UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO
FACOLTA’
DI SCIENZE POLITICHE CORSO
DI LAUREA IN SERVIZIO SOCIALE TESI
DI LAUREA
L’affidamento eterofamiliare di persone sofferenti di disturbi psichici RELATORE:
CANDIDATO: Prof.ssa Donatella
Ravera
Sara Celestino
Anno
Accademico 2005-2006 INDICE INDICE
Pag.
2 CAPITOLO 1: LE ORIGINI DELL’AFFIDAMENTO ETEROFAMILIARE TRA STORIA E
LEGGENDA
1.
La leggenda di Santa Dymphna: le miracolose guarigioni
dei “lunatici” e l’esperienza secolare di Geel
Pag.
5 2.
La leggenda dell’acqua
miracolosa del tempio di
Daiun ad
Iwakura
Pag. 8 3.
L’oppio antidepressivo
di Brema
Pag.
9 4.
Il poeta Friedrich
Holderlin ospite di un falegname: un
illustre caso di Psychiatrische Familienpflege
Pag. 10 CAPITOLO 2: ASPETTI TEORICI DELL’AFFIDAMENTO ETERO FAMILIARE
1.
Definizione e classificazione
Pag.
12 2.
Lo stigma della malattia
mentale: sinonimo di esclusione
e progressiva perdita di competenze sociali
Pag. 16 3.
La
rivalutazione della
famiglia: da famiglia
patogena a
risorsa sociale
Pag. 20 4.
I processi terapeutico riabilitativi
attivati dall’affidamento
eterofamiliare
Pag.
23 CAPITOLO 3: L’AFFIDAMENTO ETEROFAMILIARE IN ITALIA: STORIA ED ATTUALITÀ
1.
Dalla normativa
manicomiale alla legge 180: il superamento dell’istituzione
totale e
la perdita
di specifici
riferimenti normativi
relativi all’affidamento eterofamiliare
Pag. 27 2.
La
legislazione psichiatrica
piemontese: la ricomparsa
dell’affido familiare Pag. 33 3.
L’inserimento
eterofamiliare nei DSM italiani: un tentativo di censimento svolto
nel 1999/2000 dal Dr. Aluffi
Pag. 34 CAPITOLO
4: L’AFFIDAMENTO ETEROFAMILIARE IN EUROPA
1.
Storia e differenze di stile
Pag. 37 2.
Accueil Familial Thérapeutique
Pag.
41 3.
Psychiatrische
Familienpflege: il progetto di Ravensburg dell’Associazione
Arkade
Pag.
46 CAPITOLO
5: UNA RICERCA SULLA DIFFUSIONE DELL’AFFIDO ETEROFAMILIARE NEI DSM
PIEMONTESI NEL 2006
1.
Obiettivi e caratteristiche della ricerca
Pag. 56 2. Descrizione dei risultati Pag. 60 3.
Analisi
dell’attività dei
servizi pubblici
in cui
è attivo un progetto per gli
affidamenti eterofamiliari
Pag. 73 3.1
Il progetto “A
bordo con noi” del DSM
dell’ASL 10
Pag.
73 3.2 Il Servizio IESA del DSM
5b dell’ASL 5
Pag.
86 3.3
Il progetto “Una pazza idea!! Accogli un ospite” del
DSM dell’ASL 7
Pag.
98
Il progetto di accoglienza
familiare del DSM dell’ASL 8
Pag. 106
Il
progetto di affidamento
eterofamiliare del DSM dell’ASL 18
Pag.
114 4.
La
Cooperativa Sociale Alice nello specchio e le Crisis
Farm Pag. 120 5.
Il progetto di affido
familiare per tossico-alcoldipendenti
“L’ho sentita casa mia” del Ser.T. dell’ASL 21
Pag.
133 6.
Altre esperienze di
affidamento eterofamiliare
Pag. 136 7.
Conclusioni
Pag.
141 8.
Allegati
Pag. 147 BIBLIOGRAFIA
Pag.
163 RINGRAZIAMENTI
Pag.
166 La perdita di competenze
sociali risulta così inevitabile: la cura della propria persona
diviene scarsa o assente, l’abbigliamento trascurato, si manifestano
difficoltà nel trovare o mantenere un lavoro, nel tenere in ordine la
casa, diminuiscono o si annullano le attività e gli interessi
ricreativi, si è incapaci di mantenere nonché di stringere legami
affettivi, si trascorre la maggior parte del tempo soli, in casa,
senza far nulla. La diminuzione della
capacità della persona di far fronte alle richieste legate ai ruoli
interpersonali, sociali e lavorativi e il conseguente stato di bisogno
ad ampio raggio che ne deriva, sono stati e sono oggetto di intervento
specifico da parte dei servizi socio-sanitari, i quali promuovono
interventi che vedono al centro la persona nella sua unicità (Spisni
L., in op.cit.). Si può superare
l’esclusione sociale con l’aiuto degli operatori dei servizi
psichiatrici territoriali, ai quali è affidato il compito
fondamentale di aiutare la persona a tessere la propria rete,
portandola ad avere un sostegno naturale, una maggiore autonomia ed
integrazione nel tessuto sociale. L’operatore che sceglie di
effettuare una “presa in carico diversa” (Ferrario F., 1992), deve
connettersi con le risorse presenti sul microterritorio del soggetto,
facendo da tramite per la creazione di nuove relazioni significative. Tra le risorse che
possono essere impiegate per aiutare il malato psichico a reinserirsi
nella comunità locale vi è l’affidamento eterofamiliare, grazie al
quale il soggetto viene accolto da una famiglia, diversa da quella di
origine, che svolge il ruolo di “facilitatore sociale”, che
garantisce sostegno affettivo, aiuto concreto nello svolgimento delle
attività della vita quotidiana ed incoraggiamento a proseguire il
percorso riabilitativo. 3.
La
rivalutazione della famiglia: da famiglia patogena a risorsa sociale L’individuo è
un’unità complessa, ed è altresì parte di un sistema, quello
familiare, che ne connota l’identità e ne modifica la stessa
personalità. La persona rappresenta infatti il prodotto e la sintesi
di forze intrapsichiche, di eredità congenite e di influenze
familiari; il suo comportamento è stato inteso come direttamente e
inversamente proporzionale all’immagine che la famiglia ha di sé,
condizionata dall’immagine che della famiglia ha la società. È
dalla famiglia che l’individuo trae il suo nutrimento fisico e
culturale, l’insegnamento (amare, pensare, riflettere, ecc.),
l’identificazione con se stesso e con il gruppo, il suo divenire
“essere sociale“ (Rovai B., in Dizionario di Servizio Sociale,
2005). La presenza di un
congiunto affetto da una malattia mentale ha un profondo effetto
disgregante sulla vita della famiglia, la quale si trova ad affrontare
la necessità di provvedere alle esigenze del membro malato, ma al
tempo stesso deve sanare i conflitti inevitabili che sorgono tra i
membri “sani”, il tutto in un’atmosfera densa di confusione,
senso di colpa e solitudine. Per i genitori, ed in misura minore anche
per gli altri famigliari, il sentimento di colpa costituisce un
ostacolo comune e molto difficile da superare, prima di riuscire ad
affrontare la situazione. Tale sentimento nasce dalla nozione comune,
benché errata, che l’instabilità mentale del figlio sia prodotta
invariabilmente da genitori instabili, cattivi o quanto meno
incompetenti. Il sentimento di colpa può gravare anche su mogli,
mariti, figli e fratelli, è tipica in loro l’idea di aver provocato
la malattia del congiunto con una trascuratezza o con qualche loro
comportamento. I familiari cercano spiegazioni per la malattia anche
in altre direzioni, a parte il loro comportamento, e spesso prevalgono
sentimenti di collera verso il congiunto malato, poiché si ritiene
che finga la malattia per manipolare gli altri. Inoltre l’ansia, la
paura per il futuro sono sensazioni sempre presenti e divoranti: c’è
preoccupazione per cosa avverrà oggi e soprattutto per cosa accadrà
in futuro, quando chi assiste il malato mentale non potrà più
occuparsene. Figli e fratelli si preoccupano per la possibilità che
l’onere del malato possa passare a loro, e ciò provoca sovente un
grande risentimento verso il congiunto che ha esaurito le energie
della famiglia, che non è stato in grado di ricoprire il ruolo che
gli spettava, che li ha messi più volte in imbarazzo con il suo
comportamento alterato, che diventerà un peso nell’età adulta,
quando dovranno badare anche alle proprie famiglie. Avere un familiare
malato di mente provoca, quindi, sentimenti molto forti nei membri
della famiglia, va ad intaccare pericolosamente equilibri e ruoli
personali (Bernheim K., Lehman A.,1987).
Durante l’epoca
manicomiale i pazienti venivano allontanati dalle loro famiglie, le
quali avevano avuto in precedenza la quasi totale responsabilità
dell’assistenza. Le famiglie venivano specificamente scoraggiate dal
fare visite nel manicomio. Tale politica nasceva dal presupposto che i
genitori in qualche modo erano stati incapaci di trasmettere adeguati
valori morali ai figli affetti da malattia mentale, e pertanto essi
avevano contribuito alla loro anormalità. Si riteneva anche che il
contatto emotivo con le famiglie potesse produrre nei pazienti periodi
di crisi acuta. Così le famiglie erano incolpate in parte per la
malattia dei familiari ed escluse dalla loro assistenza (Bernheim K.,
Lehman A., op.cit.). Con la chiusura dei
manicomi i malati psichici rientrano nelle loro famiglie, le quali
tornarono ad essere il luogo di vita del malato e pertanto a rivestire
un ruolo fondamentale nella sua cura e riabilitazione. Dopo il periodo
di messa all’indice delle famiglie come generatrici di patologie,
ritenute incompetenti perfino rispetto all’educazione dei figli e
alla loro introduzione alla realtà, famiglie orientabili solo grazie
all’intervento di servizi competenti, perché informati da ideologie
centralistiche, si assiste ad un ritorno alla valorizzazione delle
famiglie come risorse, al passaggio dalla famiglia patogena ed
incompetente alla famiglia come luogo risanante (Campisi P., in Atti 2°
Conv. Naz. IESA, Lucca 2001.). Ma il nucleo familiare di
origine non sempre è presente, e anche se è presente non è detto
che sia disposto a prendersi cura del malato psichico, collaborando
con i servizi, rendendosi parte attiva ed integrante del progetto
terapeutico. Un nucleo familiare espulsivo può essere peggio di un
nucleo familiare assente. In queste situazioni
l’accoglienza in una famiglia diversa da quella di origine
rappresenta una chance terapeutica per la persona sofferente di
disturbi psichici, la quale ha bisogno di relazioni significative,
attraverso cui percepire le proprie capacità e potenzialità da poter
mettere a servizio della comunità. Chi si sente socialmente utile
cresce in autostima, allarga il proprio repertorio comportamentale e
accresce il senso della propria dignità (Ferrario F., 1992).
Accogliere soggetti con disturbi psichici in famiglia può sembrare
improbabile, perché si ritiene che questi abbiano soprattutto bisogno
di cure mediche, di farmaci, di psicoterapie, dimenticando che sono
persone con gli stessi bisogni di affetto, di normalità e di senso di
tutti gli uomini. E comunque la gestione della salute mentale è
impegno troppo serio per delegarlo ai soli psichiatri, serve il
contributo di tutte le risorse sociali, famiglie comprese (Campisi P.,
in op.cit.).
I non professional possono raccogliere la sfida di accogliere
nelle proprie case coloro che un tempo venivano definiti “folli” e
che sovente la medicina psichiatrica con la sua logica ospedaliera non
riusciva a curare. Nel 1821 Esquirol, allievo di Pinel, che stava
inventando la psichiatria, venne mandato da Parigi a vedere quel che
succedeva a Geel, qualcosa che minacciava di mettere in crisi
anticipata la nascente psichiatria. “È incredibile” ammette
Esquirol “i due terzi della popolazione a Geel sono matti ma girano
liberamente per la campagna senza che gli altri ne abbiano paura”.
Esquirol, intellettuale illuminista francese, si inchina di fronte al
prodigio compiuto da contadini ignoranti e analfabeti. Il folle
percepisce chi lo accoglie e lo accetta e lo valorizza per quello che
è prima di tutto come persona, che è ben oltre la sua malattia (Ramonda
G. P., in Atti
1° Conv. Naz. IESA, Torino 2000). 4.
I processi terapeutico
riabilitativi attivati dall’affidamento eterofamiliare In ogni
persona esistono delle risorse che possono essere sviluppate se,
all’interno dell’ambiente sociale e familiare di riferimento,
trovano un terreno favorevole. Attraverso l’accoglienza in famiglia, con
le sue dinamiche relazionali e le sue possibili figure di
identificazione e di attaccamento, hanno luogo quell’integrazione e
quella possibilità di sviluppo e di riscatto che rendono possibile
all’ospite il recupero di un ruolo, di un’identità nuova. L’ex
paziente di comunità si trova così a ritornare ed essere un
cittadino con un proprio spazio privato, con il proprio nome sul
campanello e sulla buca delle lettere, con le sue figure di
riferimento sane e, finalmente, non rappresentate da professionisti
della psichiatria, inevitabilmente causa di relazioni asimmetriche e
artificiose (Aluffi G, in
Animazione Sociale, Novembre 2001). La famiglia ospitante svolge anche una
funzione di “nido” e protezione importantissima nelle fasi più
critiche del percorso di autonomizzazione. Tale rassicurante
contenimento ha in sé la fondamentale caratteristica della
flessibilità, che consente di modulare l’intensità e il grado di
protezione a seconda delle reali e contingenti necessità del
paziente. Inoltre talvolta la famiglia si rivela uno spazio ove
riacquistare un ruolo significativo per la costellazione di
appartenenza, in questo modo persone anziane si trovano a ricoprire
particolari ruoli sociali, come quelli del nonno o della nonna
“adottivi” con tutte le implicazioni affettive e relazionali che
ciò comporta (Aluffi G., in op.cit.).
Secondo il Dr. Aluffi i processi terapeutico
riabilitativi attivati dall’affidamento eterofamiliare si possono
riassumente nei seguenti punti: §
Costruzione di rapporti
interpersonali con riduzione della “distanza affettiva”. Questo
effetto, frutto della positiva “mobilizzazione dell’affettività”
scaturita nell’ospite, rende possibile il passaggio da relazioni
regolate da abitudini (situazioni caratterizzanti le istituzioni
chiuse) a rapporti interpersonali regolati da affettività autentica. §
Miglioramento delle
competenze sociali, crescita dell’autonomia e delle relazioni
sociali, grazie al naturale apporto di stimolo e sostegno offerto dai
legami intrafamiliari. §
Possibilità di
sperimentare, attraverso l’ambiente familiare, un nuovo tempo e
luogo di maturazione e crescita, possibilmente meno fallimentare del
precedente, che dia modo di realizzare una sana e graduale separazione
dalle figure genitoriali di riferimento. La famiglia assume così la valenza di
“ambiente terapeutico” attraverso un’opera di supporto e
strutturazione. Il supporto si esprime attraverso l’aiuto nello
svolgimento degli atti quotidiani, la possibilità di sperimentare
esperienze che migliorino il senso del reale, la stimolazione di una
realistica e sensata comunicazione con l’altro, l’attenuazione
delle paure e la valorizzazione delle sensazioni di benessere, il
risvegliare le capacità di iniziativa, di produttività e
rinforzarle, aumentando il rispetto per se stessi. Gli elementi che
favoriscono la strutturazione possono essere per esempio l’aiuto nel
pianificare l’organizzazione della giornata, l’aiuto nello
svolgere le ordinarie faccende di casa, lo stimolare attività di
gruppo o individuali nel tempo libero, ecc. (Aluffi G., op.cit.). La
Dr.ssa Re e la Dr.ssa Del Soldato, referenti del gruppo affidi del DSM
dell’USL 2 di Lucca, identificano nei seguenti punti gli indici di
miglioramento del paziente psichiatrico accolto in famiglia: §
maggiore
autonomia e sicurezza nel muoversi nell’ambiente circostante; §
riemergere
di una progettualità su se stessi, più realistica rispetto alle
proprie risorse sia materiali che psicologiche; §
inserimento
graduale nella rete sociale della famiglia affidataria e nel gruppo
parentale della stessa; §
disponibilità
a parlare dei propri vissuti e a verbalizzare alcuni desideri; §
minor
numero di ricoveri e riduzione dei farmaci. Il
contesto relazionale in cui l’affidato viene a trovarsi è
assimilabile a quello fornito dalla famiglia di origine per quanto
attiene caratteristiche aspecifiche quali la full immersion, la
stabilità ed il microgruppo. Ciò che rende il contesto relazionale
significativo è il fare insieme nella quotidianità, che implica una
vicinanza non solo fisica, ma anche emotiva. Il riassetto della sfera
emozionale comporta per il paziente una maggiore disponibilità al
contatto ed al confronto con gli altri. Gli affidatari divengono
modelli di riferimento importanti, figure intermediarie in grado di
innescare nel paziente processi di apprendimento di tipo assimilativo
ed imitativo, di consentirgli di contenere meglio le angosce e le
paure verso l’esterno, rinforzando comportamenti più adattivi
all’ambiente e socialmente più adeguati.
La famiglia affidataria funge da ambiente “sufficientemente
buono”, parafrasando Winnicott, aiuta la crescita dell’individuo,
poiché vivere in un contesto quotidiano solido, affidabile e vitale
consente di sperimentare sensazioni originarie di stabilità e
contenimento, che permettono di ripartire dal punto in cui il paziente
si era fermato al momento dell’esordio della malattia (Re
F. Del Soldato A., in Atti 2° Conv. Naz. IESA, Lucca 2001). Riflettendo
sul concetto di madre “sufficientemente buona” si comprende bene
il parallelismo con la famiglia che accoglie un paziente psichiatrico:
secondo Winnicott c’è qualcosa nella madre del neonato che la rende
particolarmente adatta alla protezione del figlio e che le permette di
rispondere positivamente ai concreti bisogni di questo. La sua capacità
non scaturisce tanto da una conoscenza, ma da un atteggiamento
istintivo che essa acquisisce man mano che la gravidanza avanza e che
fa si che essa sia la persona più idonea ad occuparsi dello sviluppo
del figlio. Le cure materne forniscono al bambino il sostegno fisico e
psicologico di cui ha bisogno, gli trasmettono un senso di sicurezza,
contengono le sue angosce e le sue paure (De Giorgi L., 1992).
Nella famiglia che accoglie si può
individuare un meccanismo analogo alla
“preoccupazione materna primaria” di Winnicott, tale per
cui la famiglia ha sovente la particolare capacità di comportarsi
“istintivamente” nel modo dovuto, di soddisfare i bisogni del
malato psichico, di contenere
meglio le sue angosce e le sue paure verso l’esterno, di assicurargli maggior
stabilità e sicurezza. Infine non dobbiamo dimenticare che non è
solo la famiglia affidataria ad essere terapeutica per il paziente, ma
spesso è lo stesso paziente ad essere terapeutico per la famiglia.
Alcuni dei risvolti positivi dell’accogliere un malato psichiatrico
in casa sono riconducibili al riempimento del “nido vuoto”, cioè
quella fase del ciclo di vita familiare in cui la coppia sopra i 50
anni, i cui figli sono ormai da tempo fuori casa, ha spazio sia fisico
che mentale ed emotivo per occuparsi di qualcun altro a tempo pieno.
Per questo tipo di famiglie il paziente rappresenta un progetto comune
al quale lavorare insieme, conferisce un senso, “colora” la
relazione di coppia. In altri contesti, in cui le storie familiari
sono caratterizzate da vissuti di sofferenza legati a perdite, la
persona accolta può assumere invece una funzione riparativa. La
famiglia sperimenta comunque azioni positive di gratificazione e
soddisfazione, entra in relazione empatica con qualcuno che ne ha
bisogno. Inoltre talvolta
accade che toccare con mano la sofferenza altrui ridimensioni in
qualche modo la visione ed il vissuto delle difficoltà personali,
confermando la possibilità di crescita attraverso il confronto e la
partecipazione. 3.
L’affidamento eterofamiliare in Italia: storia ed attualità 1.
Dalla normativa
manicomiale alla legge 180: il superamento dell’istituzione totale e
la perdita di specifici riferimenti normativi relativi
all’affidamento eterofamiliare Già
agli inizi del ‘900 la legislazione psichiatrica italiana prevedeva
la possibilità di accogliere in famiglia un “alienato”, seppur
con finalità e strumenti diversi rispetto ad oggi. In
quegli anni la tranquillità sociale era considerata l’interesse
primario da tutelare, era fondamentale vivere in una società sana, di
buoni principi e profondamente religiosa. Per questo gli infermi che venivano
rinchiusi nei manicomi spesso erano coloro che non vivevano secondo le regole
dominanti della cultura e della società di riferimento, che non si
comportavano in modo sano, che non rispettavano i principi morali e
della dottrina religiosa. L’alienato era
un potenziale delinquente,
un individuo colpito da un male inguaribile, aberrante, mostruoso e
disumano, perciò doveva essere isolato dalla società civile, per
permettere a quest’ultima di mantenere il proprio equilibrio.
L’alienato non era un malato, la cui patologia necessita di cure e
prevenzione, ma piuttosto un criminale, un individuo pericoloso per sé
e per gli altri (Stanzani D., Stendardo V., in Diritto&Diritti, Novembre 2001). L’articolo
1 della legge manicomiale n. 36 del 1904 dettava le seguenti
disposizioni: “Debbono essere custodite e curate nei manicomi le
persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando
siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e
non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate
fuorché nei manicomi. Sono compresi sotto questa denominazione, agli
effetti della presente legge, tutti quegli istituti, comunque
denominati, nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque
genere”. Fin dal primo articolo emerge chiaramente
che la finalità della legge manicomiale è garantire la sopravvivenza
dell’alienato e soprattutto la difesa della società. L’ammissione
degli alienati nei manicomi poteva infatti essere chiesta, oltre che
da parenti e tutori, da chiunque nell’interesse degli infermi e
della società. Il
malato doveva essere internato poiché pericoloso per sé stesso e per
gli altri, inoltre era fonte di pubblico scandalo. La preoccupazione del legislatore per
l’incolumità della società, vista come soggetto collettivo da
proteggere e difendere dalla pericolosità degli alienati, percorre
tutta la normativa. A conferma di ciò l’articolo 2 della suddetta
legge stabiliva che l’autorità locale di pubblica sicurezza, quindi
non una figura sanitaria, poteva, in caso di urgenza, ordinare il
ricovero in manicomio, in via provvisoria, in base ad un certificato
medico. L’autorità di pubblica sicurezza era obbligata a riferire
del ricovero al procuratore del re, il quale poteva autorizzarlo in
via provvisoria; l’ammissione degli alienati nei manicomi era
autorizzata in via definitiva dal tribunale in camera di consiglio, su
istanza del pubblico ministero in base alla relazione del direttore
del manicomio. I commi secondo e terzo dell’art. 1
della legge 36 del 1904 prevedevano quanto segue: “Può
essere consentita dal tribunale, sulla richiesta del Procuratore del
Re, la cura in una casa privata, e in tal caso la persona che le
riceve e il medico che le cura assumono tutti gli obblighi imposti dal
regolamento. Il direttore di un manicomio può sotto
la sua responsabilità autorizzare la cura di un alienato in una casa
privata, ma deve darne immediatamente notizia al procuratore del re e
all'autorità di pubblica sicurezza”. Dunque la cura in una casa privata
costituiva un’alternativa all’internamento in manicomio. Anche in
questi due commi il legislatore mette in risalto il ruolo
dell’autorità di pubblica sicurezza, inoltre si preoccupa di
sottolineare la responsabilità che si assume il direttore di un
manicomio autorizzando la cura di un alienato in una casa privata.
L’esigenza di ricorrere
all’accoglienza familiare partiva dalla situazione limite in cui
versavano in quegli anni i manicomi italiani, ridotti a contenitori
pronti ad “esplodere” da un momento all’altro per eccesso di
ricoverati. Inoltre i costi di gestione degli stabilimenti
rappresentavano per le province un eccessivo carico in molti casi
insostenibile (Aluffi G., in op.cit.). Il regio decreto n. 615 del 1909
regolamentava in maniera dettagliata la cura degli alienati nelle case
private. In primo luogo all’articolo 2 viene specificato che per
case private si devono intendere tutte quelle case, esclusa la casa
propria dell’alienato o della sua famiglia, che, senza essere
organizzate a stabilimento, ricevono uno o due alienati. L’articolo
14 del suddetto decreto indica i requisiti che venivano richiesti alla
famiglia per poter accogliere presso la propria abitazione un malato
psichico: §
la salubrità della
casa, la sua capacità di ricevervi convenientemente l’alienato e
l’adatta disposizione degli ambienti; §
l’ubicazione della
casa, che doveva essere fuori dai centri abitati ed avere
possibilmente una sufficiente estensione di terreno annesso; §
la possibilità che
l’alienato fosse adibito a qualche lavoro preferibilmente agricolo; §
la composizione della
famiglia ed i lavori in cui essa era occupata dovevano consentire
all’alienato di poter avere la dovuta cura ed assistenza; §
la buona condotta e la
moralità dei componenti della famiglia. È interessante notare come alcuni di
questi requisiti siano piuttosto simili a quelli richiesti oggi dai
DSM alle aspiranti famiglie affidatarie. In riferimento alla casa, la disposizione
dei locali, la sensazione di accoglienza che possono o meno
trasmettere, la possibilità per l’ospite di usufruire di una stanza
ad uso esclusivo sono requisiti fondamentali affinché lo spazio
domestico sia idoneo ad accogliere, sia fisicamente che emotivamente,
un paziente psichiatrico. Già il regolamento di esecuzione della
legge manicomiale prevedeva alcune di queste caratteristiche relative
alla casa (salubrità, capacità di ricevervi convenientemente
l’alienato, adatta disposizione degli ambienti), aggiungendo però
che quest’ultima doveva essere al di fuori dai centri abitati,
presumibilmente per non turbare la quiete pubblica. Naturalmente oggi
la lontananza dai centri abitati non è più un requisito necessario,
anzi, spesso si privilegiano famiglie che abitano in zone vicino a
negozi, supermercati, fermate di autobus, proprio per evitare che il
paziente perda quelle poche abilità che ha acquisito nel tempo grazie
al supporto degli operatori. La disponibilità di ampi spazi di
terreno rimane oggi un elemento positivo, soprattutto se accompagnata
dalla presenza di animali di cui la persona si può occupare. La possibilità per il paziente di essere
coinvolto nella gestione dell’attività della famiglia (negozio,
circolo ricreativo, coltivazione o altro) è sicuramente stimolante ed
arricchente, ma non strettamente necessario. È invece indispensabile
che la famiglia abbia tempo da dedicare alla persona, che sia in grado
di sostenerla e coinvolgerla nelle piccole attività quotidiane. Oggi
come allora non sarebbe pensabile un affidamento ad una famiglia che
trascorre la maggior parte della giornata fuori casa, lasciando
l’ospite solo tutto il giorno, poiché si perderebbe il senso
dell’esperienza e soprattutto la sua valenza terapeutica. Lo stesso decreto di esecuzione della
legge manicomiale sottolineava che la composizione della famiglia e le
attività lavorative da essa svolte dovevano consentirle di prendersi
adeguatamente cura dell’alienato e di fornirgli adeguata assistenza. L’articolo 13 del suddetto decreto
specificava altresì che non poteva essere autorizzata la cura in una
casa privata per più di due alienati. Attualmente gli operatori dei
DSM piemontesi che realizzano affidamenti familiari ritengono che di
norma la famiglia possa accogliere un solo paziente, solo in casi
particolari, nei quali è necessario prendere in carico una coppia
(madre e figlio, marito e moglie, fratello e sorella, ecc.), si può
pensare all’affidamento di due persone ad uno stesso nucleo
familiare. Infine il regio decreto n. 615 del 1909,
all’articolo 16, prevedeva che il Direttore del manicomio potesse
istituire speciali corsi teorico pratici per coloro che intendevano
ricevere alienati nella propria casa. Allo stesso modo, seppur con
contenuti ed obiettivi differenti, la legge regionale piemontese di
riferimento per l’affidamento familiare, D.C.R.
n. 357-1370 del 28.01.1997, stabilisce che la famiglia
affidataria, per poter accogliere una persona sofferente di disturbi
psichici, deve aver frequentato un apposito corso di formazione
organizzato dal DSM. Come riporta il Dr. Aluffi, da una statistica ministeriale emerge che nel 1902 in Italia vi erano 268 alienati assistiti in famiglia (150 a Firenze, 20 tra Reggio Emilia e Modena, 31 a Lucca, 12 a Perugia, 21 ad Ancona e 33 a Siena). Allora nel nostro paese era anche molto diffuso l’inserimento omofamiliare, ovvero i parenti biologici del paziente venivano pagati per tenerselo a casa. Questa modalità venne però respinta dalla comunità scientifica e gradualmente estinta, in quanto la monetarizzazione della patologia del congiunto poteva contribuire indirettamente alla cronicizzazione della malattia, la quale si trasformava da disgrazia a risorsa economica per la famiglia (Aluffi G., op.cit.). Dopo
la legge manicomiale del 1904 venne emanata la seconda legge
psichiatrica italiana, la legge n. 431 del 1968, la quale cambiava la
denominazione dei manicomi in ospedali psichiatrici, con non più di
cinque divisioni, ciascuna con non più di 125 posti letto. Se si pensa che i grandi manicomi
arrivavano a contenere dai 3000 ai 5000 posti letto, si trattava di
una drastica riduzione, solo in parte attuata. Riguardo al personale
per la prima volta si prevedeva la figura dello psicologo e si
definiva il rapporto di un infermiere ogni tre posti letto. La legge Mariotti del 1968
inoltre prevedeva l’istituzione, da parte delle province, dei Centri
di igiene mentale con medici psichiatri, psicologi, assistenti
sociali, personale infermieristico ed ausiliario. Veniva inoltre
introdotta la possibilità di ricovero volontario, su richiesta del
malato e previa autorizzazione del medico di guardia. Infine si
abrogava l’annotazione dei provvedimenti di ricovero degli infermi
mentali nel casellario giudiziario. Le
normative oggi vigenti in Italia in materia di salute mentale vedono
come elemento centrale di riferimento la legge n. 180 del 1978,
successivamente recepita nell’ambito della riforma sanitaria,
dettata dalla legge n. 833 sempre del 1978. Si tratta di norme che
hanno cambiato radicalmente la vecchia legislazione manicomiale, dalla
quale emergeva la preoccupazione del legislatore di garantire la
sopravvivenza del malato e la difesa della società. La
nuova legge psichiatrica nasce sull’onda dei movimenti del
sessantotto, in quel periodo un gruppo di psichiatri, di psicologi e
di sociologi, il cui leader era lo psichiatra Basaglia, elaborò la
teoria secondo cui la malattia mentale non esiste in sé, ma è un
prodotto dell’ambiente, cioè della famiglia e della società
capitalistica. Lo stesso ospedale psichiatrico veniva visto come
perpetuatore e peggioratore di transitori malesseri psichici,
malesseri che sarebbero spariti inserendo il malato in una società più
giusta. La
legge 180 ha rivoluzionato la teoria e la pratica della psichiatria
italiana, prevedendo che gli interventi di prevenzione, cura e
riabilitazione siano attuati di norma da servizi e presidi
psichiatrici extraospedalieri e, solo in caso di crisi acuta, dai
Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, collocati all’interno di
ospedali generali e collegati organicamente e funzionalmente, in forma
dipartimentale, con gli altri servizi psichiatrici del territorio.
La
nuova legge psichiatrica prevede di norma la volontarietà dei
trattamenti sanitari e solo eccezionalmente l’obbligatorietà di
questi ultimi, esclusivamente in caso di alterazioni psichiche tali da
richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengono
accettati dall’infermo e se non vi sono le condizioni e le
circostanze che consentono di adottare tempestive ed idonee misure
sanitarie extraospedaliere. L’articolo 1 precisa che gli
accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori devono essere
effettuati nel rispetto della dignità del paziente psichiatrico e dei
diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per
quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo
di cura. Inoltre viene
disposta la chiusura degli ospedali psichiatrici, vietando di
costruirne di nuovi e di utilizzare quelli esistenti come divisioni
specialistiche psichiatriche di ospedali generali.
I
principi che stanno alla base della legge psichiatrica italiana sono
profondamente innovativi, in quanto prevedono il superamento delle
istituzioni totali ed il reinserimento del malato psichiatrico nel
tessuto sociale, tentando in questo modo di combattere lo stigma e
l’emarginazione cui da sempre i sofferenti psichici sono sottoposti.
Purtroppo
però con la legge 180 si perde anche ogni specifico riferimento
normativo nazionale relativo all’affidamento eterofamiliare. Si
dovranno attendere 20 anni prima che, in Piemonte, una disposizione
relativa agli standards strutturali e organizzativi del Dipartimento
di Salute Mentale preveda nuovamente questa tipologia di intervento. 2.
La legislazione psichiatrica piemontese: la
ricomparsa dell’affido familiare La legge psichiatrica nazionale assegna
alle regioni il compito di definire ed organizzare i servizi
psichiatrici territoriali che fanno capo al Dipartimento di Salute
Mentale. È proprio a livello di fonti regionali che ricompare in anni
relativamente recenti una normativa, seppur minima, relativa
all’affidamento familiare. La
Deliberazione del Consiglio Regionale del Piemonte n. 357-1370 del
28.01.1997, all’allegato C, infatti prevede, fra gli interventi
alternativi al ricovero e all’inserimento in strutture residenziali
protette, anche l’affido familiare. Il testo della legge dispone
quanto segue: ”In via sperimentale per tutto il periodo di
valenza del nuovo Piano Sanitario Regionale, il DSM può prevedere
l’affido familiare di pazienti psichiatrici. Per tali finalità è
previsto un sostegno economico da erogare alla famiglia affidataria.
La famiglia affidataria deve essere individuata dal medico
responsabile del progetto terapeutico/riabilitativo del paziente; deve
aver frequentato un apposito corso di formazione organizzato dal DSM.
L’efficacia di tale percorso deve essere costantemente verificata
dal DSM. L’affidamento familiare si configura come
terapeutico/riabilitativo, pertanto di esclusiva competenza
sanitaria”. Il
Prof. Herny, al tempo responsabile per il superamento del manicomio di
Grugliasco e sostenitore degli affidamenti eterofamiliari, in una
intervista rilasciata due anni dopo l’emanazione della sopraccitata
legge regionale afferma “Il caso di Geel è molto interessante perché
dimostra ante litteram come i non professional possano ottenere
risultati migliori dei professional e come il potere medico si difenda
per paura di perdere il monopolio sulla follia. Se andiamo a leggere
la recente delibera della regione Piemonte sugli affidamenti
familiari, nell’ultimo paragrafo sta scritto che occorre
sperimentare. Ma punto primo: il Dipartimento di Salute Mentale deve
organizzare i corsi per gli affidatari (l’idea è li colonizziamo
noi); punto secondo: la scelta delle famiglie va fatta dallo
psichiatra responsabile del servizio. Duecento anni dopo pare
ripetersi per l’affidamento familiare la paura degli psichiatri di
perdere il monopolio egemonico sulla malattia mentale” (Henry P., in
Animazione sociale, Marzo 1999). Secondo il Dr. Cébula, esperto di Accueil
Familial Thérapeutique e formatore delle famiglie d’accoglienza,
quando si interviene sulle famiglie ospitanti bisogna far attenzione a
non esportare su di loro delle tecniche o delle modalità operative
che, una volta esportate, perderebbero automaticamente la propria
terapeuticità. Le famiglie devono essere “abituate” ad essere
famiglia di accoglienza, quindi lo scopo della formazione è di
aiutarle a rimanere anzitutto se stesse. Riprendendo le esatte parole
di Cébula possiamo dire che la raccomandazione che gli operatori
dovrebbero fare a coloro che si apprestano a diventare famiglia
ospitante è “Siate professionisti, restate voi stessi” (Cébula
J.C., in Atti 1° Conv. Naz. IESA, Torino 2000). 3.
L’inserimento
eterofamiliare nei DSM italiani: un tentativo di censimento svolto nel
1999/2000 dal Dr. Aluffi[3] Nel settembre 1999 il Dr. Aluffi,
coordinatore del servizio IESA (Inserimento Eterofamiliare Supportato
di Adulti sofferenti di disturbi psichici) del DSM 5b ASL 5 di
Collegno, aveva avviato, in collaborazione con una tesista,
un’indagine nazionale, allo scopo di verificare quanti altri servizi
di inserimento eterofamiliare supportato, o simili, operano
effettivamente in Italia. Oltre a rilevare o meno la presenza di
servizi di questo tipo nei DSM italiani, l’indagine era altresì
volta a sondare se i relativi Direttori di Dipartimento fossero al
corrente dell’esistenza di questa modalità e della sua diffusione e
se eventualmente fossero interessati ad avviare in futuro servizi
analoghi. Il
progetto è stato realizzato inviando a 224 responsabili di
altrettanti Dipartimenti di Salute Mentale (o simili) una lettera di
presentazione dell’iniziativa con contenuti informativi rispetto
allo IESA ed un modulo di reperimento dati. La risposta si è
concretizzata in 91 schede, correttamente compilate, ricevute. I
risultati emersi da questo campione parziale rilevano comunque, in
maniera sufficientemente completa, la presenza di altri servizi
analoghi allo IESA presso i DSM italiani. Probabilmente mancano
all’appello alcune situazioni di inserimento eterofamiliare gestite
dal privato sociale ed offerte trasversalmente ad ASL diverse. Sulle
91 risposte pervenute, 79 testimoniano l’inesistenza di un’attività
IESA o simile presso il DSM. Di questi 79 dipartimenti ben 72 sono
interessati ad avviare un’attività o un servizio IESA. Rispetto
alla conoscenza di esperienze simili in passato nell’area di
appartenenza, solo 11 hanno risposto affermativamente, mentre la
conoscenza in merito ad esperienze all’estero o in altre zone
italiane, è riportata da 38 moduli. Le
ASL in cui risulta attivo un servizio IESA, o simile, negli anni
1999/2000 sono indicate dalla seguente tabella, tratta dalla relazione
del Dr. Aluffi al 1° Convegno Nazionale sullo IESA, tenutosi a Torino
nel 2000. Status
quo dello IESA in Italia nel 1999/2000
Inoltre
presso la ASL 4 DSM Torino e la ASL 21 DSM Casale Monferrato, in
passato (quindi prima degli anni 1999/2000) era presente un’attività
IESA. Infine all’ASL 10 DSM Pinerolo in quegli anni il progetto era
ancora in fase di studio. Le regioni apparentemente più sensibili
allo IESA sembrano essere il Piemonte e la Sardegna. Mentre in
Piemonte sono esclusivamente i servizi sanitari a farsi carico dei
costi e dell’organizzazione degli inserimenti eterofamiliari, in
Sardegna questi vengono gestiti da un sistema misto
sanitario/socio-assistenziale. Per
cercare di verificare se i dati emersi potevano essere considerati una
fotografia sufficientemente completa della situazione nazionale in
merito all’inserimento eterofamiliare supportato, è stato
individuato un campione random all’interno dei DSM che non avevano
risposto all’iniziativa. Sono stati contattati, attraverso
interviste telefoniche o tramite fax, i 14 Direttori dei Dipartimenti
estratti, o loro delegati, i quali hanno risposto alle domande del
modulo. Il 100% del campione random non ha attività IESA
all’interno del proprio DSM. Questo dato rinforza l’ipotesi che i
DSM italiani presso i quali esiste un’attività simile allo IESA
possano coincidere con i 13 sopraelencati. Da
una ricerca realizzata dal servizio di Collegno alla fine del 2002,
emerge che, agli 11 servizi già attivi nel 2000, se ne sono aggiunti
altri 14 nell’arco dei due anni successivi. Questo dato è molto
incoraggiante per una futura diffusione dello IESA su scala nazionale
e testimonia l’importanza dei congressi scientifici, delle
pubblicazioni e di altre iniziative simili realizzate in quell’arco
di tempo (Aluffi G., in op.cit.).
4.
L’affidamento eterofamiliare in Europa 1.
Storia e differenze di
stile[4] Quando si parla si affidamento eterofamiliare per pazienti psichiatrici non si può non citare lo storico esempio della cittadina belga di Geel (Cfr. Cap. 1 par. 1). Oltre a Geel, anche Lierneux vanta un servizio, organizzato in forma di Colonia di pazienti, attivo dal 1884. Ma Geel e Lierneux rappresentano oggi solo 1 dei 4 tipi di inserimento eterofamiliare per adulti in Belgio, cioè l’affidamento ospedaliero, che costituisce un’alternativa extramurale a lunghe degenze in clinica, organizzato dagli stessi ospedali psichiatrici, con obiettivi terapeutici. Il secondo tipo di affidamento, dipendente dalle tre comunità linguistiche, è denominato “Fonds 81“, è destinato ad handicappati fisici e mentali e da poco tempo anche ai malati mentali. L’équipe “Fonds 81“ si occupa di inserire il paziente nella famiglia e di garantire il proprio supporto. Questo modello fa ricorso alla clinica solo in casi estremi. Il terzo tipo di affidamento è detto “CPAS” ed è organizzato dai centri pubblici di aiuto sociale. è mirato ai casi sociali più drammatici ed è finanziato con i fondi del “CPAS”. Infine l’ultimo tipo è quello organizzato dai gruppi “L’Autre Lieu” e “Recherche - Action sur la Psichiatrie et les Alternatives” i quali ricevono sovvenzioni a diversi livelli (Comunità francese, Ministero dell’impiego e del lavoro, Città di Bruxelles). Si tratta di un inserimento eterofamiliare alternativo al ricovero, previsto per persone con difficoltà psicosociali temporanee. In Francia, tra il 1892 e il 1898, in conseguenza del crescente sovrappopolamento dei manicomi e della distruzione dei vitigni (per un’epidemia di fillossera) di una zona della Francia centrale ad economia agricola, vennero fondate le due Colonie di pazienti di Dun-sur Auron (per donne) ed Anay le Chateaux (per uomini). Qui i pazienti, inviati per la quasi totalità da Parigi (a 300 km di distanza), trovavano un ambiente rurale disposto ad accoglierli, una famiglia, un lavoro ed una rete sociale. Nel 1967, nell’ambito della psichiatria di settore, viene avviato il progetto del XIII Arrondissement de Paris, cioè un servizio di inserimento familiare che si distacca dal tipo Colonia di pazienti. Nel 1980 nasce l’Inserimento Familiare Psicoterapeutico della Loira Atlantica associazione Contadour, un servizio staccato dalla psichiatria pubblica. Oltre ai 3 esempi sopraccitati, la Francia si avvale di un gran numero di servizi di accueil familial. Per quel che riguarda l’affidamento eterofamiliare rivolto a pazienti psichiatrici adulti, si possono individuare due grandi categorie: § L’Accueil Familial Thérapeutique (Aft), che conserva all’ospite lo status di paziente, in quanto il posto letto nella famiglia è considerato un’appendice della clinica psichiatrica. Il paziente ed i suoi conviventi vengono periodicamente visitati dal personale dell’ospedale psichiatrico; § L’Accueil Familial Social (Afs), in cui l’ospite non è più un paziente ed il servizio di supporto risulta inesistente o, nei rari casi in cui c’è, si rivela carente. Negli USA il primo stato ad inaugurare un servizio di Family Foster Care è il Massachusetts nel 1882. Successivamente altri stati americani seguirono l’esempio del Massachusetts, così nel 1933 fu il momento di New York, nel 1935 fu la volta dell’Utah, nel 1941 toccò all’Illinois, alla California e al Maryland, nel 1942 al Michigan e così via. In diversi stati esiste una licenza per poter operare come sponsor o care giver, cioè colui/colei che all’interno della famiglia ospitante è responsabile dell’assistenza da prestare all’utente. Inoltre dal 1987 a Dane Country, all’interno del Crisis Home Program, è attivo un servizio di Family Care mirato a gestire i momenti di crisi. Qui i pazienti vengono accolti presso le famiglie abilitate soltanto per il periodo della crisi. Anche a Denver, dagli anni ’70, è in funzione un servizio simile, molto ben integrato all’interno dell’apparato territoriale. In Olanda le caratteristiche principali dell’inserimento eterofamiliare sono state rappresentate per molto tempo dalla Colonia di pazienti e dalla centralità dell’istituzione ospedaliera. Dopo la disposizione dell’ispettorato per la salute mentale del 1991, che ha di fatto tolto alle cliniche il monopolio sull’inserimento eterofamiliare di pazienti psichiatrici, questo è entrato a far parte dei “Servizi psichiatrici protetti”. Sembra che questo spostamento di competenze, dalle cliniche psichiatriche ai servizi territoriali, abbia dato il via ad un vivo mercato dell’affidamento familiare privato, caratterizzato da un’accanita concorrenza tra le varie associazioni, nel quale l’utente acquista un forte potere contrattuale, in quanto è diventato lui quello che decide a quale servizio assegnare il compito di organizzare e supportare il proprio inserimento eterofamiliare. L’esordio dell’affidamento eterofamiliare in Svizzera risale al 1909 e si colloca presso la Clinica Psichiatrica Universitaria del Burghölzli a Zurigo, nel cui cantone oggi è in funzione un servizio del tipo Appendice (centrato sull’ospedale) che segue pazienti inseriti in famiglia o in piccole pensioni. La definizione di Psychiatrische Familienpflege, contenuta nell’opuscolo pubblicato dal servizio del cantone zurighese, è “Assistenza di handicappati psichici in famiglie o pensioni, accompagnata da consulenza e assistenza professionali”. Il servizio viene finanziato dal paziente o da un suo garante, ed è gestito in base ad un preciso e dettagliato regolamento. Un’interessante esperienza è quella della fondazione Jonas, che dal 1981 offre aiuto a minori ed adulti con problemi psichici e sociali, attraverso un intervento psicoterapeutico suddiviso in due fasi. La prima è la più intensiva e consiste in un periodo da trascorrere presso la Haus Jonas, una sorta di comunità ad alta intensità terapeutica. Quando la persona termina il percorso previsto dalla prima fase, viene inserita presso una famiglia per un secondo periodo di trattamento che può durare da 1 a 2 anni. L’obiettivo è di autonomizzare e reintegrare nella società i soggetti in difficoltà. La Norvegia è da sempre il paese europeo con la più alta percentuale di pazienti psichiatrici assistiti al di fuori degli ospedali. L’inserimento eterofamiliare, basato sul tipo Dispersione, è presente fin dal 1800 ed in particolari momenti nell’arco della sua storia è arrivato ad essere la soluzione per più del 40% dei pazienti psichiatrici assistiti. Nei primi anni ’60, accanto all’affidamento eterofamiliare, si è aggiunta una forma di assistenza sul territorio chiamata Nursing homes, cioè una sorta di pensione gestita da marito e moglie (infermieri professionali) che ospitano persone sofferenti di disturbi psichici. In Svezia l’inserimento eterofamiliare fu avviato ufficialmente dallo Stato nel 1901, seguendo l’esempio di 2 paesini in cui vigeva già un servizio tipo Colonia di pazienti. Oltre a questa forma di affidamento, ne esisteva anche una tipo Appendice nei pressi del manicomio di Kristine-Hauer. Anche in Danimarca, intorno al 1816, nei pressi del nuovo Sanct Hans Hospital a Roskilde-Bistrupgaard, è segnalata la presenza di contadini i quali ospitavano presso le proprie fattorie alcuni malati mentali, secondo l’esempio di Geel. In Russia la prima esperienza di Colonia familiare risale al 1887 a Nikaulitsch, vicino al manicomio di Riasan. Anche in altre città (Riga, Ekaterinoslav, Veroniej-Devitzo, Mosca, Semenowskje, Alexieff ed altre) gli alienati vivevano presso famiglie ospitanti, le quali venivano controllate da un “sorvegliante” abitante nel loro stesso paese. In caso di bisogno il sorvegliante poteva contare sull’apporto dei medici del manicomio. Questo sistema oggi è scomparso. In Austria il primo servizio di Assistenza Familiare vede la luce nel 1898, presso il manicomio di Mauer Oehling, secondo le modalità del tipo Semiprofessionale. A questa esperienza ne seguirono molte altre, in particolare, dal 1949, è in vigore un servizio di inserimento eterofamiliare per pazienti psichiatrici organizzato dall’ospedale psichiatrico di Graz, nel quale i pazienti sono inseriti presso famiglie di agricoltori. In cambio del proprio lavoro l’ospite riceve piccole somme di denaro; inoltre annualmente vengono organizzate vacanze di durata quindicinale a cui partecipano gli operatori dell’ospedale, gli ospiti e le famiglie. In Scozia l’inserimento eterofamiliare può contare su un’antica e robusta tradizione basata sul tipo Dispersione. La legge per i malati mentali del 1857, invece di rafforzare l’egemonia dei manicomi, assegnò ai consigli parrocchiali la supervisione dei pazienti inseriti in famiglia. Questo servizio di inserimento eterofamiliare non prevedeva in sé prestazioni di intervento infermieristiche, perciò i pazienti, solo in caso di crisi acuta, venivano ricoverati in manicomio. Inoltre, intorno al 1879, un’associazione iniziò ad organizzare l’inserimento eterofamiliare per pazienti psichiatrici nei dintorni del Colney Hatsch Hospital, vicino a Londra, secondo le modalità del tipo Semiprofessionale. In Inghilterra si sviluppò poco l’affidamento familiare, tant’è che dal 1913 non ve ne è più alcuna traccia. In Finlandia invece è in funzione da molti anni un singolare servizio di inserimento eterofamiliare per pazienti psichiatrici “tranquilli” presso famiglie contadine di un paesino, Nickby, che dista 20 km da Helsinki. Per far fronte al sempre più grande numero di malati mentali, le autorità di Helsinki fecero costruire a Nickby un ospedale psichiatrico, il cui personale infermieristico proveniva dalla comunità contadina, e ciò conferiva alla clinica uno spiccato carattere familiare. Durante la seconda guerra mondiale, l’inserimento eterofamiliare in Polonia è stato garanzia di salvezza per molte vite umane. Tutti i pazienti che si trovavano ricoverati nei manicomi vennero uccisi in nome del programma promosso dal regime nazista. Solo coloro che in quel periodo erano ospitati presso famiglie riuscirono a scampare alla morte. L’inserimento eterofamiliare è ancora oggi diffuso secondo la modalità Appendice. 2.
Accueil
Familial Thérapeutique[5] In Francia, lo sviluppo dell’inserimento eterofamiliare degli adulti come pratica riconosciuta, è stato possibile grazie ad una legge votata il 10 luglio 1989, attinente l’inserimento presso dei privati, nel loro domicilio, a titolo oneroso, di persone anziane o handicappati adulti. Questa legge, che si applica su tutto il territorio nazionale, giunge ad inquadrare anche quelle pratiche antiche e spontanee di privati che accolgono, all’interno di una cornice familiare, persone anziane e handicappati fisici o mentali. Le disposizioni contenute in questa legge rendono obbligatoria per le famiglie l’abilitazione per poter accogliere, la stesura di un contratto fra le parti, il limite del numero di ospiti a due o tre, la messa in atto di programmi di supporto per gli ospiti e di formazione per le famiglie ospitanti da parte delle istituzioni pubbliche. Prima dell’emanazione della legge del 1989, era frequente che privati proponessero spontaneamente la loro accoglienza familiare a persone anziane o handicappate, senza che terzi istituzionali organizzassero e supportassero la convivenza. Le istituzioni pubbliche tuttavia non si opponevano in alcun modo al proliferare di queste offerte di alloggiamento e di aiuto, poiché, soprattutto alla fine degli anni ’80, la mancanza di posti letto negli ospedali si faceva sempre più preoccupante. Talvolta queste forme di aiuto ed accoglienza fornivano ascolto e conforto a persone affettivamente e fisicamente deboli, ma in molti casi potevano diventare contestabili modalità di alloggiamento ed isolamento. Questo perché l’accoglienza in famiglia si era sviluppata senza controllo, né interventi da parte dei poteri pubblici. Ma quando la diffusione dell’accoglienza spontanea divenne oltremodo ampia ed i problemi ad essa annessi insostenibili, si presentò la necessità di una regolamentazione. Così intervenne la legge 10 luglio 1989, la quale tentò di mettere ordine distinguendo fra due apparati: l’Accueil familial social e l’Accueil familial thérapeutique. In Francia, in passato, i malati psichiatrici hanno vissuto degli inserimenti in famiglia di tipo asilare, che si limitavano a spostare altrove la chiusura e l’isolamento dell’ospedalizzazione. Oggi invece, grazie all’Accueil familial thérapeutique, i malati mentali possono beneficiare degli effetti terapeutici che le famiglie ospitanti sono in grado di innescare, se adeguatamente supportate da un’équipe curante. L’accoglienza familiare offre a queste persone un entourage affettivo, prossimità relazionale rassicurante, inserimento sociale in un ambiente che favorisce sentimenti di appartenenza. Questi elementi però devono sempre essere accompagnati da progetti sociali o terapeutici, da interventi specializzati di sostegno ed anche di cura, poiché le difficoltà degli ospiti non possono essere lasciate alla sola attenzione della famiglia, per quanto generosa possa essere. Questi interventi sono realizzati dai programmi di accoglienza familiare terapeutica, promossi dai servizi psichiatrici, i quali però rappresentano soltanto una minima parte degli inserimenti di adulti in famiglia. Infatti, come già anticipato, in Francia gli inserimenti eterofamiliari si dividono in inserimenti sociali ed inserimenti terapeutici. Si può osservare uno scollamento pregiudizievole fra i due approcci, che dovrebbero comunque essere alternativamente o contemporaneamente soluzioni sociali ed aiuti terapeutici. La seguente tabella[6] illustra sinteticamente le caratteristiche dei due registri di affidamento dominati, quello sociale e quello terapeutico. Accueil
familial social e thérapeutique, analogie e differenze
L’Accueil
familial thérapeutique, in passato chiamato Placement
familial d’adultes, offre
un’alternativa all’ospedalizzazione per quei pazienti cronici che
altrimenti resterebbero in ospedale psichiatrico a vita. Spesso
l’accoglienza in famiglia rappresenta una soluzione
transitoria, alla quale può far seguito il ritorno della persona ad
una vita autonoma oppure il passaggio ad un Accueil familial
social. L’Aft assicura al
malato psichiatrico una presa in carico ed una continuità di cura, al
di fuori delle mura dell’istituzione psichiatrica, in uno spazio
sociale non medicalizzato. Infatti la famiglia ospitante, grazie alle
sue capacità naturali, affettive ed educative, favorisce il
“rifiorire” del paziente e la positiva evoluzione del suo
percorso. L’accoglienza familiare è
detta terapeutica nella misura in cui l’ospitalità viene supportata
da un’équipe medico-sociale, che garantisce la continuità della
presa in carico. L’Aft
è organizzato da un ospedale psichiatrico, sotto la
responsabilità del suo Direttore. Un’équipe multiprofessionale
(psichiatra, infermiere, educatore, assistente sociale, psicologo)
lavora in sinergia con i curanti di riferimento del paziente accolto
in famiglia. Il servizio di accueil familial thérapeutique è
l’interlocutore privilegiato per famiglia ospitante e per la persona
ospitata durante tutto il periodo della convivenza.
I
vantaggi dell’accoglienza familiare sono molteplici: una presa in
carico “domestica”, al di fuori dell’ospedale, un supporto
“naturale” 24 ore su 24 fornito dalla famiglia, sostegno affettivo e stimolazione nella
partecipazione alle attività familiari. Spesso
il paziente abbandona quei comportamenti aggressivi e/o regressivi che
aveva in ospedale, inoltre ritrova la propria quotidianità ed
un’immagine positiva di sé. L’Aft
permette alla persona di reinserirsi nel tessuto sociale, grazie
all’integrazione con i membri della famiglia, con i vicini, con la
comunità locale, attraverso la partecipazione ad attività sociali,
culturali, sportive. La persona sofferente di disturbi psichici
abbandona finalmente quello status di “malato” che lo ha
accompagnato fino a quel momento. Gli affidamenti possono essere
a breve o a lungo termine, a tempo pieno o a tempo parziale. La
seguente tabella indica i prezzi a giornata, a seconda delle diverse
modalità di presa in carico del paziente psichiatrico (si tratta di
una media realizzata su 10 ospedali psichiatrici nel 2004). Malattia
mentale, esempi di prezzi a giornata in euro (media su 10 ospedali
psichiatrici)
Naturalmente la scelta fra le
diverse modalità di presa in carico deve essere effettuata in base ai
bisogni del paziente, e non in base alla sola convenienza economica.
Ma la Sécurité Sociale risparmia in media 135 € al giorno ogni
volta che un paziente passa dal ricovero in ospedale all’accueil
familial thérapeutique. Nel 2001 la malattia mentale arrivò ad essere il secondo settore di spesa per la Sécurité Sociale. In quell’occasione, l’allora Ministro della Sanità Bernard Kouchner, proclamò la necessità di sviluppare alternative all’ospedalizzazione, in particolare il ricorso all’accueil familial thérapeutique. 3. Psychiatrische Familienpflege: il progetto di Ravensburg dell’Associazione Arkade[7] Alla fine del XIX secolo in Germania furono avviati, sull’esempio della cittadina belga di Geel, i primi tentativi di istituire un servizio di inserimento eterofamiliare per adulti sofferenti di disturbi psichici, presso la clinica di Ilten, vicino ad Hannover. Molto rapidamente altre cliniche imitarono questa idea e si arrivò ad un rapido sviluppo della attività. La ragione di tale diffusione era da ritrovarsi nel sovraffollamento delle cliniche psichiatriche di quel tempo e nel correlato tentativo di offrire una sufficiente assistenza a tutti i pazienti. Così si cercarono, nei dintorni delle cliniche, famiglie contadine che, in cambio di un aiuto nei lavori di campagna, fossero disposte ad ospitare un paziente psichiatrico. Durante il nazionalsocialismo, nell’ambito delle leggi sull’eutanasia, vennero eliminati, tra gli altri, più di 10.000 pazienti psichiatrici. Di conseguenza anche l’affidamento familiare fu cancellato. Solo nel 1984 si assiste ad un nuovo avvio dell’inserimento eterofamiliare attraverso due iniziative separate, quella di Bonn e quella di Ravensburg. L’associazione Arkade di Ravensburg, nata nel 1977, ha come obiettivo offrire un’assistenza ed un sostegno territoriale qualificati a persone sofferenti di disturbi psichici ed alle loro famiglie. Dopo aver definito con l’Ente Regionale per l’Aiuto Sociale del Baden-Württemberg le condizioni ed averne dettato le direttive, l’associazione Arkade ha introdotto l’offerta dello IESA fra i suoi servizi. Il 1° marzo 1985 viene inserito il primo paziente presso una famiglia ospitante, dopo due anni gli inserimenti eterofamiliari erano saliti a 20. La maggior parte dei pazienti proveniva dalla lungodegenza della clinica e molti avevano alle spalle più di trent’anni di ricovero. Con il trascorrere degli anni il progetto si è sviluppato sempre di più, fino ad arrivare nel 2000 al numero di 72 adulti ospitati in famiglia. Mentre nel Baden-Württemberg, regione cui appartiene Ravensburg, tutti i progetti IESA sono gestiti da enti del privato sociale, ovvero indipendenti dalle cliniche, in altre regioni questa attività è direttamente organizzata dagli ospedali psichiatrici. In questo secondo caso, l’operatore dello IESA continua ad essere un dipendente della clinica e l’ospite della famiglia continua ad essere in primo luogo un paziente della clinica. La provincia di Ravensburg è situata nel sud della regione del Baden-Württemberg, vicino al lago di Costanza e alle Alpi. Ha una bassa densità di popolazione ed una conformazione prevalentemente rurale, ci sono parecchie aziende agricole a prevalente produzione di latte e molti piccoli paesi. A Ravensburg c’è una grande clinica psichiatrica con 350 posti letto nei reparti di cura e 130 posti, caratterizzati da un intervento più assistenziale, riservati a pazienti cronici o anziani. Nelle vicinanze ci sono altri due grandi istituti per pazienti psichiatrici. Il paesaggio rurale associato alla grande presenza di istituzioni psichiatriche rappresenta una favorevole condizione di partenza per lo sviluppo dello IESA. il team di
arkade Il team di Arkade è composto da 10 operatori: 5 assistenti sociali, 3 infermiere professionali specializzate in socio-psichiatria e 2 pedagogisti. Tre inoltre hanno una specifica formazione in terapia della famiglia. Alcuni operatori lavorano a tempo pieno, altri a tempo parziale; ogni operatore a tempo pieno segue dai 10 agli 11 inserimenti. La Dr.ssa Franke, pedagogista del team di Arkade, afferma che la multiprofessionalità caratterizzante la loro équipe è vissuta come una particolare qualità, poiché l’insieme dei diversi modi di vedere e delle diverse esperienze, derivanti dalle diverse formazioni professionali, risulta spesso di grande aiuto. le famiglie
ospitanti Le famiglie ospitanti vengono reperite per la maggior parte attraverso la pubblicazione di brevi annunci su testate regionali o locali. Inoltre molte famiglie si rivolgono al servizio per aver sentito da vicini o conoscenti dell’esistenza dell’attività di inserimento eterofamiliare. La gran parte delle famiglie ospitanti vive in campagna in case di proprietà oppure in poderi e fattorie. L’economia della quasi metà di queste famiglie è basata, in maniera parziale o totale, su attività agricole. L’altra metà è prevalentemente composta da artigiani autoctoni. Il 10% circa sono donne single con o senza prole. Da ciò emerge che la famiglia ospitante non deve essere per forza di tipo classico, tutta la gamma dei possibili nuclei familiari è pensabile per il ruolo di ospitante. Le motivazioni che muovono le famiglie a candidarsi sono multiple: la famiglia è alla ricerca di un aiuto nei lavori di campagna, in casa c’è una camera libera ed un’addizionale opportunità di guadagno è ben accolta, la famiglia è interessata ad un impegno nel sociale, i bambini della famiglia sono piccoli e la madre vorrebbe rimanere a casa pur guadagnando qualcosa. L’aspetto economico ha comunque un ruolo importante nella maggior parte dei casi. Secondo la Dr.ssa Franke è comunque un bene che gli ospitanti abbiano un interesse economico nell’accogliere l’ospite poiché, se la famiglia è mossa esclusivamente da ragioni umanitarie, può avvenire che l’implicitamente attesa retribuzione per l’altruismo in forma di manifesta gratitudine o di progresso terapeutico venga a mancare. La conseguenza può consistere per l’ospitante nella frustrazione. Una famiglia con una motivazione economica è in grado di reggere maggiormente le difficoltà presentate da un paziente in crisi, o comunque da una situazione di non progresso. La condizione essenziale per candidarsi al ruolo di famiglia ospitante è il possesso di una camera ammobiliata e riscaldata per il potenziale ospite. Non è richiesta alcuna qualifica professionale in campo assistenziale, poiché un normale e diretto rapporto tra famiglia ed ospite è una caratteristica essenziale per la graduale normalizzazione dell’ex paziente dell’istituzione. Non è prevista alcuna formazione per le famiglie, gli operatori si limitano a dare informazioni sulle caratteristiche dell’ospite e ad effettuare interventi di supporto in itinere. La più parte delle famiglie ospitanti ha una strutturazione della quotidianità molto regolare, per esempio orari dei pasti fissi. Inoltre la casa rappresenta il centro della vita e vi sono spesso anche animali domestici e da cortile. Molte famiglie non vanno mai o vanno raramente in vacanza. Come anticipato sopra, nel 2000 sono 72 le persone ospitate in famiglia grazie al progetto di Arkade. La durata media degli inserimenti è di 7,3 anni, ma una signora è ospite presso la stessa famiglia dal 1984, anno di inizio del progetto, mentre altri 9 ospiti sono da più di 10 anni nelle stesse famiglie. gli ospiti I candidati per l’inserimento eterofamiliare provengono prevalentemente dai reparti di lungodegenza della clinica psichiatrica, alcuni però arrivano direttamente da reparti di cura o da istituti. Sono per la maggior parte pazienti cronici, i quali hanno alle spalle numerosi ricoveri in clinica o anni di continua degenza ospedaliera. In alcuni casi la diagnosi di psicosi è accompagnata da problemi di alcolismo o epilessia o oligofrenia. L’età media è tra i 45 ed i 50 anni, ma vi sono pazienti tra i 20 e gli 80 anni. A seconda dell’età e delle abilità, gli ospiti collaborano con la famiglia nello svolgimento dei lavori di casa o di campagna. Laddove il lavoro in campagna è svolto in maniera regolare e costante viene pattuito con la famiglia un compenso mensile per l’ospite, proporzionato al suo effettivo rendimento. Per i circa 2/3 degli ospiti, la famiglia di accoglienza diventa una nuova dimora a lungo termine. Parecchi di questi possono vivere lì il resto della loro vita, mentre alcuni, poiché il loro fabbisogno di assistenza raggiunge livelli insostenibili, sono costretti a ricorrere alle case di cura. Per il restante 33% l’inserimento eterofamiliare rappresenta un periodo transitorio. In particolare per i giovani, il periodo passato in famiglia costituisce spesso una possibilità per raggiungere una nuova maturazione, accompagnata da una “sana separazione” dai propri genitori. Per questi utenti è importante che dopo un certo periodo di inserimento eterofamiliare vi sia un passaggio verso un’altra forma di abitazione più autonoma, tipo alloggi supportati. la
realizzazione dell’inserimento Dopo un primo contatto telefonico, la famiglia viene invitata presso il servizio per un colloquio conoscitivo, durante il quale due operatori informano i componenti del nucleo sul funzionamento dello IESA e li interrogano con l’ausilio di un’intervista semistrutturata. Tale intervista va a sondare la situazione familiare, le motivazioni che portano a voler ospitare una persona sofferente di disturbi psichici, le abitudini, le preferenze, l’organizzazione del tempo libero e la strutturazione tipo della giornata. Inoltre viene sempre chiesto alla famiglia se l’ospite potrà fumare in casa e se si sentono in grado di far fronte a problemi tipo alcolismo. La Dr.ssa Franke afferma che, per l’esito di questo primo colloquio, è decisiva l’impressione intuitiva che hanno gli operatori rispetto all’apertura della famiglia, alla sua capacità di integrazione, alla tolleranza ed alla flessibilità nei confronti degli altri. In seguito uno dei due operatori che ha condotto il primo colloquio, insieme ad un altro, provvede a far visita alla famiglia nella sua abitazione, in modo da osservarla nel proprio ambiente di vita, possibilmente in presenza di tutti i componenti del nucleo, in modo da conoscerli. Se la famiglia ha un’adeguata camera per l’ospite è difficile che nascano particolari riserve sulla loro abilitazione a famiglia ospitante. Infatti, così come i pazienti sono diversi tra loro, è importante avere a disposizione famiglie dalle caratteristiche più svariate possibili. Parallelamente avvengono i contatti tra i potenziali ospiti ed il servizio IESA. Alcuni pazienti vengono autonomamente a conoscenza del servizio e chiedono un colloquio con un operatore di Arkade, altri vengono motivati dal personale della clinica psichiatrica a conoscere lo IESA. Così come con le famiglie, anche con i pazienti si tiene un colloquio semistrutturato, attraverso il quale si indagano le abitudini, i desideri rispetto alla famiglia, le preferenze, le avversioni ed il livello del loro bisogno di aiuto. Inoltre vengono raccolte ulteriori informazioni sul paziente attraverso le persone che gli sono di riferimento, per esempio gli operatori della clinica o dell’istituto. Tutte le famiglie ed i pazienti che vengono conosciuti dai singoli operatori vengono presentati all’équipe al completo. È sempre l’intera équipe che valuta l’abbinamento tra famiglia ed ospite, attraverso un processo che può essere suddiviso in due fasi. In primo luogo viene fatta luce sulla corrispondenza superficiale tra i desideri di un ospite e ciò che una delle famiglia può offrire, ad esempio: il paziente potrà fumare in casa? Necessita di frequentare la città poiché è solito farlo? Potrà raggiungere agevolmente il proprio posto di lavoro da quell’abitazione? Ha bisogno di cure che la famiglia sarebbe in grado di offrire? Ecc. Se queste caratteristiche superficiali trovano corrispondenza, gli operatori iniziano a riflettere su quanto sostegno e su quale ambiente familiare sarebbe più adatto per l’ospite. Per trovare una risposta il team cerca di chiarire alcuni aspetti, per esempio: sarebbe più utile per il candidato ospite un ambiente tranquillo o una famiglia dinamica con molti bambini? Ha bisogno di una famiglia molto chiara e determinata, in grado di porre e rispettare fermamente regole e confini? Vorrebbe rimanere il più possibile indipendente ed autonomo o gli gioverebbe una famiglia portata all’assistenza, la quale lo integrerebbe saldamente e lo assisterebbe con una certa intensità? Di solito vi sono circa 20-30 famiglie in attesa ed un altrettanto numero di candidati. Nei casi più fortunati la convivenza inizia dopo i primi contatti, ma può anche accadere che, nonostante il buon numero di famiglie su cui si può contare, non si trovi l’abbinamento giusto, perciò gli ospiti attendono anche 1 o 2 anni prima di essere inseriti in famiglia. Dopo aver definito in équipe un abbinamento, viene stabilito tra gli operatori chi può e vuole farsi carico di seguire l’inserimento. Questo operatore telefona quindi alla famiglia e, attraverso una descrizione che considera anche particolari problemi e tratti caratteristici, le presenta il paziente candidato alla coabitazione. Se la famiglia si mostra interessata, viene informato il paziente in modo da fissare un appuntamento presso l’abitazione, al quale parteciperanno, oltre ai candidati alla coabitazione, anche l’operatore IESA responsabile dell’inserimento e l’operatore di riferimento della clinica o dell’istituto. Dunque la prima opportunità per fare conoscenza si realizza un pomeriggio, tra caffè fumanti e torte. Dopo due giorni di riflessione, se sia il paziente che la famiglia esprimono la volontà di tentare un periodo di convivenza, ciò viene organizzato e realizzato al più presto. La prova di convivenza dura da un minimo di una settimana ad un massimo di un mese, e in caso di consenso da entrambe le parti si trasforma in inserimento eterofamiliare supportato. Durante tutto il periodo di prova, il paziente conserva il suo posto in clinica o in istituto per un eventuale rientro, dovuto al fallimento della convivenza. L’inserimento eterofamiliare supportato viene ufficialmente avviato attraverso la sottoscrizione di un contratto scritto tra le parti, sottoscritto dagli operatori di Arkade, dalla famiglia ospitante e dall’ospite. il monitoraggio Nel primo periodo di un inserimento viene fatta visita alla famiglia mediamente 1 volta alla settimana, mantenendo anche uno stretto contatto telefonico. Con il passare del tempo, la media delle visite arriva a stabilizzarsi sul ritmo di 1 ogni 4 settimane. Nei periodi di difficoltà la frequenza delle visite aumenta notevolmente. Tutte le famiglie hanno tutti i numeri telefonici privati degli operatori. Qualora in orario serale o nel fine settimana si presenti un problema particolarmente importante nella convivenza, le famiglie possono provare a contattare gli operatori. Tale reperibilità spontanea non è regolamentata. La Dr.ssa Franke specifica che questa offerta viene usata molto raramente dalle famiglie, anche perché le crisi dell’ospite di solito si preannunciano durante la settimana e rendono così possibile un intervento prima del week end. L’impressione globale è che la possibilità di contattare in qualsiasi momento in caso di emergenza gli operatori, anche se di fatto ciò non avviene quasi mai, infonda nella famiglia un forte senso di sicurezza. Il sostegno professionale del team di Arkade consiste nel supportare il percorso di sviluppo che l’ospite e la famiglia portano avanti e, all’occorrenza, intervenire sul processo in merito al problema specifico. Soprattutto nei primi mesi dell’inserimento si cerca di comprendere l’ambiente di vita della famiglia e di creare un’atmosfera relazionale nella quale famiglia e ospite possano aprirsi vicendevolmente ed esprimersi appieno. la valutazione
del progetto La Dr.ssa Franke sottolinea che l’inserimento eterofamiliare si rivela una grande opportunità, in particolare per quei pazienti caduti nelle maglie del sistema assistenziale istituzionale, i quali non riescono a convivere con le rigide regole delle strutture residenziali ospedaliere. Per una grande istituzione è impossibile soddisfare i bisogni di tutti i pazienti, invece, all’interno della grande varietà rappresentata dai sistemi familiari, è più facile trovare per il singolo individuo un ambiente in grado di affrontare, con la giusta flessibilità, le sue difficoltà e le sue peculiarità. In un ambiente adeguato l’ospite può, spesso in poco tempo, abbandonare comportamenti strani e disturbanti, caratterizzanti la sua permanenza presso la clinica. Spesso è anche possibile, a lungo termine, raggiungere una significativa riduzione del dosaggio dei farmaci. Attraverso la quotidianità all’interno della famiglia, l’ospite recupera alcune proprie capacità che aveva da tempo dimenticato di avere, riesce a migliorarsi sul versante dell’autonomia e delle competenze sociali. Inoltre per l’ospite vivere presso una famiglia rappresenta un grande guadagno sul piano della qualità della vita. Per il buon andamento di un progetto di inserimento eterofamiliare, si rivela determinante la collaborazione fra l’équipe IESA e gli operatori della clinica psichiatrica o dell’istituto. Solitamente sono questi ultimi a motivare il paziente ad andare a vivere presso una famiglia ospitante. Il loro sostegno positivo è indispensabile poiché, per la maggior parte dei pazienti, lasciare l’ambiente familiare dell’istituto o della clinica per andare in una famiglia sconosciuta rappresenta un grande e temuto passo. A Ravensburg vi è la grande fortuna che il direttore della lungodegenza della clinica coincida con l’iniziatore del progetto per gli inserimenti eterofamiliari di Arkade. Ciò ha contribuito a creare da parte della clinica una buona collaborazione con il team IESA. Con una certa regolarità si tengono incontri fra operatori della clinica ed èquipe IESA, in modo da poter presentare le famiglie ospitanti e da raccogliere eventuali segnalazioni di pazienti candidati all’inserimento eterofamiliare. Nella regione del Baden-Württemberg la rete territoriale psichiatrica non è più pensabile senza l’apporto dello IESA. Nel corso dei 15 anni di attività sono stati inseriti più di 200 pazienti in famiglie ospitanti (dato aggiornato al 2000). La Dr.ssa Franke sottolinea quanto sia gratificante vedere pazienti, con anni di ospedalizzazione alle spalle, che trovano in una famiglia una nuova dimora, nella quale si sentono a proprio agio e finalmente ricominciano a vivere.
5.
Una ricerca sulla diffusione dell’affidamento eterofamiliare
nei Dipartimenti di Salute Mentale piemontesi nel 2006 1.
Obiettivi e
caratteristiche della ricerca Nel
mese di marzo 2006 ho avviato una ricerca per indagare se e quanto è
conosciuta e diffusa la risorsa degli affidamenti eterofamiliari nei
servizi psichiatrici piemontesi. L’universo
dell’indagine è composto dalle assistenti sociali che lavorano nei
Dipartimenti di Salute Mentale della Regione Piemonte.
La seguente tabella indica i dipartimenti nei quali è stato
somministrato il questionario ed il numero di risposte ricevute per
ciascun dipartimento. Servizi intervistati
Complessivamente ho ricevuto 31 questionari correttamente compilati (su 33 inviati), almeno 1 per ciascun DSM. Per
scelta l’operatore intervistato è sempre l’assistente sociale,
soltanto in 2 casi è uno psicologo, precisamente all’ASL 5 DSM 5b
Collegno e all’ASL 7 DSM Settimo Torinese. Si tratta di 2 dei 5
servizi in cui è attivo un progetto per gli affidamenti
eterofamiliari di utenti psichiatrici. In entrambi i casi non è stato
possibile intervistare l’assistente sociale poiché non fa parte
dell’èquipe che supporta gli inserimenti eterofamiliari.
Non
è stato inviato il questionario ai seguenti servizi: §
ASL 12 DSM Biella e ASL
16 DSM Mondovì, poiché in entrambi i servizi non è presente la
figura dell’assistente sociale nell’organico del Centro di Salute
Mentale. È stato comunque
domandato telefonicamente a due infermieri se esiste un progetto per
gli affidamenti eterofamiliari e la risposta è stata negativa; §
ASL 21 DSM Casale
Monferrato, in questo caso dapprima è stata contattata
telefonicamente l’assistente sociale del dipartimento, la quale ha
riferito di non occuparsi personalmente di affidamenti eterofamiliari,
ma di essere a conoscenza di un progetto di questo tipo organizzato
dal Ser.T.[8]
dell’ASL 21. Così ho contattato l’educatrice del Ser.T. che
gestisce l’attività e, non ritenendo opportuno somministrarle il
questionario preparato per i servizi psichiatrici, poiché il progetto
è indirizzato ad una diversa tipologia di utenti (soggetti
tossico-alcoldipendenti) ed ha obiettivi parzialmente differenti, ho
preferito farmi inviare materiale informativo, in modo tale da essere
comunque in grado di illustrare i tratti essenziali dell’attività
(Cfr. par. 5); §
ASL 5 DSM 5a Rivoli, in
quanto sono stati presi contatti con il Servizio di Inserimento
Eterofamiliare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici (IESA)
dell’ASL 5 DSM 5b Collegno, uno dei servizi piemontesi maggiormente
impegnato nella realizzazione di inserimenti eterofamiliari per
pazienti psichiatrici. La prima fase della ricerca è stata la costruzione del questionario da somministrare agli operatori sociali. Ho preparato 2 tipologie di questionari: 1.
un questionario breve da
somministrare nei DSM in cui non è attivo un progetto per gli
affidamenti eterofamiliari (Cfr. Allegato 1 par. 8); 2.
un’intervista da
somministrare nei DSM in cui esiste un progetto per gli affidamenti
eterofamiliari (Cfr. Allegato 2 par. 8). Il questionario breve è composto da 6 domande, le prime 3 di carattere obbiettivo, mentre le ultime richiedono l’espressione di opinioni e valutazioni personali da parte dell’operatore intervistato. Lo scopo di questo primo questionario è indagare: §
la diffusione della
conoscenza della risorsa degli affidamenti eterofamiliari fra le
assistenti sociali e la fonte dell’informazione; §
la conoscenza che questi
operatori hanno dei progetti di affido di malati psichiatrici
realizzati da altri servizi; §
la presenza, in passato,
di iniziative in tal senso da parte dell’équipe del Centro di
Salute Mentale; §
le ragioni per cui,
secondo l’operatore intervistato, non viene utilizzato
l’affidamento eterofamiliare come risorsa dipartimentale; §
la bontà della risorsa,
in riferimento ai principi del servizio sociale; §
l’opinione
dell’operatore in merito a questo tipo di intervento.
L’intervista invece si compone di 39 domande ed è suddivisa in 5 parti, ciascuna delle quali è volta ad approfondire uno specifico aspetto del progetto: 1.
la nascita; 2.
gli attori: l’équipe,
la famiglia affidataria, l’utente e la famiglia di origine; 3.
il contratto fra le
parti; 4.
la realizzazione ed il
monitoraggio; 5.
la valutazione. Le domande che compongono entrambi i questionari sono state formulate raccogliendo informazioni sull’argomento da libri e riviste di settore, inoltre alcuni quesiti hanno lo scopo di soddisfare mie personali curiosità sul tema. Il secondo passo è
stato reperire l’elenco dei Dipartimenti di Salute Mentale
della Regione Piemonte, con i relativi recapiti telefonici. Per
far ciò ho consultato il sito internet della Regione[9],
ipotizzando che fosse la fonte più attendibile e soprattutto più
aggiornata. Una volta costruita la
lista dei DSM appartenenti a ciascuna delle 22 ASL, ho iniziato a
telefonare nei diversi servizi, chiedendo sempre di parlare con
l’assistente sociale. Spesso è stato necessario effettuare numerosi
tentativi prima di riuscire a parlare proprio con l’operatore
desiderato. Questa telefonata aveva l’obiettivo di rilevare se presso il DSM contattato esiste attualmente un progetto per gli affidamenti eterofamiliari. In base alle risposte ricevute ho inviato, di volta in volta, il questionario corrispondente. Sono stati contattati telefonicamente 37
operatori, a 28 di loro è stato inviato il questionario breve (DSM in
cui non c’è il progetto), a 5 è stata somministrata l’intervista
(DSM in cui è attivo il progetto), all’operatore del Ser.T.
dell’ASL 21 è stato chiesto di poter avere materiale informativo
sul progetto per soggetti tossico-alcoldipendenti. A 3 operatori invece
non è stato inviato nulla, per le ragioni precedentemente illustrate
(2 infermieri DSM ASL 12 e 16, assistente sociale DSM ASL 21).
Ho ricevuto
complessivamente 31 questionari correttamente compilati (26
questionari brevi e 5 interviste) più il materiale informativo sul
progetto dell’ASL 21. Soltanto 2 operatori non hanno risposto al
questionario breve, tutti hanno risposto all’intervista. Indagine
16 questionari sono stati inviati tramite e-mail, 5 per posta ordinaria, 6 tramite fax ed altri 6 sono stati somministrati di persona. Escludendo i 6 casi nei quali il questionario o l’intervista sono stati somministrati di persona, in 10 casi ho ricevuto risposta dopo un tempo ragionevole (entro 1 mese circa), nei restanti 15 casi ho effettuato 1 richiamo (5 operatori sono stati richiamati 2-3 volte). Alle 2 assistenti sociali che non hanno risposto al questionario erano stati effettuati 3 richiami. Ho trovato ampia
disponibilità fra le assistenti sociali contattate, nonché tra i 2
psicologi e da parte dell’educatrice del Ser.T. dell’ASL 21. Tutti
hanno risposto al quesito telefonico (“Nel servizio presso cui
lavora esiste un progetto per gli affidamenti eterofamiliari di
persone sofferenti di disturbi psichici?”), la gran parte si è
mostrata particolarmente interessata al tema ed ha ampiamente
argomentato la risposta,
11 hanno chiesto di avere i risultati della ricerca.
2.
Descrizione dei
risultati In
questo paragrafo vengono illustrati i
risultati dell’indagine svolta nei Dipartimenti di Salute Mentale in
cui non è attivo un progetto per gli affidamenti eterofamiliari. In
tali servizi è stato è
inviato il questionario breve, composto da 6 domande. Domanda 1 Conosce
la risorsa degli affidamenti eterofamiliari di persone con disturbi
psichiatrici? Se si, in quale contesto e grazie a quale fonte ha avuto
modo di apprenderne l’esistenza (convegni, corsi di formazione,
colleghi di altri servizi, letture personali, ecc.)?
Figura 1 –
Conoscenza della risorsa e fonte Come evidenziato dalla Tabella 1, su 26
assistenti sociali 22 dichiarano di conoscere la risorsa e 4 di non
conoscerla. I
rispondenti potevano specificare nelle loro risposte anche più di una
fonte, infatti le assistenti sociali dichiarano di aver appreso
l’esistenza dell’affidamento eterofamiliare più frequentemente
dalle seguenti fonti: colleghi (11), normativa (7), letture (7),
convegni (5), università (1), internet (1).
Figura 2 –
Fonti
Figura 2 –
Fonti
I
colleghi dai quali i rispondenti hanno appreso la notizia sono in 8
casi colleghi dello stesso dipartimento, in 3 casi colleghi di altri
DSM. La
normativa citata è sempre la D.C.R. 357-1370 del 1997 Regione
Piemonte o il Piano Sanitario Regionale 1997-1999.
All’interno
della categorie “Letture” è necessario distinguere fra lettura di
articoli su giornali locali (2) e lettura di libri o riviste di
servizio sociale (5). Nella
categoria “Convegni” in 1 solo caso il rispondente cita un
convegno specifico sul tema (Convegno Nazionale sull’Inserimento
Eterofamiliare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici,
Lucca 2001), mentre negli altri 4 casi i rispondenti precisano sempre
che si tratta di convegni o seminari non specifici sul tema. Infine
un’assistente sociale indica come fonte internet ed un’altra la
propria formazione universitaria. Domanda 2 È
a conoscenza di esperienze di affidamenti eterofamiliari in passato,
nell’area dipendente dal dipartimento in cui lavora? È a conoscenza
di servizi di salute mentale in Piemonte, in altre zone d’Italia o
all’estero ove è attivo un progetto per gli affidamenti
eterofamiliari? Come
evidenziato dalla Tabella 2, su 26 rispondenti 13 dichiarano di
essere a conoscenza di esperienze di affidamenti eterofamiliari
nell’area dipendente dal proprio dipartimento, 9 hanno notizia di
affidamenti realizzati da altri servizi di salute mentale della
Regione Piemonte, 2 conoscono progetti di altri servizi psichiatrici
italiani e 3 sono al corrente di realtà estere.
Tabella
2: Conoscenza di altre realtà di affidamento eterofamiliare
Figura
3 – Conoscenza di altre realtà Fra le 13 assistenti sociali che dichiarano di conoscere esperienze di affidi familiari nell’area dipendente dal proprio dipartimento, 11 si riferiscono ad interventi gestiti direttamente dal DSM, mentre 2 precisano che si tratta di esperienze effettuate in collaborazione con la Cooperativa Sociale “Alice nello specchio” di Torino. Per quanto riguarda i servizi di salute mentale della Regione Piemonte, 4 rispondenti citano espressamente l’ASL 5 di Collegno e 2 l’ASL 4 di Torino. In 1 caso è riportato genericamente “Torino”, in altri 2 “Comuni vicino a Torino”. Solo 2 assistenti sociali conoscono progetti realizzati da altri DSM italiani, in particolare una indica le esperienze toscane di Lucca e Firenze, l’altra dichiara di aver letto il libro del Dr. Aluffi[10], di conseguenza dovrebbe conoscere i servizi di inserimento eterofamiliare supportato riportati nel suddetto testo. Infine 3 rispondenti hanno notizia di
esperienze estere: 1 dichiara di essere venuta a conoscenza della
secolare esperienza di Geel durante un convegno a Colonia, mentre 1 dice di aver
visitato famiglie affidatarie, durante uno scambio professionale in
Francia. Inoltre 1 assistente sociale, avendo letto il testo del Dr.
Aluffi, dovrebbe conoscere le numerose esperienze estere ivi
riportate. Domanda
3 L’équipe
del suo servizio ha mai pensato, ed eventualmente proposto, di avviare
un progetto di questo tipo? Se si per quale motivo l’idea è
naufragata?
La
Tabella 3 indica che 10 servizi su 26 hanno pensato di avviare
un progetto per gli affidamenti eterofamilari, mentre 16 non hanno mai
preso in considerazione la possibilità di realizzare interventi di
questo tipo.
Figura
4 – Proposta del progetto
Figura 5 –
Approvazione del progetto Tabella
3: Proposta del progetto in équipe e motivo della mancata
approvazione
Domanda 4
Inoltre in singole risposte sono state
riportate le seguenti motivazioni: disapprovazione da parte della
dirigenza, difficoltà nella selezione delle famiglie affidatarie,
difficoltà di coordinamento fra le figure coinvolte, scarsità di
risultati ottenibili, non conoscenza della risorsa, problemi
burocratici e legali, si sta ancora svolgendo la fase di
sensibilizzazione del territorio, forte presenza di nuclei familiari
di origine disposti a collaborare con i servizi, reticenza degli
psichiatri che colgono l’impegno non indifferente a carico del servizio,
non si ritiene che un intervento di questo tipo sia di pertinenza del
servizio. Domanda
5 In
riferimento ai principi del servizio sociale, ritiene che
l’affidamento eterofamiliare potrebbe promuovere una migliore qualità
della vita per alcuni utenti psichiatrici?
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