindi una gravidanza interrotta e l'abbandono da parte del marito, infine la morte della madre. Non ha retto ed è caduta nel delirio. C'è stato il trattamento sanitario obbligatorio, poi l'inserimento in comunità, e ancora l'interdizione. Ora vive in famiglia da tre anni, però non se la sente di parlare e di esporsi. Con lei abbiamo dovuto lavorare tantissimo, ma ora Norma è decisamente un'altra persona, con un sorriso limpido, meraviglioso". Difficoltà? "All'inizio, se il direttore dell'azienda sanitaria locale, Nicolò Coppola, non avesse recepito l'idea in un atto deliberativo ufficiale, non saremmo neppure partiti", ammette il professor Furlan. "Anche la magistratura è stata un freno, per il rischio di corresponsabilità in caso di intolleranze e comportamenti gravi da parte della famiglia o dell'ospite: mai successo, per fortuna. Reticenze sono state espresse anche dalla comunità scientifica locale e da colleghi di altri dipartimenti, comunicate in modo non sempre sereno". A sciogliere buona parte dei nodi, alla fine, oltre all'intrinseca bontà del progetto, anche il vantaggio economico. Un paziente accolto in famiglia costa da 30 a 60 euro al giorno, rispetto ai 150 euro che in media occorrono per mantenerlo in comunità. È il coraggio di tentare nuove strade contro lo stigma della malattia mentale, in un campo ancora disseminato di esitazioni e sindromi prodotte più dalle strutture che dalle patologie in sé. "Ma follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi", ci ha insegnato Einstein.
Ex manicomio: gli altri futuri possibili "La presenza per un secolo e mezzo del manicomio ha forse indotto, per la Certosa, una sorta di damnatio memoriae, malgrado la bellezza, la sacralità e l'imponenza dei suoi spazi. Le fughe dei porticati, i giardini interni all'italiana, le tracce dei monaci di San Brunone ne fanno un monumento universale. Molte sono state le proposte di ripristino dopo la chiusura del manicomio, nel 2000 - insediamenti universitari, Museo dell'Uomo, centro congressi, infrastrutture comunali - solo in parte realizzate. A oggi hanno preso vita: il progetto della Farmacia della Real Certosa, un dispensario ottocentesco restaurato per la vendita dei prodotti delle comunità terapeutiche, che viene gestito dai pazienti del Dipartimento di salute mentale; il centro didattico e il segretariato dell'Università italo-francese, di cui si prevede, a breve, anche l'insediamento della foresteria. Con questa e altre iniziative si mira alla progressiva rivalorizzazione di un patrimonio secolare, conservandone le diversificate tracce storiche". (Tratto da: Pier Maria Furlan, I luoghi delle cure in Piemonte, Medicina e architettura tra medioevo ed età contemporanea, Celid, 200