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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO

FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA IN SERVIZIO SOCIALE

 

 

 

 

TESI DI LAUREA

 

 

 

 

L’affidamento eterofamiliare

di persone sofferenti di disturbi psichici

 

 

 

 

 

 

 

 

RELATORE:                                                       CANDIDATO:

 

 

Prof.ssa Donatella Ravera                                 Sara Celestino

                                                                                    

                                                                      

 

 

 

Anno Accademico 2005-2006

 


INDICE

 

 

INDICE                                                                                                    Pag.  2

 

 

CAPITOLO 1: LE ORIGINI DELL’AFFIDAMENTO ETEROFAMILIARE TRA STORIA E LEGGENDA

1.  La leggenda di Santa Dymphna: le miracolose guarigioni

      dei “lunatici” e l’esperienza secolare di Geel                                          Pag. 5

2.      La leggenda dell’acqua miracolosa del  tempio di  Daiun

 ad Iwakura                                                                                                    Pag. 8

3.      L’oppio antidepressivo di Brema                                                   Pag. 9

4.      Il poeta Friedrich Holderlin ospite di un falegname:

 un illustre caso di Psychiatrische Familienpflege                     Pag. 10

 

 

CAPITOLO 2: ASPETTI TEORICI DELL’AFFIDAMENTO ETERO FAMILIARE

1.  Definizione e classificazione                                                        Pag. 12

2.      Lo stigma della malattia mentale: sinonimo di esclusione

              e progressiva perdita di competenze sociali                                  Pag. 16

3.      La  rivalutazione  della  famiglia: da  famiglia patogena a

              risorsa sociale                                                                                     Pag. 20

4.      I processi terapeutico riabilitativi attivati  dall’affidamento eterofamiliare                                                                                        Pag. 23

 

 

CAPITOLO 3: L’AFFIDAMENTO ETEROFAMILIARE IN ITALIA: STORIA ED ATTUALITÀ  

1.      Dalla normativa manicomiale alla legge 180: il superamento

dell’istituzione   totale  e  la  perdita  di   specifici   riferimenti

normativi relativi all’affidamento eterofamiliare                         Pag. 27

 

 

2.      La  legislazione  psichiatrica  piemontese: la  ricomparsa

                        dell’affido familiare                                                                    Pag. 33

3.      L’inserimento eterofamiliare nei DSM italiani: un tentativo

di censimento svolto nel 1999/2000 dal Dr. Aluffi                    Pag. 34

  

 

CAPITOLO 4: L’AFFIDAMENTO ETEROFAMILIARE IN EUROPA

1.  Storia e differenze di stile                                                               Pag. 37

2.  Accueil Familial Thérapeutique                                                    Pag. 41

3.      Psychiatrische Familienpflege: il progetto di Ravensburg

dell’Associazione Arkade                                                              Pag. 46

 

 

CAPITOLO 5: UNA RICERCA SULLA DIFFUSIONE DELL’AFFIDO ETEROFAMILIARE NEI DSM PIEMONTESI NEL 2006

1.   Obiettivi e caratteristiche della ricerca                                     Pag. 56

2.   Descrizione dei risultati                                                                             Pag. 60

3.      Analisi  dell’attività  dei  servizi  pubblici  in  cui  è attivo

un progetto per gli affidamenti eterofamiliari                             Pag. 73

3.1     Il progetto “A bordo con noi” del  DSM  dell’ASL 10          Pag. 73

3.2  Il Servizio IESA del DSM 5b dell’ASL 5                               Pag. 86

3.3  Il progetto “Una pazza idea!! Accogli un ospite” del 

DSM dell’ASL 7                                                                      Pag. 98 

            Il progetto di accoglienza familiare del DSM

dell’ASL 8                                                                        Pag. 106

            Il  progetto di  affidamento  eterofamiliare del DSM

dell’ASL 18                                                                            Pag. 114

4.      La  Cooperativa Sociale Alice nello specchio e le Crisis         

Farm                                                                                                Pag. 120

5.      Il progetto di affido familiare per tossico-alcoldipendenti 

      “L’ho sentita casa mia” del Ser.T. dell’ASL 21                          Pag. 133

6.      Altre esperienze di affidamento eterofamiliare                       Pag. 136

7.      Conclusioni                                                                                   Pag. 141

8.      Allegati                                                                                            Pag. 147

BIBLIOGRAFIA                                                                                   Pag. 163

 

 

RINGRAZIAMENTI                                                                             Pag. 166

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.    Le origini dell’affidamento eterofamiliare tra storia e leggenda[1]

 

 

1.            La leggenda di Santa Dymphna: le miracolose guarigioni dei “lunatici” e l’esperienza secolare di Geel 

 

L’origine dell’affidamento eterofamiliare di persone sofferenti di disturbi psichici viene ricondotta al XIII d.C. nella cittadina di Geel, nell’attuale Belgio. Una leggenda, ambientata nel V secolo d.C., narra la storia della principessa Dymphna, la quale, fuggita dalle incestuose intenzioni del padre, un innominato re d’Irlanda, trovò rifugio a Geel, presso la cappella di S. Martino. Il padre, che la inseguiva poiché vedeva in lei il ritratto vivente della defunta moglie, la ritrovò e la decapitò durante un attacco di follia. Al momento della riesumazione delle reliquie, i resti della salma di Dymphna vennero trovati in un’insolita cassa di pietra bianca. I cittadini di Geel che assistettero a questo fatto iniziarono a credere che la martire fosse stata seppellita dagli angeli e cominciarono a pregare Santa Dymphna per il sollievo dalla follia. Inoltre secondo la leggenda cinque “lunatici” dormirono nel posto in cui la principessa venne decapitata e si risvegliarono completamente guariti.

Fin dalle prime guarigioni iniziò il pellegrinaggio dei folli, i quali venivano accompagnati dai parenti a Geel per prendere parte alle cosiddette “Novene”, che consistevano in nove giorni di preghiera e penitenza presso la cappella di Santa Dymphna. I risanati facevano ritorno a casa, gli altri venivano sistemati, dietro piccolo compenso economico o di manodopera, presso le famiglie del posto, in modo tale da poter proseguire il soggiorno espiatorio.

Nel XV secolo venne emanata la prima disposizione regolamentare relativa alla permanenza dei folli a Geel, a questa ne seguirono altre durante il 1700, le quali stabilivano tra l’altro che i malati non potevano sostare per le strade nelle ore buie del giorno e non potevano fare uso al di fuori delle mura domestiche né di fuochi né di pipe. Contenevano inoltre istruzioni sull’uso di fasce, catene ed altri mezzi di contenzione, per impedire ai folli di commettere danni. Moltissimi malati continuavano ad arrivare a Geel, perfino il prefetto francese del dipartimento della Gyle inviò nella cittadina belga gli ospiti del manicomio di Bruxelles, poiché trovava che “lì (a Geel) la sorte dei matti fosse di gran lunga più buona di quella dei ricoverati in ospedale”.

Nel 1850 venne emanata la prima “Legge nazionale su malati mentali” la quale si occupava dell’inserimento eterofamiliare equiparandolo, a livello legale, al ricovero in ospedale psichiatrico. Le leggi promulgate successivamente identificavano la regione di Geel come una “istituzione psichiatrica”. Nel 1851 venne decretato un regolamento per Geel al quale seguirono numerose riedizioni, fino a quella del 1912, valida tutt’oggi. Nel 1862 venne costruita la cosiddetta infermeria, una sorta di clinica “deposito” nella quale alloggiavano i pazienti in attesa di una famiglia disponibile ad accoglierli.

Molti illustri psichiatri si recarono a Geel per vedere di persona        “i matti accolti in famiglia”. Il Dott. Roller, dopo un viaggio a Geel nel 1857, riporta la seguente testimonianza: “… Non esiste alcuna classificazione dei malati e non è permesso a pazienti di sesso opposto, se non dietro permesso speciale, di alloggiare presso la stessa famiglia. Gli appartamenti sono di solito buoni e puliti. Ogni malato dorme nel proprio letto di paglia fresca e si alimenta con pane di segale, legumi e carne di maiale… a Geel i matti non vengono derisi neanche dai bambini… nessuno ha paura dei matti. Essere autorizzati a diventare padre affidatario rappresenta un onore, venir debilitati da ciò, una vergogna. Trattare bene i pazzi è per tutti un dovere…”.

Nel 1982, durante il processo di federalizzazione dello stato belga, l’inserimento eterofamiliare di Geel passa ad essere di competenza del ministero della salute pubblica della comunità fiamminga e riceve il suo nome attuale: Openbaar Psychiatrisch Ziekenhuis (Ospedale psichiatrico pubblico). Nel 1960 le famiglie di Geel ospitavano 2100 pazienti, mentre altri 300 erano ricoverati in clinica, nel 1992 le famiglie affidatarie erano 630 per 830 pazienti.

Oggi il sistema di trattamento in famiglia a Geel consiste nell’inserire pazienti psichiatrici, durante la loro ospedalizzazione, presso famiglie affidatarie, tutto ciò all’interno del quadro terapeutico di un ospedale psichiatrico. L’organizzazione dell’inserimento e l’assistenza al paziente ed alla famiglia sono garantite da 5 équipes dette “Comitati per l’alloggiamento”, ciascuna composta da 3 infermieri, 1 medico, 1 psicologo e 1 assistente sociale, le quali sono responsabili dei 15 settori in cui è stato suddiviso il territorio di Geel. Alla famiglia è richiesto alloggiamento, vitto, contatti affettivi, attenzione, controllo, incoraggiamento alla risocializzazione, stimolazione al mantenimento delle cure terapeutiche, controllo della cura generale della persona.     Le famiglie affidatarie operano senza ricevere alcun addestramento formale, si basano sulle loro attitudini terapeutiche tradizionali, al fine di integrare la persona accolta nella vita quotidiana. La famiglia riceve per ogni ospite (massimo 3) un sussidio economico.

Dagli studi effettuati è emerso che le persone curate a Geel sviluppano dei legami forti sia con le famiglie curanti sia con l’ambiente esterno e spesso presentano la scomparsa dei sintomi bizzarri.            Le infrastrutture cliniche che rendono possibile l’inserimento eterofamiliare sono: l’ospedale psichiatrico centrale, la farmacia, un’équipe terapeutica che si occupa delle cure a domicilio, il servizio barbiere e pedicure, la terapia occupazionale al domicilio o in uno dei centri sparsi sul territorio, un calendario di attività culturali, sportive e ricreative ed il servizio pastorale a domicilio. L’eventuale ricovero in clinica, che vada ad interrompere una convivenza, è vissuto dai pazienti come un provvedimento punitivo.

L’esperienza secolare di Geel è emblematica per gli affidamenti eterofamiliari di persone sofferenti di disturbi psichici. L’attività prosegue tutt’oggi, come ha testimoniato il Dr. Marc Godemont, responsabile del servizio di accoglienza familiare belga, il quale ha partecipato come relatore al 3° Convegno nazionale e rete europea dell’Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti (IESA) che si è tenuto a Treviso l’8 e 9 giugno del corrente anno 2006.

 

2.            La leggenda dell’acqua miracolosa del tempio di Daiun ad Iwakura

 

L’origine dell’inserimento eterofamiliare eterofamiliare in Giappone è ricondotta all’XI secolo ad Iwakura, una cittadina nelle vicinanze di Kioto. Secondo la leggenda la figlia dell’Imperatore Gosanjo, all’età di 29 anni, cominciò ad esibire strani comportamenti: smise di curare la propria persona, evitò progressivamente le relazioni con gli altri ed iniziò a parlare in modo incoerente e fatuo. L’imperatore, preoccupato per le condizioni della figlia, pregò Budda, il quale gli apparve in sogno e gli indicò l’acqua sacra del tempio di Daiun ad Iwakura come cura ideale per la figlia. Gosanjo fece predisporre la camera di meditazione del tempio per la convalescenza della figlia e questa, dopo aver bevuto l’acqua sacra, recuperò il proprio benessere. La notizia della guarigione della figlia dell’imperatore fece il giro del Giappone ed in poco tempo il tempio di Daiun diventò la meta del pellegrinaggio di tutti i sofferenti mentali del paese. La camera di meditazione si riempì subito ed i paesani limitrofi al tempio iniziarono ad ospitare presso le proprie dimore i sempre più numerosi pellegrini.

L’accoglienza familiare proseguì nei secoli e nel 1884 i cittadini di Iwakura costruirono un manicomio chiuso per pazienti violenti e lo chiamarono Tenkyo (pazzo). Nel 1892 il nome venne mutato in Iwakura Boyn (ospedale), la gestione rimase in mano ai cittadini per altri 9 anni, dopodiché passò ad un medico.

Nel 1900 fu emanata la “Legge sul confinamento e sulla protezione dei malati mentali”, la quale prevedeva la possibilità di ospitare presso la propria casa, in apposite “celle private”, persone sofferenti di disturbi psichici. Nel 1917 i pazienti ricoverati in ospedali psichiatrici erano 4200, mentre 4500 venivano ospitati nelle celle private. La situazione mutò rapidamente negli anni in favore dei manicomi, i quali nel 1970 offrivano ricovero a 20.000 persone, mentre 2700 vivevano ancora nelle celle. È importante sottolineare che l’ospitalità offerta nelle celle è cosa ben diversa dall’originaria accoglienza eterofamiliare, infatti nel primo caso si trattava di prigionia brutalizzata dei già sfortunati malcapitati, nel secondo caso, nonostante le differenze culturali, si aveva a che fare con una pratica molto simile a quella di Geel.

Nel 1950 però la legge sull’Igiene mentale mise al bando entrambe le pratiche e le famiglie di Iwakura cessarono di ospitare persone sofferenti di disturbi psichici, le quali venivano ricoverate in cliniche psichiatriche private. La testimonianza del direttore di una delle cliniche evidenzia la differenza tra i vecchi cittadini di Iwakura ed i nuovi residenti nell’approccio con i degenti: coloro che hanno vissuto gli anni dell’accoglienza familiare, se vedono un folle aggirarsi spaesato per le strade, lo trattano con gentilezza e lo aiutano a far ritorno  alla clinica, i “nuovi cittadini” invece si mostrano seccati ed invitano il personale della clinica a venirsi a riprendere al più presto il paziente.

Nonostante tutto però sembra che nel 1967 ancora 3 persone sofferenti di disturbi psichici trovassero segretamente ospitalità presso una famiglia di Iwakura.

 

 

3.            L’oppio antidepressivo di Brema

 

Nel 1764 il medico militare Friedrich Engelken, avendo scoperto l’oppio in alcuni viaggi nelle colonie olandesi, iniziò ad utilizzarlo nella sua clinica privata di Brema per il trattamento della melanconia. Il successo terapeutico fu grande ed il medico volle mantenere segreta l’identità della “medicina miracolosa”. In poco tempo la sua piccola clinica venne sovraffollata ed i depressi, che continuavano ad accorrervi, vennero sistemati presso le case dei contadini dei vicini sobborghi.

Un secolo dopo, attraverso la riforma della Psychiatrische Familienpflege, questo inizialmente ingenuo utilizzo dell’inserimento eterofamiliare acquisì maggior legittimità e regolamentazione. In base ad un rapporto annuale sulla Familienpflege a Brema risulta che nel 1884 il servizio aveva in carico 112 pazienti distribuiti in 57 famiglie. Ancora oggi a Brema la Psychiatrische Familienpflege è una pratica molto diffusa.

 

4.            Il poeta Friedrich Hölderlin ospite di un falegname: un illustre caso di Psychiatrische Familienpflege

 

La Psychiatrische Familienpflege tedesca vanta tra i suoi utenti un personaggio illustre, il poeta lirico Friedrich Hölderlin, il quale tra il 1807 ed il 1843, anno della sua morte, soggiornò presso la famiglia Zimmer a Tübingen. Nel 1806, a causa dei suoi sempre più frequenti atteggiamento insoliti, Hölderlin venne ricoverato nel manicomio di Tübingen, ove gli venne addirittura pronosticato un tempo massimo di sopravvivenza di 3 anni. Durante il suo ricovero gli fece spesso visita il mastro falegname Ernst Zimmer, grande stimatore delle sue opere. Questi, invitato dall’ormai rassegnato direttore del manicomio a prendersi cura degli ultimi giorni dell’illustre poeta, decise di ospitare Hölderlin a casa sua. Allestì per lui una comoda camera al piano alto di una torre con vista sulle floride valli attigue e, per rendere vivo l’ambiente, subaffittò altre camere della sua casa a studenti universitari.

Zimmer era una persona colta ed attenta e promise di trattare il malato con amore e devozione. Quattro volte l’anno egli scriveva ai parenti del poeta per informarli sulle sue condizioni. Casa Zimmer era un luogo allegro e non poco movimentato, con sotto anche la bottega. Hölderlin divenne presto un personaggio celebre nella relativamente piccola città universitaria, molti studenti si recavano da lui per vederlo, per intervistarlo, per imbastire qualche teoria sulla sua follia. Uno di questi studenti scrisse nel 1808 ”… Hölderlin crede di avere sempre a che fare con visitatori venuti a rendergli omaggio, disputa con loro, ascolta le loro obiezioni, li contrasta con grande vivacità, fa citazioni da grandi opere da lui scritte e altre che sta scrivendo…”. Durante il suo più che trentennale soggiorno dagli Zimmer Hölderlin continuò a comporre un’infinità di poesie, firmate per lo più con gli pseudonimi “Scardanelli” e “Buonarroti” e datate, pare, in maniera casuale.

Con Zimmer e la sua accogliente famiglia il poeta malato si trovò certamente bene. Con orgoglio il falegname ricordò nelle sue lettere come il poeta a casa sua sopravvisse alla sfiducia della medicina ufficiale per altri 36 anni, e pur senza totali guarigioni, trasse grandi benefici sotto il profilo psichico, intellettuale e relazionale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2.    Aspetti teorici dell’affidamento eterofamiliare

 

 

1.            Definizione e classificazione

 

Secondo il Dr. Aluffi, Coordinatore del Servizio per l’inserimento eterofamiliare del DSM[2] 5b dell’ASL 5 di Collegno, l’inserimento eterofamiliare supportato di adulti sofferenti di disturbi psichici (I.E.S.A.) consiste nell’integrazione di una persona in difficoltà presso una famiglia che non è la sua originaria. In cambio dell’ospitalità offerta, la famiglia riceve un sussidio mensile e viene regolarmente e professionalmente assistita dagli operatori di un’équipe preposta (Aluffi G., 2001). Le linee guida per la regolamentazione del servizio di inserimento eterofamiliare di Collegno sottolineano altresì che per inserimento eterofamiliare si intende una modalità abitativa alternativa al ricovero in istituzioni chiuse, complementare ad altre soluzioni extra-istituzionali e rivolta ad utenti dei servizi psichiatrici.

Gli operatori dell’ASL 8 DSM di Chieri considerano l’accoglienza familiare come una modalità abitativa che integra una persona in difficoltà presso una famiglia terza, la quale riceve un sussidio mensile e viene regolarmente e professionalmente assistita dagli operatori di una équipe preposta. Tra le alternative ad una residenzialità strettamente sanitaria è da collocarsi l’accoglienza da parte di famiglie disponibili ad offrire ai pazienti tutte le valenze affettive e di privacy rappresentate da una casa e dalle sue relazioni. Ambiente che viene a perdere quegli inevitabili aspetti sanitari connotanti le comunità psichiatriche (Campisi P., Ferrua R., Massaglia R., Tamagnone C., in Atti 2° Conv. Naz. IESA, Lucca 2001). Lo stesso programma di affidi familiari di pazienti psichiatrici della ASL 8 sottolinea che l’affidamento familiare può costituire una nuova modalità assistenziale nell’ambito di progetti terapeutico riabilitativi, rappresentando una valida alternativa al ricovero in strutture protette e consentendo altresì un notevole contenimento dei costi.     

Una classificazione internazionale riportata dal Dr. Aluffi (op.cit.) conferma l’esistenza di quattro forme di applicazione dell’inserimento eterofamiliare per pazienti psichiatrici: Colonie di pazienti o Tipo concentrazione, Indipendente dagli ospedali o Tipo dispersione, Centrata sull’ospedale o Tipo appendice e Tipo semiprofessionale.

§               Colonia di pazienti o Tipo concentrazione: con questi nomi si intende la sistemazione di molti pazienti psichiatrici in famiglie di un solo paese o città. Esempi sono Geel (Belgio), Iwakura (Giappone), Dun-sur Auron ed Anay le Chateaux (Francia).    

§               Indipendente dagli ospedali o Tipo dispersione: in questo caso i pazienti vengono distribuiti presso famiglie sparse sul territorio nazionale, senza particolari concentrazioni in paesi o città. Questa formula è stata adottata in Scozia, in Norvegia ed in Germania ai tempi della Repubblica di Weimar. L’assistenza ed il controllo erano affidati a figure non sanitarie: preti, forze di pubblica sicurezza ed altre figure significative per l’epoca.

§               Centrata sull’ospedale o Tipo appendice: è la forma più diffusa, secondo la quale i pazienti dimessi dall’ospedale psichiatrico vengono inseriti in famiglie dislocate nella regione di competenza della clinica, in modo da continuare ad essere assistiti dal personale di questa. Attualmente tale formula viene adottata in Germania, Svizzera, Olanda, Francia, USA e Canada. Un’espressione molto simile ma, per ovvie ragioni storiche e organizzative, presente solo in Italia, è quella che potrebbe essere definita Servizio del Dipartimento di Salute Mentale. Qui gli inserimenti eterofamiliari vengono gestiti da un’équipe di operatori dell’ASL, in stretto contatto con tutte le altre realtà operative del DSM (Aluffi G., in Atti 2° Conv. Naz. IESA, Lucca 2001).

§               Tipo semiprofessionale: caratterizzato da appartamenti, situati nelle vicinanze delle cliniche ed occupati da infermieri delle stesse, i quali cominciarono ad ospitare alcuni pazienti. Tale modalità era diffusa tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo in Germania nei cosiddetti “Paesi di cura” ed in Italia.

Queste quattro categorie vanno considerate come riferimento puramente teorico. Per quel che riguarda la pratica, in ogni paese in cui viene praticato l’inserimento eterofamiliare, esistono sicuramente multiple e differenziate modalità applicative.

Oltre alla sopraccitata classificazione, relativa più alle modalità strutturali ed agli aspetti storico-culturali, il Dr. Aluffi ne riporta una seconda, secondo la quale l’inserimento eterofamiliare può essere distinto in tre categorie sulla base della durata media della convivenza: Breve termine, Medio termine e Lungo termine (Aluffi G., op.cit.).

§               Breve termine: si tratta di un intervento focalizzato sul periodo della crisi che può colpire il paziente o il sistema in cui vive. Di solito la durata va da alcuni giorni ad uno o due mesi. Attualmente al mondo esistono rarissime esperienze operanti attraverso l’inserimento eterofamiliare a breve termine, tra le più significative troviamo il Crisis Home Program di Dane Country (USA) e le Crisis Farm sparse sul territorio piemontese gestite dalla Cooperativa Sociale Alice nello specchio di Torino.         Come sottolinea il Dr. Aluffi, la peculiarità di questo tipo di intervento risiede nel fenomeno della decontestualizzazione ambientale, spesso assai utile a superare momenti di difficoltà. Il fatto che tale ricovero avvenga in ambienti familiari e non ospedalieri facilita e rende meno drammatico per il soggetto il periodo della crisi. A conferma della preferenza del ricovero in ambiente familiare rispetto a quello in clinica sono i dati riportati da Russel Bennet, Responsabile del Crisis Home Program della contea di Dane (USA), il quale sostiene che gran parte dei pazienti trattati con questo metodo si rivolge spontaneamente al servizio durante le fasi prodromiche della crisi chiedendo di essere ospitati in famiglia per il periodo necessario (Aluffi G., in op.cit.).     

§               Medio termine: si tratta di inserimenti eterofamiliari la cui durata va da alcuni mesi ad un paio d’anni, indirizzati generalmente a persone giovani ed impegnate in attività lavorative o riabilitative all’interno dei servizi psichiatrici, per le quali è previsto un recupero, anche solo parziale, delle funzioni temporaneamente compromesse. Si ipotizza quindi che il soggetto sia in grado di raggiungere un livello di autonomia tale da consentirgli di vivere in situazioni abitative meno protette (alloggi supportati o casa propria). Ciò è sottolineato anche dal progetto per l’affidamento eterofamiliare del DSM dell’ASL 10 di Pinerolo, secondo cui l’affidamento deve rappresentare una possibilità transitoria, all’interno di un continuum di opportunità residenziali, per quelle persone che, presentando difficoltà nelle abilità di vita, non sono ancora pronte ad una vita autonoma, ma per le quali è auspicabile un recupero.

§               Lungo termine: riguarda inserimenti della durata superiore a due anni.   È tendenzialmente rivolto a persone anziane o ai cosiddetti “pazienti cronici”, le cui disabilità psicofisiche, o i bisogni di cure assistenziali, non permettono di ipotizzare un percorso riabilitativo significativo. Il progetto per l’affidamento eterofamiliare del DSM dell’ASL 10 di Pinerolo prevede infatti che l’affidamento sia visto come opportunità a lungo termine per quegli utenti che presentano numerose e gravi difficoltà o un’età avanzata, tali da rendere difficile un movimento verso una maggiore autonomia. Come evidenzia il Dr. Aluffi, questi affidamenti sono finalizzati a dare la possibilità di vivere in un ambiente tranquillo e affettuoso l’ultima parte della vita. In certi casi si assiste ad un vero e proprio “rifiorire” dell’ospite, attraverso l’apprendimento o il recupero di determinate capacità (Aluffi G., in op.cit.).     

In base alle esperienze realizzate fino ad oggi nei DSM piemontesi, si può effettuare un’ulteriore differenziazione tra affidamenti a tempo pieno, cioè sulle 24 ore, ed affidamenti a tempo parziale (o diurni). In questo secondo caso la persona non vive stabilmente a casa della famiglia affidataria, bensì trascorre con loro soltanto una parte della giornata, oppure alcuni periodi (infrasettimanali, week-end, ecc.).

Infine un’ulteriore tipologia di affidamento che ricorre di frequente nella pratica dei servizi psichiatrici piemontesi è l’affidamento a tempo determinato e con obiettivi specifici. Si tratta di situazioni in cui gli operatori dell’équipe curante ritengono utile e necessario per la persona trascorrere un certo periodo in famiglia al fine di acquisire specifiche abilità, in vista di una diversa e successiva sistemazione.

 

 

2.            Lo stigma della malattia mentale: sinonimo di esclusione e progressiva perdita di competenze sociali  

 

L’immagine falsa e distorta che la società ha del malato psichico non è solo la risultante delle esperienze di persone comuni che hanno avuto a che fare con malati psichiatrici, ma anche la conseguenza di atteggiamenti e comportamenti che caratterizzano il rapporto della psichiatria stessa con i propri malati. Finché la psichiatria continuerà a tenere una parte assolutamente sproporzionata dei propri malati in condizioni di degenza chiusa e di sicurezza, finché esisteranno settori d’ospedale chiusi che, all’esterno per via di grate e cancelli e all’interno per i regolamenti restrittivi, non si distinguono dalle carceri, non ci si potrà meravigliare del fatto che l’opinione pubblica veda nel malato psichico una persona imprevedibile, malvagia e pericolosa (Lange E., in L’immagine sociale della malattia mentale, 1997).

Sotto questo punto di vista, la riforma psichiatrica italiana si presenta come profondamente innovativa e lungimirante per le disposizioni enunciate e soprattutto per le posizioni ideologiche che sottende.

La legge psichiatrica n. 180 del 1978, che dispone la chiusura dei manicomi, oltre a regolamentare “ex novo” l’assistenza psichiatrica nel nostro paese, ha rappresentato un evento importante per i risvolti radicali impressi al costume ed alla cultura in tema di malattia mentale.

Il modello italiano di assistenza psichiatrica si basa su una legge che ha una sua vigorosa provocatorietà ed un’importante carica utopica, tale da incidere in maniera significativa su prassi, consuetudini e pregiudizi. La sua ardua applicazione coinvolge nodi importanti della convivenza civile, quali gli aspetti inerenti ai criteri di pericolosità, di malattia mentale, di libertà individuale, di emarginazione (De Martis D., 1987).

Se tutti i precedenti tentativi legislativi avevano contribuito all’isolamento della psichiatria, rispetto all’auspicata organica integrazione nel Servizio Sanitario Nazionale, la 180 fa di questo obiettivo uno dei suoi cardini irrinunciabili.  

In questo rinnovato contesto operativo dovrebbe modificarsi la collocazione sociale del malato psichico ed i suoi rapporti con i cosiddetti “sani”, e dovrebbe conseguentemente delinearsi una nuova immagine del malato e della malattia, certo diversa rispetto a quella dell’epoca manicomiale. Ma così non è, infatti la penetrazione di questa rinnovata immagine del paziente psichiatrico nell’opinione pubblica si rivela fragile ed incompiuta (Frick B., Clerici M., Carrà G., 1997).

Il senso profondamente modificatorio del costume sociale, attinente il disagio mentale, sollecitato dalla 180, non ha ancora permeato abitudini e credenze profondamente radicate nell’immaginario collettivo, soprattutto per quanto riguarda concetti come pericolosità, emarginazione e stigma. La tendenza a criminalizzare le condotte devianti dei malati di mente è ancora attiva e chiaramente testimoniata dall’aumento degli ingressi negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, a tutt’oggi non coinvolti nella riforma (Servizio Studi Camera Deputati, 1984).

La parola stigma significa marchio, impronta, segno distintivo. Per gli esperti di salute mentale, il termine indica la discriminazione basata sul pregiudizio nei confronti del malato. Ma per un malato mentale lo stigma significa, ogni giorno, esclusione, rifiuto, vergogna, solitudine (Ministero della salute, 2004).

Il pregiudizio nei confronti dei malati mentali ha radici che affondano nel tempo e si propagano ancora oggi in tutti i paesi, specie quelli progrediti. Nasce e cresce su un terreno di false informazioni accettate in modo passivo e acritico. Ancora oggi la maggior parte delle persone non sa cos'è realmente una malattia mentale e soprattutto non sa che una persona colpita da tali disturbi, se adeguatamente curata, può recuperare capacità intellettive e relazionali, compatibili con una vita sociale attiva e produttiva.

L'ignoranza sull'identità medica della patologia psichiatrica è spesso la prima causa del più grave errore di percezione, interpretazione e comportamento che la società commette nei confronti del malato. Spesso è proprio questa mancanza di conoscenza a determinare la nascita dello stigma con cui si trovano a convivere le persone sofferenti di disturbi psichici.

Stigma è soprattutto sinonimo di esclusione sociale, una condizione in cui l’individuo ha scarse o nessuna relazione con i micro e macro sistemi sociali di riferimento: famiglia, parentela, vicinato, gruppi di pari, ambiente di lavoro, ecc. (Gerbino G., in Dizionario di Servizio Sociale, 2005).   

Per meglio comprendere questa condizione riporto un pensiero di un “eroe del quotidiano”: - Sono un paziente psichiatrico, malgrado la mia età ho conseguito l’invalidità psichica a quarant’anni, ormai agli albori della terza età non sono mai riuscito ad inserirmi socialmente nella società (vita normale dei torinesi). Questo perché cammino insieme a tutti gli altri normali, vado in autobus insieme a tutti gli altri normali, ma la mia vita si svolge in ambienti particolari dove si appartiene ad un mondo di diversi. Ambulatori psichiatrici e associazioni che si occupano dei malati psichici. A parte questo c’è il bar o il bistrò la sera, la notte, però è lo stesso discorso di vivere come un’ombra nella società. Se si incontra qualcuno non possono assolutamente rendersi conto del baratro di diversità, di stile di vita che conduco. Se incontri un altro malato al bar si tende ad evitarlo in quanto si sa, voce popolare, che possono comportarsi in modo eclatante. Ma proprio questo mio apparire come un alieno è stata la chiave di presentazione di tutta la mia vita e la causa della mia invalidità più sociale che psichica. Anche frequentando familiari o consanguinei, adesso che è di moda parlare di DNA, persone del mio stesso gruppo etnico, sono sempre considerato un diverso - (Alex). Leggendo queste righe si comprende appieno il senso di esclusione, inadeguatezza e solitudine che “invade” la vita delle persone sofferenti mentali.

Lo stigma e la solitudine rappresentano i principali ostacoli alla cura poiché generano un circolo vizioso fra malattia e pregiudizio: il malato, in fuga dalla propria condizione per timore dello stigma, non riesce a migliorare e si isola, peggiorando il proprio stato di esclusione e rafforzando il pregiudizio stesso (Ministero della salute, op.cit.). In altre parole spesso la persona, pur avvertendo un disagio, rifiuta l’aiuto dei servizi psichiatrici, poiché teme che rivolgendosi a loro “gli altri” possano considerarlo “matto”.

Il timore del giudizio altrui porta il sofferente ad evitare il contatto con il mondo esterno, a chiudersi in se stesso e a “perdersi” nei propri pensieri negativi e spesso deliranti. L’assenza di un aiuto psico-socio-farmacologico determina l’acutizzazione dei sintomi, il comportamento della persona diventa sempre più bizzarro, talvolta aggressivo, e comunque inappropriato rispetto alle usuali norme sociali.                     La conseguenza di ciò è il peggioramento della condizione di esclusione del sofferente, in quanto viene considerato sempre più pericoloso ed imprevedibile.

Lo stigma che caratterizza il disagio mentale si unisce alla reale complessità della malattia, la quale ha ripercussioni su tutte le aree significative della vita della persona e ne compromette la funzionalità, determinando conseguenze sociali sfavorevoli al suo sviluppo psicofisico e mentale (Spisni L., in Dizionario di Servizio Sociale, 2005).

La perdita di competenze sociali risulta così inevitabile: la cura della propria persona diviene scarsa o assente, l’abbigliamento trascurato, si manifestano difficoltà nel trovare o mantenere un lavoro, nel tenere in ordine la casa, diminuiscono o si annullano le attività e gli interessi ricreativi, si è incapaci di mantenere nonché di stringere legami affettivi, si trascorre la maggior parte del tempo soli, in casa, senza far nulla.

La diminuzione della capacità della persona di far fronte alle richieste legate ai ruoli interpersonali, sociali e lavorativi e il conseguente stato di bisogno ad ampio raggio che ne deriva, sono stati e sono oggetto di intervento specifico da parte dei servizi socio-sanitari, i quali promuovono interventi che vedono al centro la persona nella sua unicità (Spisni L., in op.cit.). 

Si può superare l’esclusione sociale con l’aiuto degli operatori dei servizi psichiatrici territoriali, ai quali è affidato il compito fondamentale di aiutare la persona a tessere la propria rete, portandola ad avere un sostegno naturale, una maggiore autonomia ed integrazione nel tessuto sociale. L’operatore che sceglie di effettuare una “presa in carico diversa” (Ferrario F., 1992), deve connettersi con le risorse presenti sul microterritorio del soggetto, facendo da tramite per la creazione di nuove relazioni significative.

Tra le risorse che possono essere impiegate per aiutare il malato psichico a reinserirsi nella comunità locale vi è l’affidamento eterofamiliare, grazie al quale il soggetto viene accolto da una famiglia, diversa da quella di origine, che svolge il ruolo di “facilitatore sociale”, che garantisce sostegno affettivo, aiuto concreto nello svolgimento delle attività della vita quotidiana ed incoraggiamento a proseguire il percorso riabilitativo.

 

 

3.            La rivalutazione della famiglia: da famiglia patogena a risorsa sociale

 

L’individuo è un’unità complessa, ed è altresì parte di un sistema, quello familiare, che ne connota l’identità e ne modifica la stessa personalità. La persona rappresenta infatti il prodotto e la sintesi di forze intrapsichiche, di eredità congenite e di influenze familiari; il suo comportamento è stato inteso come direttamente e inversamente proporzionale all’immagine che la famiglia ha di sé, condizionata dall’immagine che della famiglia ha la società. È dalla famiglia che l’individuo trae il suo nutrimento fisico e culturale, l’insegnamento (amare, pensare, riflettere, ecc.), l’identificazione con se stesso e con il gruppo, il suo divenire “essere sociale“ (Rovai B., in Dizionario di Servizio Sociale, 2005).

La presenza di un congiunto affetto da una malattia mentale ha un profondo effetto disgregante sulla vita della famiglia, la quale si trova ad affrontare la necessità di provvedere alle esigenze del membro malato, ma al tempo stesso deve sanare i conflitti inevitabili che sorgono tra i membri “sani”, il tutto in un’atmosfera densa di confusione, senso di colpa e solitudine. Per i genitori, ed in misura minore anche per gli altri famigliari, il sentimento di colpa costituisce un ostacolo comune e molto difficile da superare, prima di riuscire ad affrontare la situazione. Tale sentimento nasce dalla nozione comune, benché errata, che l’instabilità mentale del figlio sia prodotta invariabilmente da genitori instabili, cattivi o quanto meno incompetenti. Il sentimento di colpa può gravare anche su mogli, mariti, figli e fratelli, è tipica in loro l’idea di aver provocato la malattia del congiunto con una trascuratezza o con qualche loro comportamento. I familiari cercano spiegazioni per la malattia anche in altre direzioni, a parte il loro comportamento, e spesso prevalgono sentimenti di collera verso il congiunto malato, poiché si ritiene che finga la malattia per manipolare gli altri. Inoltre l’ansia, la paura per il futuro sono sensazioni sempre presenti e divoranti: c’è preoccupazione per cosa avverrà oggi e soprattutto per cosa accadrà in futuro, quando chi assiste il malato mentale non potrà più occuparsene. Figli e fratelli si preoccupano per la possibilità che l’onere del malato possa passare a loro, e ciò provoca sovente un grande risentimento verso il congiunto che ha esaurito le energie della famiglia, che non è stato in grado di ricoprire il ruolo che gli spettava, che li ha messi più volte in imbarazzo con il suo comportamento alterato, che diventerà un peso nell’età adulta, quando dovranno badare anche alle proprie famiglie. Avere un familiare malato di mente provoca, quindi, sentimenti molto forti nei membri della famiglia, va ad intaccare pericolosamente equilibri e ruoli personali (Bernheim K., Lehman A.,1987).  

Durante l’epoca manicomiale i pazienti venivano allontanati dalle loro famiglie, le quali avevano avuto in precedenza la quasi totale responsabilità dell’assistenza. Le famiglie venivano specificamente scoraggiate dal fare visite nel manicomio. Tale politica nasceva dal presupposto che i genitori in qualche modo erano stati incapaci di trasmettere adeguati valori morali ai figli affetti da malattia mentale, e pertanto essi avevano contribuito alla loro anormalità. Si riteneva anche che il contatto emotivo con le famiglie potesse produrre nei pazienti periodi di crisi acuta. Così le famiglie erano incolpate in parte per la malattia dei familiari ed escluse dalla loro assistenza (Bernheim K., Lehman A., op.cit.).  

Con la chiusura dei manicomi i malati psichici rientrano nelle loro famiglie, le quali tornarono ad essere il luogo di vita del malato e pertanto a rivestire un ruolo fondamentale nella sua cura e riabilitazione. Dopo il periodo di messa all’indice delle famiglie come generatrici di patologie, ritenute incompetenti perfino rispetto all’educazione dei figli e alla loro introduzione alla realtà, famiglie orientabili solo grazie all’intervento di servizi competenti, perché informati da ideologie centralistiche, si assiste ad un ritorno alla valorizzazione delle famiglie come risorse, al passaggio dalla famiglia patogena ed incompetente alla famiglia come luogo risanante (Campisi P., in Atti 2° Conv. Naz. IESA, Lucca 2001.).

Ma il nucleo familiare di origine non sempre è presente, e anche se è presente non è detto che sia disposto a prendersi cura del malato psichico, collaborando con i servizi, rendendosi parte attiva ed integrante del progetto terapeutico. Un nucleo familiare espulsivo può essere peggio di un nucleo familiare assente.

In queste situazioni l’accoglienza in una famiglia diversa da quella di origine  rappresenta una chance terapeutica per la persona sofferente di disturbi psichici, la quale ha bisogno di relazioni significative, attraverso cui percepire le proprie capacità e potenzialità da poter mettere a servizio della comunità. Chi si sente socialmente utile cresce in autostima, allarga il proprio repertorio comportamentale e accresce il senso della propria dignità (Ferrario F., 1992). Accogliere soggetti con disturbi psichici in famiglia può sembrare improbabile, perché si ritiene che questi abbiano soprattutto bisogno di cure mediche, di farmaci, di psicoterapie, dimenticando che sono persone con gli stessi bisogni di affetto, di normalità e di senso di tutti gli uomini. E comunque la gestione della salute mentale è impegno troppo serio per delegarlo ai soli psichiatri, serve il contributo di tutte le risorse sociali, famiglie comprese (Campisi P., in op.cit.).

I non professional possono raccogliere la sfida di accogliere nelle proprie case coloro che un tempo venivano definiti “folli” e che sovente la medicina psichiatrica con la sua logica ospedaliera non riusciva a curare. Nel 1821 Esquirol, allievo di Pinel, che stava inventando la psichiatria, venne mandato da Parigi a vedere quel che succedeva a Geel, qualcosa che minacciava di mettere in crisi anticipata la nascente psichiatria. “È incredibile” ammette Esquirol “i due terzi della popolazione a Geel sono matti ma girano liberamente per la campagna senza che gli altri ne abbiano paura”. Esquirol, intellettuale illuminista francese, si inchina di fronte al prodigio compiuto da contadini ignoranti e analfabeti. Il folle percepisce chi lo accoglie e lo accetta e lo valorizza per quello che è prima di tutto come persona, che è ben oltre la sua malattia (Ramonda G. P., in Atti 1° Conv. Naz. IESA, Torino 2000).

 

 

4.            I processi terapeutico riabilitativi attivati dall’affidamento eterofamiliare

 

In ogni persona esistono delle risorse che possono essere sviluppate se, all’interno dell’ambiente sociale e familiare di riferimento, trovano un terreno favorevole.

Attraverso l’accoglienza in famiglia, con le sue dinamiche relazionali e le sue possibili figure di identificazione e di attaccamento, hanno luogo quell’integrazione e quella possibilità di sviluppo e di riscatto che rendono possibile all’ospite il recupero di un ruolo, di un’identità nuova. L’ex paziente di comunità si trova così a ritornare ed essere un cittadino con un proprio spazio privato, con il proprio nome sul campanello e sulla buca delle lettere, con le sue figure di riferimento sane e, finalmente, non rappresentate da professionisti della psichiatria, inevitabilmente causa di relazioni asimmetriche e artificiose (Aluffi G, in Animazione Sociale, Novembre 2001).

La famiglia ospitante svolge anche una funzione di “nido” e protezione importantissima nelle fasi più critiche del percorso di autonomizzazione. Tale rassicurante contenimento ha in sé la fondamentale caratteristica della flessibilità, che consente di modulare l’intensità e il grado di protezione a seconda delle reali e contingenti necessità del paziente. Inoltre talvolta la famiglia si rivela uno spazio ove riacquistare un ruolo significativo per la costellazione di appartenenza, in questo modo persone anziane si trovano a ricoprire particolari ruoli sociali, come quelli del nonno o della nonna “adottivi” con tutte le implicazioni affettive e relazionali che ciò comporta (Aluffi G., in op.cit.).       

Secondo il Dr. Aluffi i processi terapeutico riabilitativi attivati dall’affidamento eterofamiliare si possono riassumente nei seguenti punti:

§               Costruzione di rapporti interpersonali con riduzione della “distanza affettiva”. Questo effetto, frutto della positiva “mobilizzazione dell’affettività” scaturita nell’ospite, rende possibile il passaggio da relazioni regolate da abitudini (situazioni caratterizzanti le istituzioni chiuse) a rapporti interpersonali regolati da affettività autentica.

§               Miglioramento delle competenze sociali, crescita dell’autonomia e delle relazioni sociali, grazie al naturale apporto di stimolo e sostegno offerto dai legami intrafamiliari.

§               Possibilità di sperimentare, attraverso l’ambiente familiare, un nuovo tempo e luogo di maturazione e crescita, possibilmente meno fallimentare del precedente, che dia modo di realizzare una sana e graduale separazione dalle figure genitoriali di riferimento.

La famiglia assume così la valenza di “ambiente terapeutico” attraverso un’opera di supporto e strutturazione. Il supporto si esprime attraverso l’aiuto nello svolgimento degli atti quotidiani, la possibilità di sperimentare esperienze che migliorino il senso del reale, la stimolazione di una realistica e sensata comunicazione con l’altro, l’attenuazione delle paure e la valorizzazione delle sensazioni di benessere, il risvegliare le capacità di iniziativa, di produttività e rinforzarle, aumentando il rispetto per se stessi. Gli elementi che favoriscono la strutturazione possono essere per esempio l’aiuto nel pianificare l’organizzazione della giornata, l’aiuto nello svolgere le ordinarie faccende di casa, lo stimolare attività di gruppo o individuali nel tempo libero, ecc. (Aluffi G., op.cit.).

La Dr.ssa Re e la Dr.ssa Del Soldato, referenti del gruppo affidi del DSM dell’USL 2 di Lucca, identificano nei seguenti punti gli indici di miglioramento del paziente psichiatrico accolto in famiglia:

§               maggiore autonomia e sicurezza nel muoversi nell’ambiente circostante;

§               riemergere di una progettualità su se stessi, più realistica rispetto alle proprie risorse sia materiali che psicologiche;

§               inserimento graduale nella rete sociale della famiglia affidataria e nel gruppo parentale della stessa;

§               disponibilità a parlare dei propri vissuti e a verbalizzare alcuni desideri;

§               minor numero di ricoveri e riduzione dei farmaci.

Il contesto relazionale in cui l’affidato viene a trovarsi è assimilabile a quello fornito dalla famiglia di origine per quanto attiene caratteristiche aspecifiche quali la full immersion, la stabilità ed il microgruppo. Ciò che rende il contesto relazionale significativo è il fare insieme nella quotidianità, che implica una vicinanza non solo fisica, ma anche emotiva. Il riassetto della sfera emozionale comporta per il paziente una maggiore disponibilità al contatto ed al confronto con gli altri. Gli affidatari divengono modelli di riferimento importanti, figure intermediarie in grado di innescare nel paziente processi di apprendimento di tipo assimilativo ed imitativo, di consentirgli di contenere meglio le angosce e le paure verso l’esterno, rinforzando comportamenti più adattivi all’ambiente e socialmente più adeguati. La famiglia affidataria funge da ambiente “sufficientemente buono”, parafrasando Winnicott, aiuta la crescita dell’individuo, poiché vivere in un contesto quotidiano solido, affidabile e vitale consente di sperimentare sensazioni originarie di stabilità e contenimento, che permettono di ripartire dal punto in cui il paziente si era fermato al momento dell’esordio della malattia (Re F. Del Soldato A., in Atti 2° Conv. Naz. IESA, Lucca 2001).

 Riflettendo sul concetto di madre “sufficientemente buona” si comprende bene il parallelismo con la famiglia che accoglie un paziente psichiatrico: secondo Winnicott c’è qualcosa nella madre del neonato che la rende particolarmente adatta alla protezione del figlio e che le permette di rispondere positivamente ai concreti bisogni di questo. La sua capacità non scaturisce tanto da una conoscenza, ma da un atteggiamento istintivo che essa acquisisce man mano che la gravidanza avanza e che fa si che essa sia la persona più idonea ad occuparsi dello sviluppo del figlio. Le cure materne forniscono al bambino il sostegno fisico e psicologico di cui ha bisogno, gli trasmettono un senso di sicurezza, contengono le sue angosce e le sue paure (De Giorgi L., 1992).     

Nella famiglia che accoglie si può individuare un meccanismo analogo alla  “preoccupazione materna primaria” di Winnicott, tale per cui la famiglia ha sovente la particolare capacità di comportarsi “istintivamente” nel modo dovuto, di soddisfare i bisogni del malato psichico, di contenere meglio le sue angosce e le sue paure verso l’esterno, di assicurargli maggior stabilità e sicurezza.  

Infine non dobbiamo dimenticare che non è solo la famiglia affidataria ad essere terapeutica per il paziente, ma spesso è lo stesso paziente ad essere terapeutico per la famiglia. Alcuni dei risvolti positivi dell’accogliere un malato psichiatrico in casa sono riconducibili al riempimento del “nido vuoto”, cioè quella fase del ciclo di vita familiare in cui la coppia sopra i 50 anni, i cui figli sono ormai da tempo fuori casa, ha spazio sia fisico che mentale ed emotivo per occuparsi di qualcun altro a tempo pieno. Per questo tipo di famiglie il paziente rappresenta un progetto comune al quale lavorare insieme, conferisce un senso, “colora” la relazione di coppia. In altri contesti, in cui le storie familiari sono caratterizzate da vissuti di sofferenza legati a perdite, la persona accolta può assumere invece una funzione riparativa. La famiglia sperimenta comunque azioni positive di gratificazione e soddisfazione, entra in relazione empatica con qualcuno che ne ha bisogno. Inoltre  talvolta accade che toccare con mano la sofferenza altrui ridimensioni in qualche modo la visione ed il vissuto delle difficoltà personali, confermando la possibilità di crescita attraverso il confronto e la partecipazione.

 

 

3.    L’affidamento eterofamiliare in Italia: storia ed attualità

 

 

1.            Dalla normativa manicomiale alla legge 180: il superamento dell’istituzione totale e la perdita di specifici riferimenti normativi relativi all’affidamento eterofamiliare

 

Già agli inizi del ‘900 la legislazione psichiatrica italiana prevedeva la possibilità di accogliere in famiglia un “alienato”, seppur con finalità e strumenti diversi rispetto ad oggi.

In quegli anni la tranquillità sociale era considerata l’interesse primario da tutelare, era fondamentale vivere in una società sana, di buoni principi e profondamente religiosa. Per questo gli infermi che venivano rinchiusi nei manicomi spesso erano coloro che non vivevano secondo le regole dominanti della cultura e della società di riferimento, che non si comportavano in modo sano, che non rispettavano i principi morali e della dottrina religiosa. L’alienato era un potenziale delinquente, un individuo colpito da un male inguaribile, aberrante, mostruoso e disumano, perciò doveva essere isolato dalla società civile, per permettere a quest’ultima di mantenere il proprio equilibrio. L’alienato non era un malato, la cui patologia necessita di cure e prevenzione, ma piuttosto un criminale, un individuo pericoloso per sé e per gli altri (Stanzani D., Stendardo V., in Diritto&Diritti, Novembre 2001).        

 L’articolo 1 della legge manicomiale n. 36 del 1904 dettava le seguenti disposizioni: “Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi. Sono compresi sotto questa denominazione, agli effetti della presente legge, tutti quegli istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque genere”.

Fin dal primo articolo emerge chiaramente che la finalità della legge manicomiale è garantire la sopravvivenza dell’alienato e soprattutto la difesa della società. L’ammissione degli alienati nei manicomi poteva infatti essere chiesta, oltre che da parenti e tutori, da chiunque nell’interesse degli infermi e della società. Il malato doveva essere internato poiché pericoloso per sé stesso e per gli altri, inoltre era fonte di pubblico scandalo.

La preoccupazione del legislatore per l’incolumità della società, vista come soggetto collettivo da proteggere e difendere dalla pericolosità degli alienati, percorre tutta la normativa. A conferma di ciò l’articolo 2 della suddetta legge stabiliva che l’autorità locale di pubblica sicurezza, quindi non una figura sanitaria, poteva, in caso di urgenza, ordinare il ricovero in manicomio, in via provvisoria, in base ad un certificato medico. L’autorità di pubblica sicurezza era obbligata a riferire del ricovero al procuratore del re, il quale poteva autorizzarlo in via provvisoria; l’ammissione degli alienati nei manicomi era autorizzata in via definitiva dal tribunale in camera di consiglio, su istanza del pubblico ministero in base alla relazione del direttore del manicomio.

I commi secondo e terzo dell’art. 1 della legge 36 del 1904 prevedevano quanto segue: “Può essere consentita dal tribunale, sulla richiesta del Procuratore del Re, la cura in una casa privata, e in tal caso la persona che le riceve e il medico che le cura assumono tutti gli obblighi imposti dal regolamento.

Il direttore di un manicomio può sotto la sua responsabilità autorizzare la cura di un alienato in una casa privata, ma deve darne immediatamente notizia al procuratore del re e all'autorità di pubblica sicurezza”.

Dunque la cura in una casa privata costituiva un’alternativa all’internamento in manicomio. Anche in questi due commi il legislatore mette in risalto il ruolo dell’autorità di pubblica sicurezza, inoltre si preoccupa di sottolineare la responsabilità che si assume il direttore di un manicomio autorizzando la cura di un alienato in una casa privata. 

L’esigenza di ricorrere all’accoglienza familiare partiva dalla situazione limite in cui versavano in quegli anni i manicomi italiani, ridotti a contenitori pronti ad “esplodere” da un momento all’altro per eccesso di ricoverati. Inoltre i costi di gestione degli stabilimenti rappresentavano per le province un eccessivo carico in molti casi insostenibile (Aluffi G., in op.cit.).

Il regio decreto n. 615 del 1909 regolamentava in maniera dettagliata la cura degli alienati nelle case private. In primo luogo all’articolo 2 viene specificato che per case private si devono intendere tutte quelle case, esclusa la casa propria dell’alienato o della sua famiglia, che, senza essere organizzate a stabilimento, ricevono uno o due alienati. L’articolo 14 del suddetto decreto indica i requisiti che venivano richiesti alla famiglia per poter accogliere presso la propria abitazione un malato psichico:

§               la salubrità della casa, la sua capacità di ricevervi convenientemente l’alienato e l’adatta disposizione degli ambienti;

§               l’ubicazione della casa, che doveva essere fuori dai centri abitati ed avere possibilmente una sufficiente estensione di terreno annesso;

§               la possibilità che l’alienato fosse adibito a qualche lavoro preferibilmente agricolo;

§               la composizione della famiglia ed i lavori in cui essa era occupata dovevano consentire all’alienato di poter avere la dovuta cura ed assistenza;

§               la buona condotta e la moralità dei componenti della famiglia.

È interessante notare come alcuni di questi requisiti siano piuttosto simili a quelli richiesti oggi dai DSM alle aspiranti famiglie affidatarie.

In riferimento alla casa, la disposizione dei locali, la sensazione di accoglienza che possono o meno trasmettere, la possibilità per l’ospite di usufruire di una stanza ad uso esclusivo sono requisiti fondamentali affinché lo spazio domestico sia idoneo ad accogliere, sia fisicamente che emotivamente, un paziente psichiatrico. Già il regolamento di esecuzione della legge manicomiale prevedeva alcune di queste caratteristiche relative alla casa (salubrità, capacità di ricevervi convenientemente l’alienato, adatta disposizione degli ambienti), aggiungendo però che quest’ultima doveva essere al di fuori dai centri abitati, presumibilmente per non turbare la quiete pubblica. Naturalmente oggi la lontananza dai centri abitati non è più un requisito necessario, anzi, spesso si privilegiano famiglie che abitano in zone vicino a negozi, supermercati, fermate di autobus, proprio per evitare che il paziente perda quelle poche abilità che ha acquisito nel tempo grazie al supporto degli operatori. La disponibilità di ampi spazi di terreno rimane oggi un elemento positivo, soprattutto se accompagnata dalla presenza di animali di cui la persona si può occupare.

La possibilità per il paziente di essere coinvolto nella gestione dell’attività della famiglia (negozio, circolo ricreativo, coltivazione o altro) è sicuramente stimolante ed arricchente, ma non strettamente necessario. È invece indispensabile che la famiglia abbia tempo da dedicare alla persona, che sia in grado di sostenerla e coinvolgerla nelle piccole attività quotidiane. Oggi come allora non sarebbe pensabile un affidamento ad una famiglia che trascorre la maggior parte della giornata fuori casa, lasciando l’ospite solo tutto il giorno, poiché si perderebbe il senso dell’esperienza e soprattutto la sua valenza terapeutica.

Lo stesso decreto di esecuzione della legge manicomiale sottolineava che la composizione della famiglia e le attività lavorative da essa svolte dovevano consentirle di prendersi adeguatamente cura dell’alienato e di fornirgli adeguata assistenza.

L’articolo 13 del suddetto decreto specificava altresì che non poteva essere autorizzata la cura in una casa privata per più di due alienati. Attualmente gli operatori dei DSM piemontesi che realizzano affidamenti familiari ritengono che di norma la famiglia possa accogliere un solo paziente, solo in casi particolari, nei quali è necessario prendere in carico una coppia (madre e figlio, marito e moglie, fratello e sorella, ecc.), si può pensare all’affidamento di due persone ad uno stesso nucleo familiare. 

Infine il regio decreto n. 615 del 1909, all’articolo 16, prevedeva che il Direttore del manicomio potesse istituire speciali corsi teorico pratici per coloro che intendevano ricevere alienati nella propria casa. Allo stesso modo, seppur con contenuti ed obiettivi differenti, la legge regionale piemontese di riferimento per l’affidamento familiare, D.C.R.  n. 357-1370 del 28.01.1997, stabilisce che la famiglia affidataria, per poter accogliere una persona sofferente di disturbi psichici, deve aver frequentato un apposito corso di formazione organizzato dal DSM.

Come riporta il Dr. Aluffi, da una statistica ministeriale emerge che nel 1902 in Italia vi erano 268 alienati assistiti in famiglia (150 a Firenze, 20 tra Reggio Emilia e Modena, 31 a Lucca, 12 a Perugia, 21 ad Ancona e 33 a Siena). Allora nel nostro paese era anche molto diffuso l’inserimento omofamiliare, ovvero i parenti biologici del paziente venivano pagati per tenerselo a casa. Questa modalità venne però respinta dalla comunità scientifica e gradualmente estinta, in quanto la monetarizzazione della patologia del congiunto poteva contribuire indirettamente alla cronicizzazione della malattia, la quale si trasformava da disgrazia a risorsa economica per la famiglia (Aluffi G., op.cit.). 

Dopo la legge manicomiale del 1904 venne emanata la seconda legge psichiatrica italiana, la legge n. 431 del 1968, la quale cambiava la denominazione dei manicomi in ospedali psichiatrici, con non più di cinque divisioni, ciascuna con non più di 125 posti letto. Se si pensa che i grandi manicomi arrivavano a contenere dai 3000 ai 5000 posti letto, si trattava di una drastica riduzione, solo in parte attuata. Riguardo al personale per la prima volta si prevedeva la figura dello psicologo e si definiva il rapporto di un infermiere ogni tre posti letto. La legge Mariotti del 1968 inoltre prevedeva l’istituzione, da parte delle province, dei Centri di igiene mentale con medici psichiatri, psicologi, assistenti sociali, personale infermieristico ed ausiliario. Veniva inoltre introdotta la possibilità di ricovero volontario, su richiesta del malato e previa autorizzazione del medico di guardia. Infine si abrogava l’annotazione dei provvedimenti di ricovero degli infermi mentali nel casellario giudiziario.

Le normative oggi vigenti in Italia in materia di salute mentale vedono come elemento centrale di riferimento la legge n. 180 del 1978, successivamente recepita nell’ambito della riforma sanitaria, dettata dalla legge n. 833 sempre del 1978. Si tratta di norme che hanno cambiato radicalmente la vecchia legislazione manicomiale, dalla quale emergeva la preoccupazione del legislatore di garantire la sopravvivenza del malato e la difesa della società.

La nuova legge psichiatrica nasce sull’onda dei movimenti del sessantotto, in quel periodo un gruppo di psichiatri, di psicologi e di sociologi, il cui leader era lo psichiatra Basaglia, elaborò la teoria secondo cui la malattia mentale non esiste in sé, ma è un prodotto dell’ambiente, cioè della famiglia e della società capitalistica. Lo stesso ospedale psichiatrico veniva visto come perpetuatore e peggioratore di transitori malesseri psichici, malesseri che sarebbero spariti inserendo il malato in una società più giusta.

La legge 180 ha rivoluzionato la teoria e la pratica della psichiatria italiana, prevedendo che gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione siano attuati di norma da servizi e presidi psichiatrici extraospedalieri e, solo in caso di crisi acuta, dai Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, collocati all’interno di ospedali generali e collegati organicamente e funzionalmente, in forma dipartimentale, con gli altri servizi psichiatrici del territorio.  

La nuova legge psichiatrica prevede di norma la volontarietà dei trattamenti sanitari e solo eccezionalmente l’obbligatorietà di questi ultimi, esclusivamente in caso di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengono accettati dall’infermo e se non vi sono le condizioni e le circostanze che consentono di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere. L’articolo 1 precisa che gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori devono essere effettuati nel rispetto della dignità del paziente psichiatrico e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura.  Inoltre viene disposta la chiusura degli ospedali psichiatrici, vietando di costruirne di nuovi e di utilizzare quelli esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali. 

I principi che stanno alla base della legge psichiatrica italiana sono profondamente innovativi, in quanto prevedono il superamento delle istituzioni totali ed il reinserimento del malato psichiatrico nel tessuto sociale, tentando in questo modo di combattere lo stigma e l’emarginazione cui da sempre i sofferenti psichici sono sottoposti.

Purtroppo però con la legge 180 si perde anche ogni specifico riferimento normativo nazionale relativo all’affidamento eterofamiliare. Si dovranno attendere 20 anni prima che, in Piemonte, una disposizione relativa agli standards strutturali e organizzativi del Dipartimento di Salute Mentale preveda nuovamente questa tipologia di intervento.

 

 

2.            La legislazione psichiatrica piemontese: la ricomparsa dell’affido familiare

 

La legge psichiatrica nazionale assegna alle regioni il compito di definire ed organizzare i servizi psichiatrici territoriali che fanno capo al Dipartimento di Salute Mentale. È proprio a livello di fonti regionali che ricompare in anni relativamente recenti una normativa, seppur minima, relativa all’affidamento familiare.

La Deliberazione del Consiglio Regionale del Piemonte n. 357-1370 del 28.01.1997, all’allegato C, infatti prevede, fra gli interventi alternativi al ricovero e all’inserimento in strutture residenziali protette, anche l’affido familiare. Il testo della legge dispone quanto segue: ”In via sperimentale per tutto il periodo di valenza del nuovo Piano Sanitario Regionale, il DSM può prevedere l’affido familiare di pazienti psichiatrici. Per tali finalità è previsto un sostegno economico da erogare alla famiglia affidataria. La famiglia affidataria deve essere individuata dal medico responsabile del progetto terapeutico/riabilitativo del paziente; deve aver frequentato un apposito corso di formazione organizzato dal DSM. L’efficacia di tale percorso deve essere costantemente verificata dal DSM. L’affidamento familiare si configura come terapeutico/riabilitativo, pertanto di esclusiva competenza sanitaria”.

Il Prof. Herny, al tempo responsabile per il superamento del manicomio di Grugliasco e sostenitore degli affidamenti eterofamiliari, in una intervista rilasciata due anni dopo l’emanazione della sopraccitata legge regionale afferma “Il caso di Geel è molto interessante perché dimostra ante litteram come i non professional possano ottenere risultati migliori dei professional e come il potere medico si difenda per paura di perdere il monopolio sulla follia. Se andiamo a leggere la recente delibera della regione Piemonte sugli affidamenti familiari, nell’ultimo paragrafo sta scritto che occorre sperimentare. Ma punto primo: il Dipartimento di Salute Mentale deve organizzare i corsi per gli affidatari (l’idea è li colonizziamo noi); punto secondo: la scelta delle famiglie va fatta dallo psichiatra responsabile del servizio. Duecento anni dopo pare ripetersi per l’affidamento familiare la paura degli psichiatri di perdere il monopolio egemonico sulla malattia mentale” (Henry P., in Animazione sociale, Marzo 1999). 

Secondo il Dr. Cébula, esperto di Accueil Familial Thérapeutique e formatore delle famiglie d’accoglienza, quando si interviene sulle famiglie ospitanti bisogna far attenzione a non esportare su di loro delle tecniche o delle modalità operative che, una volta esportate, perderebbero automaticamente la propria terapeuticità. Le famiglie devono essere “abituate” ad essere famiglia di accoglienza, quindi lo scopo della formazione è di aiutarle a rimanere anzitutto se stesse. Riprendendo le esatte parole di Cébula possiamo dire che la raccomandazione che gli operatori dovrebbero fare a coloro che si apprestano a diventare famiglia ospitante è “Siate professionisti, restate voi stessi” (Cébula J.C., in Atti 1° Conv. Naz. IESA, Torino 2000).

 

 

3.            L’inserimento eterofamiliare nei DSM italiani: un tentativo di censimento svolto nel 1999/2000 dal Dr. Aluffi[3]

 

Nel settembre 1999 il Dr. Aluffi, coordinatore del servizio IESA (Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici) del DSM 5b ASL 5 di Collegno, aveva avviato, in collaborazione con una tesista, un’indagine nazionale, allo scopo di verificare quanti altri servizi di inserimento eterofamiliare supportato, o simili, operano effettivamente in Italia. Oltre a rilevare o meno la presenza di servizi di questo tipo nei DSM italiani, l’indagine era altresì volta a sondare se i relativi Direttori di Dipartimento fossero al corrente dell’esistenza di questa modalità e della sua diffusione e se eventualmente fossero interessati ad avviare in futuro servizi analoghi.

Il progetto è stato realizzato inviando a 224 responsabili di altrettanti Dipartimenti di Salute Mentale (o simili) una lettera di presentazione dell’iniziativa con contenuti informativi rispetto allo IESA ed un modulo di reperimento dati. La risposta si è concretizzata in 91 schede, correttamente compilate, ricevute.

I risultati emersi da questo campione parziale rilevano comunque, in maniera sufficientemente completa, la presenza di altri servizi analoghi allo IESA presso i DSM italiani. Probabilmente mancano all’appello alcune situazioni di inserimento eterofamiliare gestite dal privato sociale ed offerte trasversalmente ad ASL diverse.

Sulle 91 risposte pervenute, 79 testimoniano l’inesistenza di un’attività IESA o simile presso il DSM. Di questi 79 dipartimenti ben 72 sono interessati ad avviare un’attività o un servizio IESA. Rispetto alla conoscenza di esperienze simili in passato nell’area di appartenenza, solo 11 hanno risposto affermativamente, mentre la conoscenza in merito ad esperienze all’estero o in altre zone italiane, è riportata da 38 moduli.

Le ASL in cui risulta attivo un servizio IESA, o simile, negli anni 1999/2000 sono indicate dalla seguente tabella, tratta dalla relazione del Dr. Aluffi al 1° Convegno Nazionale sullo IESA, tenutosi a Torino nel 2000.

 

Status quo dello IESA in Italia nel 1999/2000

 

ASL

Anni di attività

N° inserimenti  in corso

ASL 5 DSM 5b Collegno

2

5

ASL 8 DSM Chieri

2

2

ASL EST Brunico

15

2

ASL 2 Lucca

3

15

ASL 5 Jesi

3

1

ASL 4 Lanusei

10

3

ASL 6 Cagliari

3

1

ASL 8 Cagliari

2

7

ASL 3 Nuoro

5

10

ASL 9 Trapani

4

16

Totale

 

62

 

Inoltre presso la ASL 4 DSM Torino e la ASL 21 DSM Casale Monferrato, in passato (quindi prima degli anni 1999/2000) era presente un’attività IESA. Infine all’ASL 10 DSM Pinerolo in quegli anni il progetto era ancora in fase di studio.

Le regioni apparentemente più sensibili allo IESA sembrano essere il Piemonte e la Sardegna. Mentre in Piemonte sono esclusivamente i servizi sanitari a farsi carico dei costi e dell’organizzazione degli inserimenti eterofamiliari, in Sardegna questi vengono gestiti da un sistema misto sanitario/socio-assistenziale.

Per cercare di verificare se i dati emersi potevano essere considerati una fotografia sufficientemente completa della situazione nazionale in merito all’inserimento eterofamiliare supportato, è stato individuato un campione random all’interno dei DSM che non avevano risposto all’iniziativa. Sono stati contattati, attraverso interviste telefoniche o tramite fax, i 14 Direttori dei Dipartimenti estratti, o loro delegati, i quali hanno risposto alle domande del modulo. Il 100% del campione random non ha attività IESA all’interno del proprio DSM. Questo dato rinforza l’ipotesi che i DSM italiani presso i quali esiste un’attività simile allo IESA possano coincidere con i 13 sopraelencati.

Da una ricerca realizzata dal servizio di Collegno alla fine del 2002, emerge che, agli 11 servizi già attivi nel 2000, se ne sono aggiunti altri 14 nell’arco dei due anni successivi. Questo dato è molto incoraggiante per una futura diffusione dello IESA su scala nazionale   e testimonia l’importanza dei congressi scientifici, delle pubblicazioni e di altre iniziative simili realizzate in quell’arco di tempo (Aluffi G., in op.cit.).    

    

 

 

 

 

 

 

 

 

4.    L’affidamento eterofamiliare in Europa

 

 

1.            Storia e differenze di stile[4]

 

Quando si parla si affidamento eterofamiliare per pazienti psichiatrici non si può non citare lo storico esempio della cittadina belga di Geel (Cfr. Cap. 1 par. 1). Oltre a Geel, anche Lierneux vanta un servizio, organizzato in forma di Colonia di pazienti, attivo dal 1884. Ma Geel e Lierneux rappresentano oggi solo 1 dei 4 tipi di inserimento eterofamiliare per adulti in Belgio, cioè l’affidamento ospedaliero, che costituisce un’alternativa extramurale a lunghe degenze in clinica, organizzato dagli stessi ospedali psichiatrici, con obiettivi terapeutici.

Il secondo tipo di affidamento, dipendente dalle tre comunità linguistiche, è denominato “Fonds 81“, è destinato ad handicappati fisici e mentali e da poco tempo anche ai malati mentali. L’équipe “Fonds 81“ si occupa di inserire il paziente nella famiglia e di garantire il proprio supporto. Questo modello fa ricorso alla clinica solo in casi estremi. 

Il terzo tipo di affidamento è detto “CPAS” ed è organizzato dai centri pubblici di aiuto sociale. è mirato ai casi sociali più drammatici ed è finanziato con i fondi del “CPAS”.

Infine l’ultimo tipo è quello organizzato dai gruppi “L’Autre Lieu” e “Recherche - Action sur la Psichiatrie et les Alternatives” i quali ricevono sovvenzioni a diversi livelli (Comunità francese, Ministero dell’impiego e del lavoro, Città di Bruxelles). Si tratta di un inserimento eterofamiliare alternativo al ricovero, previsto per persone con difficoltà psicosociali temporanee.

In Francia, tra il 1892 e il 1898, in conseguenza del crescente sovrappopolamento dei manicomi e della distruzione dei vitigni (per un’epidemia di fillossera) di una zona della Francia centrale ad economia agricola, vennero fondate le due Colonie di pazienti di   Dun-sur Auron (per donne) ed Anay le Chateaux (per uomini). Qui i pazienti, inviati per la quasi totalità da Parigi (a 300 km di distanza), trovavano un ambiente rurale disposto ad accoglierli, una famiglia, un lavoro ed una rete sociale.

Nel 1967, nell’ambito della psichiatria di settore, viene avviato il progetto del XIII Arrondissement de Paris, cioè un servizio di inserimento familiare che si distacca dal tipo Colonia di pazienti.

Nel 1980 nasce l’Inserimento Familiare Psicoterapeutico della Loira Atlantica associazione Contadour, un servizio staccato dalla psichiatria pubblica.

Oltre ai 3 esempi sopraccitati, la Francia si avvale di un gran numero di servizi di accueil familial. Per quel che riguarda l’affidamento eterofamiliare rivolto a pazienti psichiatrici adulti, si possono individuare due grandi categorie: 

§               L’Accueil Familial Thérapeutique (Aft), che conserva all’ospite lo status di paziente, in quanto il posto letto nella famiglia è considerato un’appendice della clinica psichiatrica. Il paziente ed i suoi conviventi vengono periodicamente visitati dal personale dell’ospedale psichiatrico; 

§               L’Accueil Familial Social (Afs), in cui l’ospite non è più un paziente ed il servizio di supporto risulta inesistente o, nei rari casi in cui c’è, si rivela carente.

Negli USA il primo stato ad inaugurare un servizio di Family Foster Care è il Massachusetts nel 1882. Successivamente altri stati americani seguirono l’esempio del Massachusetts, così nel 1933 fu il momento di New York, nel 1935 fu la volta dell’Utah, nel 1941 toccò all’Illinois, alla California e al Maryland, nel 1942 al Michigan e così via.         

In diversi stati esiste una licenza per poter operare come sponsor o care giver, cioè colui/colei che all’interno della famiglia ospitante è responsabile dell’assistenza da prestare all’utente.

Inoltre dal 1987 a Dane Country, all’interno del Crisis Home Program, è attivo un servizio di Family Care mirato a gestire i momenti di crisi. Qui i pazienti vengono accolti presso le famiglie abilitate soltanto per il periodo della crisi. Anche a Denver, dagli anni ’70, è in funzione un servizio simile, molto ben integrato all’interno dell’apparato territoriale.

In Olanda le caratteristiche principali dell’inserimento eterofamiliare sono state rappresentate per molto tempo dalla Colonia di pazienti e dalla centralità dell’istituzione ospedaliera. Dopo la disposizione dell’ispettorato per la salute mentale del 1991, che ha di fatto tolto alle cliniche il monopolio sull’inserimento eterofamiliare di pazienti psichiatrici, questo è entrato a far parte dei “Servizi psichiatrici protetti”. Sembra che questo spostamento di competenze, dalle cliniche psichiatriche ai servizi territoriali, abbia dato il via ad un vivo mercato dell’affidamento familiare privato, caratterizzato da un’accanita concorrenza tra le varie associazioni, nel quale l’utente acquista un forte potere contrattuale, in quanto è diventato lui quello che decide a quale servizio assegnare il compito di organizzare e supportare il proprio inserimento eterofamiliare.

L’esordio dell’affidamento eterofamiliare in Svizzera risale al 1909 e si colloca presso la Clinica Psichiatrica Universitaria del Burghölzli a Zurigo, nel cui cantone oggi è in funzione un servizio del tipo Appendice (centrato sull’ospedale) che  segue pazienti inseriti in famiglia o in piccole pensioni. La definizione di Psychiatrische Familienpflege, contenuta nell’opuscolo pubblicato dal servizio del cantone zurighese, è “Assistenza di handicappati psichici in famiglie o pensioni, accompagnata da consulenza e assistenza professionali”.  

Il servizio viene finanziato dal paziente o da un suo garante, ed è gestito in base ad un preciso e dettagliato regolamento.

Un’interessante esperienza è quella della fondazione Jonas, che dal 1981 offre aiuto a minori ed adulti con problemi psichici e sociali, attraverso un intervento psicoterapeutico suddiviso in due fasi. La prima è la più intensiva e consiste in un periodo da trascorrere presso la Haus Jonas, una sorta di comunità ad alta intensità terapeutica. Quando la persona termina il percorso previsto dalla prima fase, viene inserita presso una famiglia per un secondo periodo di trattamento che può durare da 1 a 2 anni. L’obiettivo è di autonomizzare e reintegrare nella società i soggetti in difficoltà.

La Norvegia è da sempre il paese europeo con la più alta percentuale di pazienti psichiatrici assistiti al di fuori degli ospedali. L’inserimento eterofamiliare, basato sul tipo Dispersione, è presente fin dal 1800 ed in particolari momenti nell’arco della sua storia è arrivato ad essere la soluzione per più del 40% dei pazienti psichiatrici assistiti.

Nei primi anni ’60, accanto all’affidamento eterofamiliare, si è aggiunta una forma di assistenza sul territorio chiamata Nursing homes, cioè una sorta di pensione gestita da marito e moglie (infermieri professionali) che ospitano persone sofferenti di disturbi psichici.  

In Svezia l’inserimento eterofamiliare fu avviato ufficialmente dallo Stato nel 1901, seguendo l’esempio di 2 paesini in cui vigeva già un servizio tipo Colonia di pazienti. Oltre a questa forma di affidamento, ne esisteva anche una tipo Appendice nei pressi del manicomio di Kristine-Hauer.

Anche in Danimarca, intorno al 1816, nei pressi del nuovo Sanct Hans Hospital a Roskilde-Bistrupgaard, è segnalata la presenza di contadini i quali ospitavano presso le proprie fattorie alcuni malati mentali, secondo l’esempio di Geel.

 In Russia la prima esperienza di Colonia familiare risale al 1887 a Nikaulitsch, vicino al manicomio di Riasan. Anche in altre città (Riga, Ekaterinoslav, Veroniej-Devitzo, Mosca, Semenowskje, Alexieff ed altre) gli alienati vivevano presso famiglie ospitanti, le quali venivano controllate da un “sorvegliante” abitante nel loro stesso paese. In caso di bisogno il sorvegliante poteva contare sull’apporto dei medici del manicomio. Questo sistema oggi è scomparso.

In Austria il primo servizio di Assistenza Familiare vede la luce nel 1898, presso il manicomio di Mauer Oehling, secondo le modalità del tipo Semiprofessionale. A questa esperienza ne seguirono molte altre, in particolare, dal 1949, è in vigore un servizio di inserimento eterofamiliare per pazienti psichiatrici organizzato dall’ospedale psichiatrico di Graz, nel quale i pazienti sono inseriti presso famiglie di agricoltori. In cambio del proprio lavoro l’ospite riceve piccole somme di denaro; inoltre annualmente vengono organizzate vacanze di durata quindicinale a cui partecipano gli operatori dell’ospedale, gli ospiti e le famiglie.

In Scozia l’inserimento eterofamiliare può contare su un’antica e robusta tradizione basata sul tipo Dispersione. La legge per i malati mentali del 1857, invece di rafforzare l’egemonia dei manicomi, assegnò ai consigli parrocchiali la supervisione dei pazienti inseriti in famiglia. Questo servizio di inserimento eterofamiliare non prevedeva in sé prestazioni di intervento infermieristiche, perciò i pazienti, solo in caso di crisi acuta, venivano ricoverati in manicomio. Inoltre, intorno al 1879, un’associazione iniziò ad organizzare l’inserimento eterofamiliare per pazienti psichiatrici nei dintorni del Colney Hatsch Hospital, vicino a Londra, secondo le modalità del tipo Semiprofessionale.

In Inghilterra si sviluppò poco l’affidamento familiare, tant’è che dal 1913 non ve ne è più alcuna traccia.

In Finlandia invece è in funzione da molti anni un singolare servizio di inserimento eterofamiliare per pazienti psichiatrici “tranquilli” presso famiglie contadine di un paesino, Nickby, che dista 20 km da Helsinki. Per far fronte al sempre più grande numero di malati mentali, le autorità di Helsinki fecero costruire a Nickby un ospedale psichiatrico, il cui personale infermieristico proveniva dalla comunità contadina, e ciò conferiva alla clinica uno spiccato carattere familiare.

Durante la seconda guerra mondiale, l’inserimento eterofamiliare in Polonia è stato garanzia di salvezza per molte vite umane. Tutti i pazienti che si trovavano ricoverati nei manicomi vennero uccisi in nome del programma promosso dal regime nazista. Solo coloro che in quel periodo erano ospitati presso famiglie riuscirono a scampare alla morte. L’inserimento eterofamiliare è ancora oggi diffuso secondo la modalità Appendice.

 

 

2.            Accueil Familial Thérapeutique[5]

 

In Francia, lo sviluppo dell’inserimento eterofamiliare degli adulti come pratica riconosciuta, è stato possibile grazie ad una legge votata il 10 luglio 1989, attinente l’inserimento presso dei privati, nel loro domicilio, a titolo oneroso, di persone anziane o handicappati adulti. Questa legge, che si applica su tutto il territorio nazionale, giunge ad inquadrare anche quelle pratiche antiche e spontanee di privati che accolgono, all’interno di una cornice familiare, persone anziane e handicappati fisici o mentali.

Le disposizioni contenute in questa legge rendono obbligatoria per le famiglie l’abilitazione per poter accogliere, la stesura di un contratto fra le parti, il limite del numero di ospiti a due o tre, la messa in atto di programmi di supporto per gli ospiti e di formazione per le famiglie ospitanti da parte delle istituzioni pubbliche.

Prima dell’emanazione della legge del 1989, era frequente che privati proponessero spontaneamente la loro accoglienza familiare a persone anziane o handicappate, senza che terzi istituzionali organizzassero e supportassero la convivenza. Le istituzioni pubbliche tuttavia non si opponevano in alcun modo al proliferare di queste offerte di alloggiamento e di aiuto, poiché, soprattutto alla fine degli anni ’80, la mancanza di posti letto negli ospedali si faceva sempre più preoccupante.

Talvolta queste forme di aiuto ed accoglienza fornivano ascolto e conforto a persone affettivamente e fisicamente deboli, ma in molti casi potevano diventare contestabili modalità di alloggiamento ed isolamento. Questo perché l’accoglienza in famiglia si era sviluppata senza controllo, né interventi da parte dei poteri pubblici.

Ma quando la diffusione dell’accoglienza spontanea divenne oltremodo ampia ed i problemi ad essa annessi insostenibili, si presentò la necessità di una regolamentazione.

Così intervenne la legge 10 luglio 1989, la quale tentò di mettere ordine distinguendo fra due apparati: l’Accueil familial social e l’Accueil familial thérapeutique.

In Francia, in passato, i malati psichiatrici hanno vissuto degli inserimenti in famiglia di tipo asilare, che si limitavano a spostare altrove la chiusura e l’isolamento dell’ospedalizzazione. Oggi invece, grazie all’Accueil familial thérapeutique, i malati mentali possono beneficiare degli effetti terapeutici che le famiglie ospitanti sono in grado di innescare, se adeguatamente supportate da un’équipe curante.

L’accoglienza familiare offre a queste persone un entourage affettivo, prossimità relazionale rassicurante, inserimento sociale in un ambiente che favorisce sentimenti di appartenenza. Questi elementi però devono sempre essere accompagnati da progetti sociali o terapeutici, da interventi specializzati di sostegno ed anche di cura, poiché le difficoltà degli ospiti non possono essere lasciate alla sola attenzione della famiglia, per quanto generosa possa essere.  

Questi interventi sono realizzati dai programmi di accoglienza familiare terapeutica, promossi dai servizi psichiatrici, i quali però rappresentano soltanto una minima parte degli inserimenti di adulti in famiglia. Infatti, come già anticipato, in Francia gli inserimenti eterofamiliari si dividono in inserimenti sociali ed inserimenti terapeutici. Si può osservare uno scollamento pregiudizievole fra i due approcci, che dovrebbero comunque essere alternativamente o contemporaneamente soluzioni sociali ed aiuti terapeutici.

La seguente tabella[6] illustra sinteticamente le caratteristiche dei due registri di affidamento dominati, quello sociale e quello terapeutico.

 

Accueil familial social e thérapeutique, analogie e differenze

 

 

accueil familial social

accueil familial thérapeutique

definizione

Una formula di alloggio flessibile per l’accoglienza di persone anziane o handicappate

 

 

 

I servizi di accoglienza familiare terapeutica  sono organizzati per il trattamento di persone sofferenti di disturbi psichici, che potrebbero trarre beneficio da una presa in carico terapeutica in un ambiente familiare sostitutivo stabile

rimborso spese per l’accogliente

Erogato dalla persona che viene accolta

Erogato dall’istituzione psichiatrica che organizza l’accoglienza

 

abilitazione  fornita da

Consigli Provinciali, nella persona del Presidente, su proposta dei servizi dipartimentali

- La famiglia di accoglienza è abilitata dal Direttore dell’ospedale psichiatrico

- L’istituzione psichiatrica è abilitata dal Prefetto

numero di ospiti

Da 1 a 3 persone anziane e/o handicappate

1 o 2 malati mentali (3 su concessione del Prefetto, su proposta del medico)

Contratto

Contratto tipo che precisa le condizioni materiali e finanziarie dell’inserimento

Contratto di lavoro
+ Contratto di accoglienza
+ Regolamento interno del servizio

Controllo e supporto 

- Formazione e controllo delle famiglie ospitanti abilitate da parte dei Consigli Provinciali
- Supporto alle famiglie ospitanti fornito da professionisti del settore medico o sociale

Assicurato dal servizio per l’accoglienza familiare terapeutica dell’istituzione psichiatrica:
- formazione e accompagnamento della famiglia ospitante
- supporto alle persone accolte

Finanziamento

Per le persone accolte (che possono avere diritto ad aiuti finanziari)

Sécurité Sociale ed Assicurazione sulla malattia

Sviluppo

Decisioni politiche ed economiche prese dai dipartimenti

Scelte terapeutiche

 

L’Accueil familial thérapeutique, in passato chiamato Placement familial d’adultes, offre un’alternativa all’ospedalizzazione per quei pazienti cronici che altrimenti resterebbero in ospedale psichiatrico a vita. Spesso l’accoglienza in famiglia rappresenta una soluzione transitoria, alla quale può far seguito il ritorno della persona ad una vita autonoma oppure il passaggio ad un Accueil familial social.

L’Aft assicura al malato psichiatrico una presa in carico ed una continuità di cura, al di fuori delle mura dell’istituzione psichiatrica, in uno spazio sociale non medicalizzato. Infatti la famiglia ospitante, grazie alle sue capacità naturali, affettive ed educative, favorisce il “rifiorire” del paziente e la positiva evoluzione del suo percorso.

L’accoglienza familiare è detta terapeutica nella misura in cui l’ospitalità viene supportata da un’équipe medico-sociale, che garantisce la continuità della presa in carico.

L’Aft è organizzato da un ospedale psichiatrico, sotto la responsabilità del suo Direttore. Un’équipe multiprofessionale (psichiatra, infermiere, educatore, assistente sociale, psicologo) lavora in sinergia con i curanti di riferimento del paziente accolto in famiglia. Il servizio di accueil familial thérapeutique è l’interlocutore privilegiato per famiglia ospitante e per la persona ospitata durante tutto il periodo della convivenza. 

I vantaggi dell’accoglienza familiare sono molteplici: una presa in carico domestica”, al di fuori dell’ospedale, un supporto “naturale” 24 ore su 24 fornito dalla famiglia, sostegno affettivo e stimolazione nella partecipazione alle attività familiari.

Spesso il paziente abbandona quei comportamenti aggressivi e/o regressivi che aveva in ospedale, inoltre ritrova la propria quotidianità ed un’immagine positiva di sé.

LAft permette alla persona di reinserirsi nel tessuto sociale, grazie all’integrazione con i membri della famiglia, con i vicini, con la comunità locale, attraverso la partecipazione ad attività sociali, culturali, sportive. La persona sofferente di disturbi psichici abbandona finalmente quello status di “malato” che lo ha accompagnato fino a quel momento.

Gli affidamenti possono essere a breve o a lungo termine, a tempo pieno o a tempo parziale. La seguente tabella indica i prezzi a giornata, a seconda delle diverse modalità di presa in carico del paziente psichiatrico (si tratta di una media realizzata su 10 ospedali psichiatrici nel 2004).

 

Malattia mentale, esempi di prezzi a giornata in euro (media su 10 ospedali psichiatrici)

 

Modalità di presa in carico

Tariffe rilevate nel 2004

Costo medio

Ospedale psichiatrico

da 208 à 313 €

250 €

Accueil familial thérapeutique

da 53 a 161 €

104,75 €

Accueil familial social

da 39 a 59 €

45,00 €

 

Naturalmente la scelta fra le diverse modalità di presa in carico deve essere effettuata in base ai bisogni del paziente, e non in base alla sola convenienza economica. Ma la Sécurité Sociale risparmia in media 135 € al giorno ogni volta che un paziente passa dal ricovero in ospedale all’accueil familial thérapeutique.

Nel 2001 la malattia mentale arrivò ad essere il secondo settore di spesa per la Sécurité Sociale. In quell’occasione, l’allora Ministro della Sanità Bernard Kouchner, proclamò la necessità di sviluppare alternative all’ospedalizzazione, in particolare il ricorso all’accueil familial thérapeutique.

 

 

3.            Psychiatrische Familienpflege: il progetto di Ravensburg dell’Associazione Arkade[7]

 

Alla fine del XIX secolo in Germania furono avviati, sull’esempio della cittadina belga di Geel, i primi tentativi di istituire un servizio di inserimento eterofamiliare per adulti sofferenti di disturbi psichici, presso la clinica di Ilten, vicino ad Hannover. Molto rapidamente altre cliniche imitarono questa idea e si arrivò ad un rapido sviluppo della attività. La ragione di tale diffusione era da ritrovarsi nel sovraffollamento delle cliniche psichiatriche di quel tempo e nel correlato tentativo di offrire una sufficiente assistenza a tutti i pazienti. Così si cercarono, nei dintorni delle cliniche, famiglie contadine che, in cambio di un aiuto nei lavori di campagna, fossero disposte ad ospitare un paziente psichiatrico.

Durante il nazionalsocialismo, nell’ambito delle leggi sull’eutanasia, vennero eliminati, tra gli altri, più di 10.000 pazienti psichiatrici. Di conseguenza anche l’affidamento familiare fu cancellato.

Solo nel 1984 si assiste ad un nuovo avvio dell’inserimento eterofamiliare attraverso due iniziative separate, quella di Bonn e quella di Ravensburg.

L’associazione Arkade di Ravensburg, nata nel 1977, ha come obiettivo offrire un’assistenza ed un sostegno territoriale qualificati a persone sofferenti di disturbi psichici ed alle loro famiglie. Dopo aver definito con l’Ente Regionale per l’Aiuto Sociale del  Baden-Württemberg le condizioni ed averne dettato le direttive, l’associazione Arkade ha introdotto l’offerta dello IESA fra i suoi servizi.

Il 1° marzo 1985 viene inserito il primo paziente presso una famiglia ospitante, dopo due anni gli inserimenti eterofamiliari erano saliti a 20. La maggior parte dei pazienti proveniva dalla lungodegenza della clinica e molti avevano alle spalle più di trent’anni di ricovero. Con il trascorrere degli anni il progetto si è sviluppato sempre di più, fino ad arrivare nel 2000 al numero di 72 adulti ospitati in famiglia.

Mentre nel Baden-Württemberg, regione cui appartiene Ravensburg, tutti i progetti IESA sono gestiti da enti del privato sociale, ovvero indipendenti dalle cliniche, in altre regioni questa attività è direttamente organizzata dagli ospedali psichiatrici. In questo secondo caso, l’operatore dello IESA continua ad essere un dipendente della clinica e l’ospite della famiglia continua ad essere in primo luogo un paziente della clinica.

La provincia di Ravensburg è situata nel sud della regione del Baden-Württemberg, vicino al lago di Costanza e alle Alpi. Ha una bassa densità di popolazione ed una conformazione prevalentemente rurale, ci sono parecchie aziende agricole a prevalente produzione di latte e molti piccoli paesi.

A Ravensburg c’è una grande clinica psichiatrica con 350 posti letto nei reparti di cura e 130 posti, caratterizzati da un intervento più assistenziale, riservati a pazienti cronici o anziani. Nelle vicinanze ci sono altri due grandi istituti per pazienti psichiatrici.

Il paesaggio rurale associato alla grande presenza di istituzioni psichiatriche rappresenta una favorevole condizione di partenza per lo sviluppo dello IESA.

 

 

 

 

 

il team di arkade

 

Il team di Arkade è composto da 10 operatori: 5 assistenti sociali, 3 infermiere professionali specializzate in socio-psichiatria e 2 pedagogisti. Tre inoltre hanno una specifica formazione in terapia della famiglia.

Alcuni operatori lavorano a tempo pieno, altri a tempo parziale; ogni operatore a tempo pieno segue dai 10 agli 11 inserimenti.

La Dr.ssa Franke, pedagogista del team di Arkade, afferma che la multiprofessionalità  caratterizzante la loro équipe è vissuta come una particolare qualità, poiché l’insieme dei diversi modi di vedere e delle diverse esperienze, derivanti dalle diverse formazioni professionali, risulta spesso di grande aiuto.

 

le famiglie ospitanti

 

Le famiglie ospitanti vengono reperite per la maggior parte attraverso la pubblicazione di brevi annunci su testate regionali o locali. Inoltre molte famiglie si rivolgono al servizio per aver sentito da vicini o conoscenti dell’esistenza dell’attività di inserimento eterofamiliare.

La gran parte delle famiglie ospitanti vive in campagna in case di proprietà oppure in poderi e fattorie. L’economia della quasi metà di queste famiglie è basata, in maniera parziale o totale, su attività agricole. L’altra metà è prevalentemente composta da artigiani autoctoni. Il 10% circa sono donne single con o senza prole. Da ciò emerge che la famiglia ospitante non deve essere per forza di tipo classico, tutta la gamma dei possibili nuclei familiari è pensabile per il ruolo di ospitante.

Le motivazioni che muovono le famiglie a candidarsi sono multiple: la famiglia è alla ricerca di un aiuto nei lavori di campagna, in casa c’è una camera libera ed un’addizionale opportunità di guadagno è ben accolta, la famiglia è interessata ad un impegno nel sociale, i bambini della famiglia sono piccoli e la madre vorrebbe rimanere a casa pur guadagnando qualcosa. L’aspetto economico ha comunque un ruolo importante nella maggior parte dei casi.

Secondo la Dr.ssa Franke è comunque un bene che gli ospitanti abbiano un interesse economico nell’accogliere l’ospite poiché, se la famiglia è mossa esclusivamente da ragioni umanitarie, può avvenire che l’implicitamente attesa retribuzione per l’altruismo in forma di manifesta gratitudine o di progresso terapeutico venga a mancare.                     La conseguenza può consistere per l’ospitante nella frustrazione. Una famiglia con una motivazione economica è in grado di reggere maggiormente le difficoltà presentate da un paziente in crisi, o comunque da una situazione di non progresso.

La condizione essenziale per candidarsi al ruolo di famiglia ospitante è il possesso di una camera ammobiliata e riscaldata per il potenziale ospite.

Non è richiesta alcuna qualifica professionale in campo assistenziale, poiché un normale e diretto rapporto tra famiglia ed ospite è una caratteristica essenziale per la graduale normalizzazione dell’ex paziente dell’istituzione.

Non è prevista alcuna formazione per le famiglie, gli operatori si limitano a dare informazioni sulle caratteristiche dell’ospite e ad effettuare interventi di supporto in itinere.

La più parte delle famiglie ospitanti ha una strutturazione della quotidianità molto regolare, per esempio orari dei pasti fissi. Inoltre la casa rappresenta il centro della vita e vi sono spesso anche animali domestici e da cortile. Molte famiglie non vanno mai o vanno raramente in vacanza.

Come anticipato sopra, nel 2000 sono 72 le persone ospitate in famiglia grazie al progetto di Arkade. La durata media degli inserimenti è di 7,3 anni, ma una signora è ospite presso la stessa famiglia dal 1984, anno di inizio del progetto, mentre altri 9 ospiti sono da più di 10 anni nelle stesse famiglie. 

 

 

 

 

 

gli ospiti

 

I candidati per l’inserimento eterofamiliare provengono prevalentemente dai reparti di lungodegenza della clinica psichiatrica, alcuni però arrivano direttamente da reparti di cura o da istituti. Sono per la maggior parte pazienti cronici, i quali hanno alle spalle numerosi ricoveri in clinica o anni di continua degenza ospedaliera. In alcuni casi la diagnosi di psicosi è accompagnata da problemi di alcolismo o epilessia o oligofrenia.

L’età media è tra i 45 ed i 50 anni, ma vi sono pazienti tra i 20 e gli 80 anni. A seconda dell’età e delle abilità, gli ospiti collaborano con la famiglia nello svolgimento dei lavori di casa o di campagna. Laddove il lavoro in campagna è svolto in maniera regolare e costante viene pattuito con la famiglia un compenso mensile per l’ospite, proporzionato al suo effettivo rendimento. 

Per i circa 2/3 degli ospiti, la famiglia di accoglienza diventa una nuova dimora a lungo termine. Parecchi di questi possono vivere lì il resto della loro vita, mentre alcuni, poiché il loro fabbisogno di assistenza raggiunge livelli insostenibili, sono costretti a ricorrere alle case di cura.

Per il restante 33% l’inserimento eterofamiliare rappresenta un periodo transitorio. In particolare per i giovani, il periodo passato in famiglia costituisce spesso una possibilità per raggiungere una nuova maturazione, accompagnata da una “sana separazione” dai propri genitori. Per questi utenti è importante che dopo un certo periodo di inserimento eterofamiliare vi sia un passaggio verso un’altra forma di abitazione più autonoma, tipo alloggi supportati.

 

la realizzazione dell’inserimento

 

Dopo un primo contatto telefonico, la famiglia viene invitata presso il servizio per un colloquio conoscitivo, durante il quale due operatori informano i componenti del nucleo sul funzionamento dello IESA e li interrogano con l’ausilio di un’intervista semistrutturata. Tale intervista va a sondare la situazione familiare, le motivazioni che portano a voler ospitare una persona sofferente di disturbi psichici, le abitudini, le preferenze, l’organizzazione del tempo libero e la strutturazione tipo della giornata. Inoltre viene sempre chiesto alla famiglia se l’ospite potrà fumare in casa e se si sentono in grado di far fronte a problemi tipo alcolismo. 

La Dr.ssa Franke afferma che, per l’esito di questo primo colloquio, è decisiva l’impressione intuitiva che hanno gli operatori rispetto all’apertura della famiglia, alla sua capacità di integrazione, alla tolleranza ed alla flessibilità nei confronti degli altri.

In seguito uno dei due operatori che ha condotto il primo colloquio, insieme ad un altro, provvede a far visita alla famiglia nella sua abitazione, in modo da osservarla nel proprio ambiente di vita, possibilmente in presenza di tutti i componenti del nucleo, in modo da conoscerli.

Se la famiglia ha un’adeguata camera per l’ospite è difficile che nascano particolari riserve sulla loro abilitazione a famiglia ospitante. Infatti, così come i pazienti sono diversi tra loro, è importante avere a disposizione famiglie dalle caratteristiche più svariate possibili.

Parallelamente avvengono i contatti tra i potenziali ospiti ed il servizio IESA. Alcuni pazienti vengono autonomamente a conoscenza del servizio e chiedono un colloquio con un operatore di Arkade, altri vengono motivati dal personale della clinica psichiatrica a conoscere lo IESA.

Così come con le famiglie, anche con i pazienti si tiene un colloquio semistrutturato, attraverso il quale si indagano le abitudini, i desideri rispetto alla famiglia, le preferenze, le avversioni ed il livello del loro bisogno di aiuto. Inoltre vengono raccolte ulteriori informazioni sul paziente attraverso le persone che gli sono di riferimento, per esempio gli operatori della clinica o dell’istituto.

Tutte le famiglie ed i pazienti che vengono conosciuti dai singoli operatori vengono presentati all’équipe al completo. È sempre l’intera équipe che valuta l’abbinamento tra famiglia ed ospite, attraverso un processo che può essere suddiviso in due fasi.

In primo luogo viene fatta luce sulla corrispondenza superficiale tra i desideri di un ospite e ciò che una delle famiglia può offrire, ad esempio: il paziente potrà fumare in casa? Necessita di frequentare la città poiché è solito farlo? Potrà raggiungere agevolmente il proprio posto di lavoro da quell’abitazione? Ha bisogno di cure che la famiglia sarebbe in grado di offrire? Ecc.

Se queste caratteristiche superficiali trovano corrispondenza, gli operatori iniziano a riflettere su quanto sostegno e su quale ambiente familiare sarebbe più adatto per l’ospite. Per trovare una risposta il team cerca di chiarire alcuni aspetti, per esempio: sarebbe più utile per il candidato ospite un ambiente tranquillo o una famiglia dinamica con molti bambini? Ha bisogno di una famiglia molto chiara e determinata, in grado di porre e rispettare fermamente regole e confini? Vorrebbe rimanere il più possibile indipendente ed autonomo o gli gioverebbe una famiglia portata all’assistenza, la quale lo integrerebbe saldamente e lo assisterebbe con una certa intensità?

Di solito vi sono circa 20-30 famiglie in attesa ed un altrettanto numero di candidati. Nei casi più fortunati la convivenza inizia dopo i primi contatti, ma può anche accadere che, nonostante il buon numero di famiglie su cui si può contare, non si trovi l’abbinamento giusto, perciò gli ospiti attendono anche 1 o 2 anni  prima di essere inseriti in famiglia.

Dopo aver definito in équipe un abbinamento, viene stabilito tra gli operatori chi può e vuole farsi carico di seguire l’inserimento. Questo operatore telefona quindi alla famiglia e, attraverso una descrizione che considera anche particolari problemi e tratti caratteristici, le presenta il paziente candidato alla coabitazione. Se la famiglia si mostra interessata, viene informato il paziente in modo da fissare un appuntamento presso l’abitazione, al quale parteciperanno, oltre ai candidati alla coabitazione, anche l’operatore IESA responsabile dell’inserimento e l’operatore di riferimento della clinica o dell’istituto.

Dunque la prima opportunità per fare conoscenza si realizza un pomeriggio, tra caffè fumanti e torte. Dopo due giorni di riflessione, se sia il paziente che la famiglia esprimono la volontà di tentare un periodo di convivenza, ciò viene organizzato e realizzato al più presto.

La prova di convivenza dura da un minimo di una settimana ad un massimo di un mese, e in caso di consenso da entrambe le parti si trasforma in inserimento eterofamiliare supportato. Durante tutto il periodo di prova, il paziente conserva il suo posto in clinica o in istituto per un eventuale rientro, dovuto al fallimento della convivenza.

L’inserimento eterofamiliare supportato viene ufficialmente avviato attraverso la sottoscrizione di un contratto scritto tra le parti, sottoscritto dagli operatori di Arkade, dalla famiglia ospitante e dall’ospite.

 

il monitoraggio

 

Nel primo periodo di un inserimento viene fatta visita alla famiglia mediamente 1 volta alla settimana, mantenendo anche uno stretto contatto telefonico. Con il passare del tempo, la media delle visite arriva a stabilizzarsi sul ritmo di 1 ogni 4 settimane. Nei periodi di difficoltà la frequenza delle visite aumenta notevolmente.

Tutte le famiglie hanno tutti i numeri telefonici privati degli operatori. Qualora in orario serale o nel fine settimana si presenti un problema particolarmente importante nella convivenza, le famiglie possono provare a contattare gli operatori. Tale reperibilità spontanea non è regolamentata. La Dr.ssa Franke specifica che questa offerta viene usata molto raramente dalle famiglie, anche perché le crisi dell’ospite di solito si preannunciano durante la settimana e rendono così possibile un intervento prima del week end. L’impressione globale è che la possibilità di contattare in qualsiasi momento in caso di emergenza gli operatori, anche se di fatto ciò non avviene quasi mai, infonda nella famiglia un forte senso di sicurezza.

Il sostegno professionale del team di Arkade consiste nel supportare il percorso di sviluppo che l’ospite e la famiglia portano avanti e, all’occorrenza, intervenire sul processo in merito al problema specifico. Soprattutto nei primi mesi dell’inserimento si cerca di comprendere l’ambiente di vita della famiglia e di creare un’atmosfera relazionale nella quale famiglia e ospite possano aprirsi vicendevolmente ed esprimersi appieno.

la valutazione del progetto

 

La Dr.ssa Franke sottolinea che l’inserimento eterofamiliare si rivela una grande opportunità, in particolare per quei pazienti caduti nelle maglie del sistema assistenziale istituzionale, i quali non riescono a convivere con le rigide regole delle strutture residenziali ospedaliere.

Per una grande istituzione è impossibile soddisfare i bisogni di tutti i pazienti, invece, all’interno della grande varietà rappresentata dai sistemi familiari, è più facile trovare per il singolo individuo un ambiente in grado di affrontare, con la giusta flessibilità, le sue difficoltà e le sue peculiarità.

In un ambiente adeguato l’ospite può, spesso in poco tempo, abbandonare comportamenti strani e disturbanti, caratterizzanti la sua permanenza presso la clinica. Spesso è anche possibile, a lungo termine, raggiungere una significativa riduzione del dosaggio dei farmaci.

Attraverso la quotidianità all’interno della famiglia, l’ospite recupera alcune proprie capacità che aveva da tempo dimenticato di avere, riesce a migliorarsi sul versante dell’autonomia e delle competenze sociali. Inoltre per l’ospite vivere presso una famiglia rappresenta un grande guadagno sul piano della qualità della vita.

Per il buon andamento di un progetto di inserimento eterofamiliare, si rivela determinante la collaborazione fra l’équipe IESA e gli operatori della clinica psichiatrica o dell’istituto. Solitamente sono questi ultimi a motivare il paziente ad andare a vivere presso una famiglia ospitante. Il loro sostegno positivo è indispensabile poiché, per la maggior parte dei pazienti, lasciare l’ambiente familiare dell’istituto o della clinica per andare in una famiglia sconosciuta rappresenta un grande e temuto passo.

A Ravensburg vi è la grande fortuna che il direttore della lungodegenza della clinica coincida con l’iniziatore del progetto per gli inserimenti eterofamiliari di Arkade. Ciò ha contribuito a creare da parte della clinica una buona collaborazione con il team IESA. 

Con una certa regolarità si tengono incontri fra operatori della clinica ed èquipe IESA, in modo da poter presentare le famiglie ospitanti e da raccogliere eventuali segnalazioni di pazienti candidati all’inserimento eterofamiliare.

Nella regione del Baden-Württemberg la rete territoriale psichiatrica non è più pensabile senza l’apporto dello IESA. Nel corso dei 15 anni di attività sono stati inseriti più di 200 pazienti in famiglie ospitanti (dato aggiornato al 2000). La Dr.ssa Franke sottolinea quanto sia gratificante vedere pazienti, con anni di ospedalizzazione alle spalle, che trovano in una famiglia una nuova dimora, nella quale si sentono a proprio agio e finalmente ricominciano a vivere.

 

 

 

 

 

 

 

 

     

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5.   Una ricerca sulla diffusione dell’affidamento eterofamiliare nei Dipartimenti di Salute Mentale piemontesi nel 2006

 

 

1.            Obiettivi e caratteristiche della ricerca

 

Nel mese di marzo 2006 ho avviato una ricerca per indagare se e quanto è conosciuta e diffusa la risorsa degli affidamenti eterofamiliari nei servizi psichiatrici piemontesi.

L’universo dell’indagine è composto dalle assistenti sociali che lavorano nei Dipartimenti di Salute Mentale della Regione Piemonte.    La seguente tabella indica i dipartimenti nei quali è stato somministrato il questionario ed il numero di risposte ricevute per ciascun dipartimento.

 

Servizi intervistati

 

DSM

Questionari ricevuti

ASL 1 DSM Nord Torino

2

ASL 1 DSM Sud Torino

1

ASL 2 DSM Torino

3

ASL 3 DSM Torino

1

ASL 4 DSM Torino

3

ASL 5 DSM 5b Collegno

1

ASL 6 DSM Ciriè

2

ASL 7 DSM Settimo Torinese

1

ASL 8 DSM Chieri

1

ASL 9 DSM Castellamonte

1

ASL 10 DSM Pinerolo

1

ASL 11 DSM Vercelli

2

ASL 13 DSM Nord

1

ASL 13 DSM Sud

1

ASL 14 DSM Omegna

2

ASL 15 DSM Cuneo

1

ASL 17 DSM Racconigi

3

ASL 18 DSM Alba

1

ASL 19 DSM Asti

1

ASL 20 DSM Alessandria

1

ASL 22 DSM Novi Ligure

1

Totale

31

 

 

Complessivamente ho ricevuto 31 questionari correttamente compilati (su 33 inviati), almeno 1 per ciascun DSM.

Per scelta l’operatore intervistato è sempre l’assistente sociale, soltanto in 2 casi è uno psicologo, precisamente all’ASL 5 DSM 5b Collegno e all’ASL 7 DSM Settimo Torinese. Si tratta di 2 dei 5 servizi in cui è attivo un progetto per gli affidamenti eterofamiliari di utenti psichiatrici. In entrambi i casi non è stato possibile intervistare l’assistente sociale poiché non fa parte dell’èquipe che supporta gli inserimenti eterofamiliari.  

Non è stato inviato il questionario ai seguenti servizi:

§               ASL 12 DSM Biella e ASL 16 DSM Mondovì, poiché in entrambi i servizi non è presente la figura dell’assistente sociale nell’organico del Centro di Salute Mentale.  È stato comunque domandato telefonicamente a due infermieri se esiste un progetto per gli affidamenti eterofamiliari e la risposta è stata negativa;

§               ASL 21 DSM Casale Monferrato, in questo caso dapprima è stata contattata telefonicamente l’assistente sociale del dipartimento, la quale ha riferito di non occuparsi personalmente di affidamenti eterofamiliari, ma di essere a conoscenza di un progetto di questo tipo organizzato dal Ser.T.[8] dell’ASL 21. Così ho contattato l’educatrice del Ser.T. che gestisce l’attività e, non ritenendo opportuno somministrarle il questionario preparato per i servizi psichiatrici, poiché il progetto è indirizzato ad una diversa tipologia di utenti (soggetti tossico-alcoldipendenti) ed ha obiettivi parzialmente differenti, ho preferito farmi inviare materiale informativo, in modo tale da essere comunque in grado di illustrare i tratti essenziali dell’attività (Cfr. par. 5);

§               ASL 5 DSM 5a Rivoli, in quanto sono stati presi contatti con il Servizio di Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici (IESA) dell’ASL 5 DSM 5b Collegno, uno dei servizi piemontesi maggiormente impegnato nella realizzazione di inserimenti eterofamiliari per pazienti psichiatrici.

La prima fase della ricerca è stata la costruzione del questionario da somministrare agli operatori sociali. Ho preparato 2 tipologie di questionari:

1.            un questionario breve da somministrare nei DSM in cui non è attivo un progetto per gli affidamenti eterofamiliari (Cfr. Allegato 1 par. 8);

2.            un’intervista da somministrare nei DSM in cui esiste un progetto per gli affidamenti eterofamiliari (Cfr. Allegato 2 par. 8).

Il questionario breve è composto da 6 domande, le prime 3 di carattere obbiettivo, mentre le ultime richiedono l’espressione di opinioni e valutazioni personali da parte dell’operatore intervistato.

Lo scopo di questo primo questionario è indagare:

§               la diffusione della conoscenza della risorsa degli affidamenti eterofamiliari fra le assistenti sociali e la fonte dell’informazione;

§               la conoscenza che questi operatori hanno dei progetti di affido di malati psichiatrici  realizzati da altri servizi;

§               la presenza, in passato, di iniziative in tal senso da parte dell’équipe del Centro di Salute Mentale;

§               le ragioni per cui, secondo l’operatore intervistato, non viene utilizzato l’affidamento eterofamiliare come risorsa dipartimentale;

§               la bontà della risorsa, in riferimento ai principi del servizio sociale;

§               l’opinione dell’operatore in merito a questo tipo di intervento.   

L’intervista invece si compone di 39 domande ed è suddivisa in 5 parti, ciascuna delle quali è volta ad approfondire uno specifico aspetto del progetto:

1.            la nascita;

2.            gli attori: l’équipe, la famiglia affidataria, l’utente e la famiglia di origine;  

3.            il contratto fra le parti;

4.            la realizzazione ed il monitoraggio;

5.            la valutazione.

Le domande che compongono entrambi i questionari sono state formulate raccogliendo informazioni sull’argomento da libri e riviste di settore, inoltre alcuni quesiti hanno lo scopo di soddisfare mie personali curiosità sul tema.   

Il secondo passo è stato reperire l’elenco dei Dipartimenti di Salute Mentale della Regione Piemonte, con i relativi recapiti telefonici. Per far ciò ho consultato il sito internet della Regione[9], ipotizzando che fosse la fonte più attendibile e soprattutto più aggiornata.

Una volta costruita la lista dei DSM appartenenti a ciascuna delle 22 ASL, ho iniziato a telefonare nei diversi servizi, chiedendo sempre di parlare con l’assistente sociale. Spesso è stato necessario effettuare numerosi tentativi prima di riuscire a parlare proprio con l’operatore desiderato. 

Questa telefonata aveva l’obiettivo di rilevare se presso il DSM contattato esiste attualmente un progetto per gli affidamenti eterofamiliari. In base alle risposte ricevute ho inviato, di volta in volta, il questionario corrispondente.

Sono stati contattati telefonicamente 37 operatori, a 28 di loro è stato inviato il questionario breve (DSM in cui non c’è il progetto), a 5 è stata somministrata l’intervista (DSM in cui è attivo il progetto), all’operatore del Ser.T. dell’ASL 21 è stato chiesto di poter avere materiale informativo sul progetto per soggetti tossico-alcoldipendenti.

A 3 operatori invece non è stato inviato nulla, per le ragioni precedentemente illustrate (2 infermieri DSM ASL 12 e 16, assistente sociale DSM ASL 21).  

Ho ricevuto complessivamente 31 questionari correttamente compilati (26 questionari brevi e 5 interviste) più il materiale informativo sul progetto dell’ASL 21. Soltanto 2 operatori non hanno risposto al questionario breve, tutti hanno risposto all’intervista.

 

 

 

 

 

 

Indagine

 

Operatori contattati telefonicamente

37

Questionari inviati

Questionario breve

Intervista

33

28

5

 

Risposte ricevute

Questionario breve

Intervista

31

26

5

 

16 questionari sono stati inviati tramite e-mail, 5 per posta ordinaria, 6 tramite fax ed altri 6 sono stati somministrati di persona. Escludendo i 6 casi nei quali il questionario o l’intervista sono stati somministrati di persona, in 10 casi ho ricevuto risposta dopo un tempo ragionevole (entro 1 mese circa), nei restanti 15 casi ho effettuato 1 richiamo           (5 operatori sono stati richiamati 2-3 volte). Alle 2 assistenti sociali che non hanno risposto al questionario erano stati effettuati 3 richiami.  

Ho trovato ampia disponibilità fra le assistenti sociali contattate, nonché tra i 2 psicologi e da parte dell’educatrice del Ser.T. dell’ASL 21. Tutti hanno risposto al quesito telefonico (“Nel servizio presso cui lavora esiste un progetto per gli affidamenti eterofamiliari di persone sofferenti di disturbi psichici?”), la gran parte si è mostrata particolarmente interessata al tema ed ha ampiamente argomentato la risposta,            11 hanno chiesto di avere i risultati della ricerca.  

 

 

2.            Descrizione dei risultati

 

In questo paragrafo vengono illustrati i risultati dell’indagine svolta nei Dipartimenti di Salute Mentale in cui non è attivo un progetto per gli affidamenti eterofamiliari. In tali servizi è stato è inviato il questionario breve, composto da 6 domande.

 

 

 

 

Domanda 1

Conosce la risorsa degli affidamenti eterofamiliari di persone con disturbi psichiatrici? Se si, in quale contesto e grazie a quale fonte ha avuto modo di apprenderne l’esistenza (convegni, corsi di formazione, colleghi di altri servizi, letture personali, ecc.)?

 

 

    Figura 1 – Conoscenza della risorsa e fonte

 
          

 

Come evidenziato dalla Tabella 1, su 26 assistenti sociali 22 dichiarano di conoscere la risorsa e 4 di non conoscerla.

I rispondenti potevano specificare nelle loro risposte anche più di una fonte, infatti le assistenti sociali dichiarano di aver appreso l’esistenza dell’affidamento eterofamiliare più frequentemente dalle seguenti fonti: colleghi (11), normativa (7), letture (7), convegni (5), università (1), internet (1).

 

    Figura 2 – Fonti

 

 Figura 2 – Fonti

 


 

 

 

 



Tabella 1: Conoscenza della risorsa e fonte

 

SERVIZIO INTERVISTATO

SI

NO

FONTE

Servizio 1

X

 

Colleghi di altri servizi

Servizio 2

X

 

Articolo su giornale locale

Servizio 3

 

X

 

Servizio 4

X

 

Colleghi di altri servizi

Servizio 5

X

 

Colleghi di altri servizi

Servizio 6

X

 

Università

Servizio 7

X

 

Riviste di settore e colleghi di altri servizi

Servizio 8

 

X

 

Servizio 9

X

 

Normativa

Servizio 10

 

X

 

Servizio 11

X

 

Riviste di settore 

Servizio 12

X

 

Articolo su giornale locale e colleghi di altri servizi

Servizio 13

X

 

Colleghi di altri servizi

Servizio 14

X

 

Normativa e seminario

Servizio 15

X

 

Riviste di settore e internet

Servizio 16

X

 

Colleghi di altri servizi

Servizio 17

X

 

Convegno

Servizio 18

X

 

Normativa

Servizio 19

X

 

Normativa e riviste di settore

Servizio 20

X

 

Normativa e colleghi di altri servizi

Servizio 21

X

 

Corsi di formazione

Servizio 22

X

 

Convegni

Servizio 23

X

 

Colleghi di altri servizi

Servizio 24

X

 

Riviste di settore e colleghi di altri servizi

Servizio 25

 

X

 

Servizio 26

X

 

Normativa, convegni e colleghi di altri servizi

Totale

22

4

 


I colleghi dai quali i rispondenti hanno appreso la notizia sono in 8 casi colleghi dello stesso dipartimento, in 3 casi colleghi di altri DSM.

La normativa citata è sempre la D.C.R. 357-1370 del 1997 Regione Piemonte o il Piano Sanitario Regionale 1997-1999.  

All’interno della categorie “Letture” è necessario distinguere fra lettura di articoli su giornali locali (2) e lettura di libri o riviste di servizio sociale (5).

Nella categoria “Convegni” in 1 solo caso il rispondente cita un convegno specifico sul tema (Convegno Nazionale sull’Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici, Lucca 2001), mentre negli altri 4 casi i rispondenti precisano sempre che si tratta di convegni o seminari non specifici sul tema.

Infine un’assistente sociale indica come fonte internet ed un’altra la propria formazione universitaria.

 

Domanda 2

È a conoscenza di esperienze di affidamenti eterofamiliari in passato, nell’area dipendente dal dipartimento in cui lavora? È a conoscenza di servizi di salute mentale in Piemonte, in altre zone d’Italia o all’estero ove è attivo un progetto per gli affidamenti eterofamiliari?  

 

Come evidenziato dalla Tabella 2, su 26 rispondenti 13 dichiarano di essere a conoscenza di esperienze di affidamenti eterofamiliari nell’area dipendente dal proprio dipartimento, 9 hanno notizia di affidamenti realizzati da altri servizi di salute mentale della Regione Piemonte, 2 conoscono progetti di altri servizi psichiatrici italiani e 3 sono al corrente di realtà estere.

                                     


 

 

 


Tabella 2: Conoscenza di altre realtà di affidamento eterofamiliare

SERVIZIO INTERVISTATO

        PROPRIO DSM

PIEMONTE

ITALIA

ESTERO

Servizio 1

X

 

 

X

Servizio 2

X

X

 

 

Servizio 3

 

 

 

 

Servizio 4

X

X

 

 

Servizio 5

 

 

 

 

Servizio 6

 

 

 

 

Servizio 7

 

X

 

 

Servizio 8

 

 

 

 

Servizio 9

X

 

 

 

Servizio 10

X

 

 

 

Servizio 11

 

 

 

 

Servizio 12

 

X

 

 

Servizio 13

X

X

 

 

Servizio 14

 

 

 

 

Servizio 15

 

X

X

 

Servizio 16

X

X

 

 

Servizio 17

X

X

X

X

Servizio 18

 

 

 

 

Servizio 19

X

 

 

 

Servizio 20

X

 

 

 

Servizio 21

X

 

 

 

Servizio 22

 

 

 

 

Servizio 23

X

 

 

 

Servizio 24

X

 

 

 

Servizio 25

 

 

 

 

Servizio 26

 

X

 

X

Totale

13

9

2

3


         

    Figura 3 – Conoscenza di altre realtà

 
 

 



Fra le 13 assistenti sociali che dichiarano di conoscere esperienze di affidi familiari nell’area dipendente dal proprio dipartimento, 11 si riferiscono ad interventi gestiti direttamente dal DSM, mentre 2 precisano che si tratta di esperienze effettuate in collaborazione con la Cooperativa Sociale “Alice nello specchio” di Torino.

Per quanto riguarda i servizi di salute mentale della Regione Piemonte, 4 rispondenti citano espressamente l’ASL 5 di Collegno e 2 l’ASL 4 di Torino. In 1 caso è riportato genericamente “Torino”, in altri 2 “Comuni vicino a Torino”.  

Solo 2 assistenti sociali conoscono progetti realizzati da altri DSM italiani, in particolare una indica le esperienze toscane di Lucca e Firenze, l’altra dichiara di aver letto il libro del Dr. Aluffi[10], di conseguenza dovrebbe conoscere i servizi di inserimento  eterofamiliare supportato riportati nel suddetto testo.

Infine 3 rispondenti hanno notizia di esperienze estere: 1 dichiara di essere venuta a conoscenza della secolare esperienza di Geel durante un convegno a Colonia, mentre 1 dice di aver visitato famiglie affidatarie, durante uno scambio professionale in Francia. Inoltre 1 assistente sociale, avendo letto il testo del Dr. Aluffi, dovrebbe conoscere le numerose esperienze estere ivi riportate.

 

Domanda 3

L’équipe del suo servizio ha mai pensato, ed eventualmente proposto, di avviare un progetto di questo tipo? Se si per quale motivo l’idea è naufragata?  

 

La Tabella 3 indica che 10 servizi su 26 hanno pensato di avviare un progetto per gli affidamenti eterofamilari, mentre 16 non hanno mai preso in considerazione la possibilità di realizzare interventi di questo tipo.

 

    Figura 4 – Proposta del progetto

 
  

 

 

Tra i 10 servizi che hanno pensato di avviare un progetto per gli affidamenti eterofamilari, in 6 la proposta non ha ricevuto approvazione, in 3 l’idea è in corso, in 1 non è specificato.

 

 

      Figura 5 –  Approvazione del progetto

 
   

 

 

 


Tabella 3: Proposta del progetto in équipe e motivo della mancata approvazione

 

SERVIZIO INTERVISTATO

SI

NO

MOTIVO

Servizio 1

 

X

 

Servizio 2

 

X

 

Servizio 3

 

X

 

Servizio 4

 

X

 

Servizio 5

X

 

Complessità delle risorse necessarie e incombenze lavorative

Servizio 6

 

X

 

Servizio 7

X

 

Motivi economici

Servizio 8

 

X

 

Servizio 9

X

 

Impossibilità di dimostrare il risparmio economico dell’intervento

Servizio 10

X

 

Problemi burocratici ed amministrativi

Servizio 11

 

X

 

Servizio 12

X

 

Idea in corso

Servizio 13

X

 

Complessità del progetto e difficoltà ad ottenere adesione

Servizio 14

 

X

 

Servizio 15

 

X

 

Servizio 16

X

 

Idea in corso

Servizio 17

X

 

Idea in corso

Servizio 18

 

X

 

Servizio 19

X

 

?

Servizio 20

 

X

 

Servizio 21

 

X

 

Servizio 22

 

X

 

Servizio 23

 

X

 

Servizio 24

X

 

?

Servizio 25

 

X

 

Servizio 26

 

X 

 

Totale

10

16

 


Tra i 6 servizi che hanno pensato di realizzare affidamenti eterofamiliari senza poi farlo realmente, in 2 casi gli operatori hanno valutato in équipe la possibilità di promuovere un progetto di questo tipo, ma già in équipe si è stabilito di non procedere, in 3 casi gli operatori hanno proposto l’idea al Direttore del DSM ma la loro proposta non è stata accolta. Infine in 1 caso gli operatori ed il Direttore del DSM hanno valutato insieme l’opportunità ed insieme hanno deciso di non procede.

 

Soggetti che non hanno approvato il progetto

 

Équipe 

2

Direttore del Dipartimento

3

Équipe e Direttore del Dipartimento

1

Totale

6

 

Domanda 4

Quali sono le ragioni per cui, secondo lei, non esiste un progetto per gli affidamenti eterofamiliari presso il suo servizio?

 

La tabella 4 evidenzia quali sono, secondo le assistenti sociali intervistate, le cause dell’inesistenza di esperienze di affidamenti eterofamiliari all’interno dei rispettivi DSM. 

I rispondenti potevano specificare nelle loro risposte anche più di una causa, infatti le assistenti sociali indicano più frequentemente le seguenti cause: difficoltà nel reperire famiglie affidatarie (7), carenza di risorse economiche (6), maggior investimento su gruppi appartamento e comunità terapeutiche (4), Mancanza di una “cultura psichiatrica” che consideri la famiglia come risorsa (4), carenza di operatori e di tempo da dedicare alla progettualità (4), scarsità di sperimentazioni ed incertezza dei risultati (2), difficoltà nel formare le famiglie (2).

 

 

     


 

                                                                                                            

 


Tabella 4: Cause dell’inesistenza del progetto

   

SERVIZIO

INTERVISTATO

CAUSE

Servizio 1

Maggior investimento su gruppi appartamento e comunità 

Servizio 2

Mancanza di una “cultura psichiatrica” che consideri la famiglia come risorsa 

Servizio 3

Disapprovazione della dirigenza, carenza di operatori e di tempo da dedicare alla progettualità, scarsità di sperimentazioni ed incertezza dei risultati

Servizio 4

Carenza di risorse economiche, difficoltà nella selezione delle famiglie affidatarie, mancanza di una “cultura psichiatrica” che consideri la famiglia come risorsa 

Servizio 5

Carenza di operatori e di tempo da dedicare alla progettualità, difficoltà di coordinamento

Servizio 6

Scarsità di risultati ottenibili, difficoltà nel reperire famiglie affidatarie, difficoltà nel formare le famiglie affidatarie

Servizio 7

Carenza di risorse economiche 

Servizio 8

Non conoscenza della risorsa

Servizio 9

Carenza di risorse economiche 

Servizio 10

Problemi burocratici e legali

Servizio 11

Difficoltà nel reperire famiglie affidatarie, difficoltà nel formare le famiglie affidatarie

Servizio 12

Maggior investimento su gruppi appartamento e comunità 

Servizio 13

Mancanza di una “cultura psichiatrica” che consideri la famiglia come risorsa 

Servizio 14

Carenza di operatori e di tempo da dedicare alla progettualità

Servizio 15

Difficoltà nel reperire famiglie affidatarie

Servizio 16

Maggior investimento su gruppi appartamento e comunità, carenza di risorse economiche

Servizio 17

È in corso la fase di sensibilizzazione del territorio

Servizio 18

Maggior investimento su gruppi appartamento e comunità

Servizio 19

Difficoltà nel reperire famiglie affidatarie

Servizio 20

Carenza di risorse economiche, difficoltà nel reperire famiglie affidatarie

Servizio 21

Carenza di operatori e di tempo da dedicare alla progettualità

Servizio 22

Forte presenza di nuclei familiari di origine disposti a collaborare con i servizi 

Servizio 23

Scarsità di sperimentazioni ed incertezza dei risultati

Servizio 24

Difficoltà nel reperire famiglie affidatarie, reticenza degli psichiatri

Servizio 25

Non si ritiene che un intervento di questo tipo sia di pertinenza del servizio

Servizio 26

Carenza di risorse economiche, difficoltà nel reperire famiglie affidatarie, mancanza di una “cultura psichiatrica” che consideri la famiglia come risorsa 


 

        Figura 6 – Cause inesistenza progetto

 
           

                                                 

 


Inoltre in singole risposte sono state riportate le seguenti motivazioni: disapprovazione da parte della dirigenza, difficoltà nella selezione delle famiglie affidatarie, difficoltà di coordinamento fra le figure coinvolte, scarsità di risultati ottenibili, non conoscenza della risorsa, problemi burocratici e legali, si sta ancora svolgendo la fase di sensibilizzazione del territorio, forte presenza di nuclei familiari di origine disposti a collaborare con i servizi, reticenza degli psichiatri che colgono l’impegno non indifferente a carico del servizio, non si ritiene che un intervento di questo tipo sia di pertinenza del servizio.

 

Domanda 5

In riferimento ai principi del servizio sociale, ritiene che l’affidamento eterofamiliare potrebbe promuovere una migliore qualità della vita per alcuni utenti psichiatrici?

 

Nella Tabella 5 vengono indicate le opinioni dei rispondenti in merito ad un possibile miglioramento della qualità della vita per alcuni pazienti psichiatrici grazie all’accoglienza in famiglia.


 

 

 

Tabella 5: Promozione di una migliore qualità della vita

 

SERVIZIO INTERVISTATO

SI

NON SO

CONDIZIONI

Servizio 1

X

 

 

Servizio 2

X

 

 

Servizio 3

X

 

 

Servizio 4

X

 

 

Servizio 5

X

 

Giusto abbinamento paziente - famiglia

Servizio 6

X

 

Costante supporto e monitoraggio da parte degli operatori

Servizio 7

X

 

 

Servizio 8

 

X

 

Servizio 9

X

 

 

Servizio 10

X

 

 

Servizio 11

X

 

 

Servizio 12

X

 

 

Servizio 13

X

 

 

Servizio 14

X

 

 

Servizio 15

X

 

Giusto abbinamento paziente - famiglia

Servizio 16

X

 

 

Servizio 17

X

 

Adeguata preparazione ed accurata selezione delle famiglie

Servizio 18

X

 

 

Servizio 19

X

 

 

Servizio 20

X

 

Adeguata preparazione ed accurata selezione delle famiglie

Servizio 21

X

 

Interiorizzazione da parte dell’utente di una dimensione affettivo - relazionale legata al nucleo familiare

Servizio 22

X

 

 

Servizio 23

 

X

 

Servizio 24

X

 

 

Servizio 25

X

 

 

Servizio 26

X

 

 

Totale

24

2

 


Su 26 assistenti sociali, ben 24 concordano nel ritenere l’affidamento eterofamiliare una risorsa in grado di promuovere una migliore qualità della vita per le persone sofferenti di disturbi psichici. Nessuno manifesta pareri negativi in merito, 2 operatori dichiarano di non avere sufficienti conoscenze per rispondere.

 

       Figura 7 –  Promozione migliore qualità della vita

 
                       

 

 

Fra coloro che considerano l’accoglienza familiare un intervento dal quale gli utenti psichiatrici potrebbero trarre beneficio, 18 esprimono in assoluto la loro approvazione, (si sicuramente, senza dubbio, senz’altro, indubbiamente, certamente), mentre 6 precisano alcune condizioni, in assenza delle quali, questa tipologia d’intervento produrrebbe più danni che benefici.

Secondo questi 6 operatori, i requisiti essenziali per la buona riuscita dell’esperienza sono: giusto abbinamento tra famiglia e paziente (2), adeguata preparazione ed accurata formazione delle famiglie affidatarie (2), costante supporto e monitoraggio da parte dell’équipe curante (1), interiorizzazione da parte dell’utente di una dimensione affettivo - relazionale legata al nucleo familiare (1).

 

 

 

 

 

3.      Analisi dell’attività dei servizi pubblici in cui è attivo un progetto per gli affidamenti eterofamiliari

 

In questo paragrafo vengono illustrati i risultati dell’indagine svolta nei Dipartimenti di Salute Mentale in cui è attivo un progetto per gli affidamenti eterofamiliari. In tali servizi è stata somministrata l’intervista,  composta da 39 domande.

Nella Regione Piemonte, sono 5 i Dipartimenti di Salute Mentale nei quali esiste un progetto per gli affidamenti eterofamiliari:

§               ASL 5 DSM 5b Collegno

§               ASL 7 DSM Settimo Torinese

§               ASL 8 DSM Chieri

§               ASL 10 DSM Pinerolo

§               ASL 18 DSM Alba

Inoltre, presso il Ser.T. dell’ASL 21 di Casale Monferrato, è attivo un progetto di affidamento familiare per soggetti tossico-alcoldipendenti.

 

 

            Il progetto “A bordo con noi” del DSM dell’ASL 10[11]

 

“Ho sognato una mongolfiera che veniva verso di me, dentro c’erano delle persone, una famiglia. Avrei tanto voluto essere lì con loro, vivere con loro, condividere le gioie delle cose belle o affrontare le difficoltà dei momenti meno facili. Andare… forse… in un posto in riva al fiume a pescare o in un bosco a raccogliere funghi. E poi… sedere tutti a tavola parlando del più e del meno, a volte discutendo. Leggere un libro, chiedere consigli… io non riesco proprio ad organizzarmi, ma come sarebbe bello se… Ho sognato che la mongolfiera si avvicinava. Poi qualcuno mi ha lanciato la scaletta e mi ha detto: - Aggrappati, vieni a bordo con noi -. Non è un sogno, è una realtà. È il progetto di affidamento familiare”.

Questa è la “favola” riportata sul materiale informativo utilizzato durante la prima campagna di pubblicizzazione e sensibilizzazione del progetto, risalente al 2000. 

Secondo quanto riportato dal testo del progetto per l’affidamento eterofamiliare di utenti del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL 10 di Pinerolo, l’affidamento eterofamiliare si può definire come una modalità di presa in carico, da parte di una famiglia, di una persona alla quale vengono offerti vitto, alloggio e la possibilità di condividere la vita familiare quotidiana. L’affidamento può essere considerato un servizio di tipo residenziale, in grado di facilitare una reale integrazione sociale ed una maggiore autonomia della persona con problemi mentali.

Le finalità generali del progetto sono quelle di promuovere una maggiore autonomia ed una migliore qualità della vita per i sofferenti mentali, in un ambiente il più possibile simile a quello familiare.

 

la nascita del progetto

 

Il progetto “A bordo con noi” nasce dall’idea di alcuni operatori del DSM, i quali hanno avuto notizia di tale intervento in occasione di un convegno. L’assistente sociale in servizio all’epoca ed un infermiera hanno raccolto del materiale in merito all’attività, hanno studiato il progetto e lo hanno proposto all’Amministrazione, la quale ne ha  deliberato l’approvazione con Deliberazione del Direttore Generale dell’ASL 10, n. 1449 del 16.12.1999, “Affidamento eterofamiliare di utenti del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL 10”.

L’attività di affidamento eterofamiliare ha avuto ufficialmente inizio il 28 gennaio del 2000, data in cui è divenuta esegutiva la delibera  sopraccitata.

Il nome scelto per identificare l’inserimento di un utente psichiatrico in famiglia è “affidamento eterofamiliare”. Le fonti normative di riferimento sono la legge 5 febbraio 1992 n. 104 “Legge quadro per  l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, la quale all’art. 8 prevede, fra gli interventi atti a favorire la piena integrazione delle persone handicappate, la possibilità di affidamenti e inserimenti presso persone e nuclei familiari, e la D.C.R. n. 357 – 1370 del 1997, la quale prevede, all’allegato C, fra gli interventi alternativi al ricovero e all’inserimento in strutture protette, l’affido familiare in via sperimentale, offrendo la possibilità di erogare un sostegno economico a favore della famiglia di accoglienza.

 

gli attori del progetto

 

l’èquipe

 

Gli operatori che gestiscono il progetto fanno parte dell’équipe del CSM che ha in carico l’utente, in particolare il gruppo di lavoro è composto da 8 operatori del DSM, di cui 5 della Struttura Complessa Psichiatria 1 (CSM Pinerolo) e 3 della Struttura Complessa Psichiatria 2 (CSM di Luserna San Giovanni e CSM di Villar Perosa):

§               2 Infermiere Professionali;

§               2 Medici Psichiatri;

§               1 Psicologa;

§               1 Assistente Sociale;

§               2 Educatrici Professionali.

Non esistono mansioni individuate ed attribuibili a specifici operatori, è un gruppo molto democratico e non schiavo di inquadramenti professionali né di ruolo. I colloqui e le visite domiciliari sono effettuati solitamente da due operatori, in modo da poter avere più punti di vista, la discussione dei casi avviene in équipe e le scelte più importanti vengono prese sempre insieme e di comune accordo.

La riunione di équipe viene svolta ogni quindici giorni presso la sede del CSM di Pinerolo, vi è una sospensione del calendario nel periodo estivo e durante le festività.

 

 

 

la famiglia affidataria

 

Il reperimento delle famiglie affidatarie è stato possibile attraverso i seguenti canali:

§               articoli e annunci su riviste e giornali locali;

§               programmi radiofonici;

§               invio di materiale informativo a comuni, enti pubblici e privati (es. sedi ambulatoriali sparse sul territorio e studi dei medici di base), comunità religiose, cooperative e gruppi di volontariato.

Oggi il canale che consente maggiormente il reperimento di nuove famiglie affidatarie è il passaparola, lo scambio di informazioni tra famiglie che hanno già avuto un’esperienza di accoglienza ed altre interessate al progetto.

Ad oggi sono state effettuate due campagne informative, rivolte alle famiglie, per sensibilizzarle sulla tematica degli affidi: la prima nel 2000, anno di inizio del progetto, e la seconda nel 2005.

Dall’inizio del progetto sono state contattate 40 famiglie e 17 sono state ritenute idonee ad affrontare un’esperienza di affido (dato aggiornato al 24/05/06).

Sono stati individuati alcuni requisiti che la famiglia deve possedere per potersi candidare ad accogliere un ospite. Innanzitutto è necessario che la famiglia abbia uno o più redditi, in modo tale che l’introito   derivante dall’affido non rappresenti l’unica fonte di guadagno, poiché è importante che vi sia equilibrio fra interresse economico e spirito solidaristico.

Inoltre è indispensabile la presenza di una camera ad uso esclusivo dell’ospite, non in condivisione o ad uso molteplice di altri membri della famiglia, non necessariamente deve esserci un bagno personale ma è gradita come soluzione. È importante verificare che non vi siano barriere architettoniche e che la casa non sia particolarmente isolata, evitando così di contribuire al rischio di isolamento del soggetto.

È necessario che non vi siano altri affidi in corso (né di minori, né di anziani, né di altri pazienti), che la famiglia sia aperta a nuove esperienze, disponibile alla formazione ed alla collaborazione con gli operatori. Infine è richiesta l’assenza di precedenti penali e di gravi problemi familiari.

È stata predisposta una scheda informativa relativa alla disponibilità della famiglia di accoglienza, la quale viene compilata durante il primo colloquio conoscitivo fra operatori ed aspiranti affidatari. La scheda è suddivisa in 7 parti:

1.            dati anagrafici della famiglia;

2.            caratteristiche dell’abitazione (collocazione, mezzi di trasporto, tipo di costruzione, struttura, vani indipendenti per l’ospite, riscaldamento, disposizione delle stanze);

3.            abitudini della famiglia (orari, pasti, presenza di animali da cortile e domestici, vacanze, tempo libero, frequentazioni, alimentazione, religione, abitudini relative al fumo e al consumo di alcolici);

4.            motivazione dell’accoglienza (religiosa, impegno sociale, economica, ecc.);

5.            aspettative sull’esperienza (rispetto all’ospite e rispetto al gruppo di lavoro);

6.            desideri e cose da evitare (rispetto all’ospite e rispetto al gruppo di lavoro);

7.            note e osservazioni varie.

Attualmente sono in corso 4 affidamenti a tempo pieno: 1 iniziato nel 2003, 1 a marzo 2005, 1 a marzo 2006 e 1 ad agosto 2006.

In passato sono stati effettuati altri 4 affidamenti a tempo pieno, di cui 1 iniziato nel 2002 e terminato quest’anno per decesso dell’utente,   1 secondo affido risalente a qualche anno fa, anch’esso terminato per decesso dell’ospite, 1 a tempo determinato e con obiettivi specifici (una ragazza giovane inserita in fase acuta), infine un affido iniziato quest’anno e terminato rapidamente, in quanto non rappresentava la soluzione adatta per il paziente.

Inizialmente si erano sperimentati degli affidi diurni, i quali però non si sono dimostrati rispondenti alle necessità e da quel momento è stata richiesta alle famiglie solo più disponibilità per il tempo pieno.

Attualmente le famiglie in stand – by sono circa 20. Per mantenere un contatto con le famiglie selezionate ma non ancora utilizzate, è previsto l’invio periodico di lettere, inoltre talvolta vengono effettuate delle telefonate, soprattutto per sondare se c’è ancora disponibilità all’accoglienza.

Non è previsto un corso di formazione per le famiglie affidatarie, ma è previsto un supporto costante lungo tutto il periodo dell’esperienza.

In passato venivano svolti alcuni incontri finalizzati a fornire un inquadramento generale sul servizio, sulla malattia e sul progetto di affidamento eterofamiliare. Si trattava comunque di incontri rivolti in generale a volontari in ambito psichiatrico ed obiettori.

Secondo l’operatore intervistato, non è indispensabile una formazione in senso stretto per le famiglie, perché non si chiede loro di trasformarsi in tecnici e/o operatori professionali, ma si punta sulle loro qualità umane e sulla possibilità che, presso di loro, il paziente viva un’esperienza umanamente significativa ed affettiva, sperimentando un contesto di vita meno istituzionalizzato e meno alienante. In ogni caso, ogni volta che si ipotizza un affido, alla famiglia di accoglienza vengono fornite numerose informazioni sul paziente stesso e sulle sue specifiche esigenze e problematiche.

 

l’utente

 

Per avviare un’esperienza di accoglienza familiare, il paziente deve innanzitutto essere interessato e disponibile ad affrontare un cambiamento in positivo nella propria vita, dunque deve esserci condivisione rispetto al progetto.

Spesso si tratta di persone che hanno perso i loro punti di riferimento essenziali nella vita e si trovano sprovvisti di un’altra progettualità possibile, sono persone da stimolare e per le quali “l’intervento umano” si immagina possa avere un grande impatto.

Non sono mai persone aggressive o potenzialmente aggressive, sono pazienti stabilizzati dal punto di vista della manifestazione della sintomatologia psichiatrica, che hanno un rapporto terapeutico continuativo con il CSM.

È stata predisposta una scheda informativa relativa alle caratteristiche dell’utente, la quale e volta ad indagare:

§               livello di scolarità, attuale e/o precedente occupazione lavorativa;

§               religione;

§               stato civile;

§               composizione del nucleo familiare di origine, composizione dell’attuale nucleo familiare, livello di collaborazione della famiglia, rapporti affettivi e amicizie;

§               attuale abitazione, precedenti esperienze in comunità protette e/o gruppi appartamento;

§               diagnosi, condizione clinica attuale, precedenti ricoveri, terapie farmacologiche, livello di autonomia nella gestione dei farmaci;

§               eventuale interdizione, inabilitazione, amministrazione di sostegno;

§               progetto terapeutico;

§               grado di autonomia nell’alimentazione, nell’igiene personale, nella gestione della casa;

§               fonti di reddito;

§               particolari abitudini (fumo, alcolici, ecc.), orari abituali, hobbies, sport, particolari paure (es. animali);

§               aspettative rispetto ai futuri conviventi ed in generale rispetto all’affido familiare;

 

la famiglia di origine

 

La famiglia di origine viene sempre coinvolta nel progetto di affidamento eterofamiliare che riguarda il loro congiunto, poiché è un progetto che richiede trasparenza, correttezza ed ogni eventuale punto di forza deve essere coinvolto, o quantomeno informato dell’intervento che viene offerto al proprio familiare.

Solitamente la proposta dell’affido viene effettuata in primo luogo al paziente, informandolo del fatto che verranno contattati i suoi familiari, poi viene svolto un colloquio con questi ultimi, illustrando il progetto      “A bordo con noi”, spiegando loro le ragioni per cui si è pensato a tale soluzione per il loro parente.

Infine, ad affido avvenuto, si organizza un incontro con il paziente, la sua famiglia di origine e la nuova famiglia affidataria presso l’ambulatorio, in modo tale da consentire alle famiglie di incontrarsi per  la prima volta in un ambiente che sia in grado di offrire loro il necessario supporto e contenimento.

Osservando gli affidi realizzati si ritrovano essenzialmente tre tipologie di atteggiamenti assunti dalla famiglie d’origine rispetto al progetto:

§               famiglie che si sono opposte fin dall’inizio ed hanno continuato a mantenere questo atteggiamento anche nel corso dell’affido, nonostante gli evidenti risultati positivi dello stesso; 

§               famiglie che inizialmente erano contrarie all’affido, ma poi hanno modificato il loro giudizio, vedendo il loro parente soddisfatto e a proprio agio  presso la famiglia affidataria;

§               famiglie che fin da subito hanno accolto bene l’idea dell’affido, che si informano costantemente sulle condizioni del loro familiare, mantenendo direttamente un dialogo con gli affidatari.

Le famiglie che possono essere definite “patologiche” sono quelle che ostacolano più radicalmente il progetto, che fanno più fatica a comprendere i benefici che ne derivano per il loro parente, che si sentono “minacciate” dal fatto che qualcun altro sia in grado di rapportarsi con il loro congiunto, mentre loro non ne sono capaci.

Le difficoltà che emergono maggiormente nel rapporto tra famiglia di origine e famiglia affidataria sono:

§               il timore del nucleo di origine che altri si sostituiscano a loro e dimostrino delle abilità nel trattamento che loro non sono stati capaci di dimostrare;

§               la difficoltà della famiglia biologica nel condividere lo stile di vita che la nuova famiglia imposta (ad esempio una delle famiglie affidatarie del DSM ha l’abitudine di portare con sé l’ospite in vacanza, alle feste, comunioni, cresime e matrimoni, ed il fratello dell’utente non capisce perché la sorella debba essere coinvolta in cose “che non la riguardano” e che comportano spese extra);

§               fra le famiglie affidatarie del DSM vi è una famiglia provenente dal Ruanda e perciò “di colore”, questa caratteristica è stata spesso oggetto di pregiudizi da parte dei famigliari degli utenti.

L’èquipe che gestisce gli affidi si pone costantemente come “mediatore” delle relazioni tra famiglie biologiche ed affidatarie, puntando a chiarire nel dettaglio le modalità progettuali e gli obiettivi, cercando di rinforzare il ruolo attivo che la famiglia di origine ha in queste scelte, sia prima dell’inizio dell’affido sia nel suo realizzarsi.

 Si è verificato che coinvolgere i famigliari e farli sentire attivi e responsabili, come se la decisione discendesse da loro, quando risulta possibile, aiuta ad allentare le resistenze e consente il naturale sviluppo del progetto, senza ulteriori opposizioni.

Dove non è possibile riconoscere alla famiglia di origine un ruolo ed una centralità, il servizio media i rapporti, ricordando che la titolarità delle scelte e del progetto è degli operatori, pertanto alcune decisioni si devono accettare poiché sono espressione di un intervento di cura.

 

il contratto

 

È stato predisposto un protocollo d’intesa fra le parti coinvolte nel progetto di affidamento eterofamiliare, precisamente: ospite, famiglia affidataria, famiglia di origine (parte eventuale), operatori di riferimento.

Nella prima parte del protocollo vengono indicati i dati anagrafici dell’utente, la tipologia di affidamento e gli obbiettivi dell’affido, nella seconda parte sono evidenziati i compiti e le responsabilità dei diversi attori: famiglia affidataria, ospite, operatori del CSM e famiglia di origine.

L’équipe affidi ha in programma la modifica del testo del protocollo attualmente in uso, poiché si è riscontrato che non risponde più correttamente alle esigenze del progetto e degli operatori.

È previsto un periodo di prova, che può variare da un minimo di 2 settimane ad un massimo di 3 mesi, per consentire alla famiglia e alla persona di conoscersi reciprocamente. Questa clausola è contenuta nel protocollo d’intesa ed ha l’obiettivo di rassicurare gli attori sul fatto che non si tratta di un progetto che vincola ed obbliga per sempre le parti,  ma che, se emergono difficoltà insormontabili, ognuno può recedere senza problemi dal contratto.

 L’équipe ha stabilito che ogni famiglia affidataria possa accogliere soltanto un paziente, poiché il progetto deve essere individualizzato e soprattutto per consentire che l’esperienza di affido sia un momento affettivamente forte, che il paziente senta di avere uno spazio molto personale in grado di aiutarlo ad esprimere al meglio tutte le sue potenzialità, che un vita di anonimato aveva “sepolto” e fatto tacere.

Alla famiglia affidataria viene riconosciuto un contributo giornaliero pari ad Euro 38,00 per l’affidamento a tempo pieno (24h/24h).

Una parte del rimborso spese viene erogato direttamente dall’ASL alla famiglia attraverso un versamento sul conto corrente degli affidatari,  in base al conteggio dei giorni effettivamente trascorsi dall’utente in famiglia (poiché, se il paziente trascorre alcuni giorni fuori dalla famiglia affidataria, l’ASL paga soltanto quelli vissuti realmente insieme).

L’utente finanzia in parte il proprio affidamento (se dispone di risorse economiche proprie), perciò la seconda parte del contributo viene versata direttamente dall’ospite alla famiglia.

Per stabilire in quali termini l’utente debba partecipare al finanziamento del proprio affido lo si invita a compilare un modulo (lo stesso che si compila quando si realizzano degli inserimenti in struttura) nel quale vengono indicate le entrate del paziente. La quota minima di reddito dell’utente preservata dal contributo alla famiglia si definisce in Euro 154,94. L’utente trattiene questa somma per la gestione delle proprie spese personali, il resto viene versato alla famiglia, infine l’ASL integra la quota mancante.

A volte la progettualità individuale richiede che il paziente disponga di più denaro per sé (poiché, per esempio, si ipotizza che in futuro possa passare ad una collocazione abitativa autonoma, di conseguenza si ritiene opportuno consentirgli di mettere da parte i propri risparmi), in questi casi, attraverso un’apposita relazione che viene allegata alla copia del progetto, si giustificano le diversità di contributo applicate ai vari casi.

Gli affidamenti realizzati dal DSM dell’ASL 10 sono a medio termine (da alcuni mesi a un paio d’anni), a lungo termine (oltre 2 anni), a tempo pieno (24h/24h) e a tempo determinato e con obiettivi specifici.

 

la realizzazione ed il monitoraggio

 

A seguito della campagna informativa, le famiglie interessate contattano telefonicamente il servizio per avere maggiori informazioni sul progetto e/o per dare la loro disponibilità.

Dopo il contatto telefonico con la famiglia viene fissato entro breve un appuntamento in ambulatorio per la compilazione della scheda informativa. Successivamente si effettua una visita presso l’abitazione della famiglia.

Di solito i colloqui e le visite domiciliari vengono svolti da 2 operatori,  uno della S.C. Psichiatria 1 e l’altro della S.C. Psichiatria 2, in modo tale che ciascun CSM disponga di un’osservazione diretta, particolarmente utile quando devono essere valutati gli abbinamenti utente-famiglia.

Si cerca di fissare i colloqui e le visite domiciliari in modo alternato rispetto alle riunioni, in modo tale da riportare rapidamente in équipe  quanto osservato e valutare l’idoneità o meno della famiglia che si è candidata. In caso di giudizio positivo da parte dell’èquipe, la famiglia viene inserita nel data-base degli affidi, dal quale si attinge ogni qual volta si presenta la possibilità di realizzare un affidamento.

Generalmente, nel periodo iniziale della convivenza, le visite domiciliari vengono effettuate settimanalmente, poi, man mano che l’affido si consolida, la frequenza delle visite diventa mensile. Inoltre si mantiene il contatto con le famiglie attraverso telefonate mensili.

Spesso si incontra l’utente in ambulatorio, al di fuori del contesto familiare, per poter raccogliere le sue osservazioni sull’andamento del progetto.

In ogni caso, nel momento in cui sorgono delle difficoltà e si mostra necessario aumentare il supporto, gli operatori titolari dell’affido intensificano le visite ed i colloqui con l’utente e la famiglia.

 

la valutazione del progetto

 

In due situazioni è stato necessario interrompere la convivenza di fra utente e famiglia, in entrambe le cause che hanno determinato l’interruzione dell’esperienza sono da ricercare nella difficoltà della famiglia ad entrare realmente in “contatto” con il malato e con la sua sofferenza interiore, unita al fatto di aver sottovalutato lo “spazio affettivo” che richiede un progetto di questo tipo.

In linea generale, negli affidi realizzati fino ad oggi, sono molte le sfere soggette a miglioramento grazie all’accoglienza familiare.

Innanzitutto la cura del sé subisce un netto miglioramento, così come l’ordine nel mantenere i propri oggetti personali, i propri indumenti, ecc. Progressivamente migliora la capacità del paziente di prendere l’iniziativa nel fare alcune cose in casa o fuori; anche la capacità di “stare” in relazione con gli altri ha un’evoluzione positiva.

Spesso migliora la comprensione, da parte del paziente, della propria condizione, accettando meglio l’assunzione delle terapie e conseguentemente si verifica una più adeguata lettura dei propri sintomi,  si chiede aiuto nel momento in cui si sente sopraggiungere l’acutizzarsi della sintomatologia patologica, senza attendere che ormai tutto sia conclamato. In senso globale vi è un netto miglioramento sul piano della dignità personale e della malattia.

L’assistente sociale intervistata dichiara “Quando ho preso servizio presso il CSM dell’ASL 10 questo progetto era da poco stato pensato e realizzato dall’équipe e, proprio in quegli anni, stava decollando nella sua più piena realizzazione. Ho immediatamente creduto che fosse un’impresa coraggiosa, ricca di potenziale positivo e ad alta capacità riabilitativa, e cosi posso dire che si è dimostrato nel corso del tempo.

Penso che sia un’esperienza forte, che cambia profondamente le famiglie che si offrono per un affido e che aiutano il paziente a modificarsi in molti ambiti e come persona. Personalmente ammiro molto le famiglie affidatarie e la loro sana e forte capacità di “aprirsi” non solo al paziente ma alla comunità tutta. Aprono la loro casa, il loro mondo familiare, i loro sentimenti all’esterno e si mettono in gioco per costruire insieme qualcosa di forte e che lascia il segno”.

Una famiglia affidataria racconta ”Dopo circa tre anni e alcune proposte senza seguito, finalmente a gennaio ci chiamano per comunicarci che c’è una persona compatibile con la nostra famiglia, vi è solo un piccolo particolare contrastante: il sesso non è quello concordato, in una famiglia di sole donne entrerà un giovane uomo!!! Accettiamo la sfida e sin dal primo incontro si instaura un feeling di naturalezza e gioia. Siamo state molto fortunate, nella famiglia è entrato uno splendido ragazzo, di ottimo carattere, propositivo, sincero.

A otto mesi dal suo arrivo sembra che sia da sempre con noi, condividendo tutte le situazioni familiari con partecipazione attiva. È un’esperienza assolutamente unica che consigliamo a chiunque voglia aprire, oltre alla porta di casa, anche il proprio cuore”.

L’ospite di questa famiglia racconta “Mi sono inserito perfettamente nella famiglia che mi ha voluto, io che sognavo di avere una famiglia tutta mia, l’ho trovata. È stato tutto più semplice del previsto. La famiglia mi ha aiutato ad adattarmi alle abitudini della casa. Da parte mia, mi sono sforzato di comunicare con loro per rendere più naturale possibile il mio arrivo. Una persona come me ha bisogno di affetto e sostegno, che solo in un ambiente sano e salutare si può trovare.

Nella mia esperienza personale posso affermare che avere a disposizione spazi verdi da condividere con la famiglia e simpatici ed affettuosi amici a quattro zampe può aiutare molto” (Aslinseieme, Gennaio 2006).      

 

 

 

 

 

            Il Servizio IESA del DSM 5b dell’ASL 5[12]

 

Secondo quanto riportato dalle linee guida per la regolamentazione del servizio di Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici (IESA) del DSM 5b dell’ASL 5 di Collegno, per inserimento eterofamiliare si intende una modalità abitativa alternativa al ricovero in istituzioni chiuse e complementare ad altre soluzioni extra-istituzionali e rivolta ad utenti dei servizi psichiatrici.

Le parti chiamate in causa per la realizzazione di questo tipo di servizio sono sostanzialmente tre: l’ospite, la famiglia ospitante (non coincidente con quella biologica) e la struttura che si occupa della parte organizzativa e supportiva.

 

la nascita del progetto

 

La progettazione del servizio IESA di Collegno inizia nel dicembre 1997, quando il Dr. Aluffi, rientrato in Italia dopo un periodo trascorso in Germania, propone al Prof. Furlan e al Dr. Cristina, rispettivamente Direttore del DSM 5b ASL 5 di Collegno e Responsabile del CSM di Grugliasco, di avviare presso il loro DSM un’esperienza che da più parti veniva considerata un azzardo: collocare pazienti psichiatrici nelle famiglie piemontesi.  

Il Prof. Furlan e il Dr. Cristina credono sin da subito nell’idea del    Dr. Aluffi e decidono di appoggiare la realizzazione di un servizio per l’inserimento eterofamiliare supportato di adulti sofferenti di disturbi psichici presso il loro Dipartimento. Come sottolinea il Prof. Furlan, l’esperienza è stata possibile anche grazie alla lungimiranza dimostrata dalla Direzione Generale dell’ASL 5 che, malgrado tutte le difficoltà incontrate, ha accettato di deliberare per questo genere di sperimentazione e di stanziare anche delle risorse economiche (Furlan P.M., in Atti 1° Conv. Naz. IESA, Torino 2000). 

Dunque la proposta di creare un servizio IESA giunge non dall’alto (Direzione Aziendale), non dal basso (operatori del DSM), bensì “orizzontalmente”, cioè dall’idea di un professionista che, al tempo, era un consulente esterno.

In un anno di lavoro, in collaborazione con il DSM 5b dell’ASL 5 Regione Piemonte, l’Università di Torino e la Cooperativa Sociale Alice nello specchio, il Dr. Aluffi sviluppa un modello che è tuttora adottato dal DSM 5b, sia nella sua componente normativa che in quella organizzativo-operativa.

Il servizio cui si è ispirato il Dr. Aluffi per la stesura del progetto è quello dell’associazione Arkade di Ravensburg, ove egli aveva maturato un proficuo periodo di esperienza professionale e di studio (Cfr. cap. 4 par. 3).

L’attività di inserimento eterofamiliare ha avuto ufficialmente inizio nel 1999, a seguito della Deliberazione del Direttore Generale ASL 5,   n. 2148 del 30.12.1998 “Avvio prima fase del programma di Inserimenti eterofamiliari supportati di adulti seguiti dal Dipartimento di Salute Mentale 5b”.

Il nome scelto per identificare l’inserimento di un utente psichiatrico in famiglia è “Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici”, poiché i soggetti coinvolti nell’esperienza sono tre: la famiglia che accoglie, il soggetto accolto ed un terzo, l’operatore IESA, che supporta l’inserimento.

Le fonti normative di riferimento per l’attività sono la Deliberazione del Consiglio Regionale n. 357-1370 del 1997 (Allegato C), la Legge Regionale n. 62 del 13.04.1995 ed il Piano Sanitario Regionale 1997/1999.

 

 

 

 

gli attori del progetto

 

l’équipe

 

Gli operatori che gestiscono il servizio IESA sono “supplementari” all’équipe del CSM che ha in carico il paziente. Il personale è misto, infatti un operatore è dipendente dall’ASL, così come il coordinatore, mentre l’altro è esterno, ma si andrà sempre più verso un impiego di personale esterno, proveniente dal privato sociale (associazioni, cooperative).

Il parere del Dr. Aluffi, coordinatore dell’équipe IESA, volge in favore di équipe composte da personale del privato sociale, in sinergica collaborazione con i dipendenti delle istituzioni pubbliche, in primo luogo perché in questo modo risulta più facile la gestione amministrativa, in quanto con contratti di consulenza si può impiegare il personale in maniera proporzionale all’effettivo carico di lavoro (più sono numerosi gli inserimenti, più si necessita di personale, in quanto il rapporto è di un 1 operatore ogni 10 inserimenti). Inoltre il personale del privato sociale è solitamente più motivato a questo tipo di lavoro e alla crescita del servizio.    

Lo staff che segue gli inserimenti è composto da un referente istituzionale che attualmente ricopre anche il ruolo di coordinatore (Psicologo Clinico) e due operatori (un’Infermiera professionale specializzata in psichiatria ed una Psicologa specializzata in criminologia). Completa il servizio un supervisore esterno dell’équipe e delle dinamiche relazionali familiari (Psicoterapeuta).

Come anticipato ogni operatore può occuparsi fino ad un massimo di 10 inserimenti, al momento ne sono in corso 20, dunque sono sufficienti 2 operatori IESA, ma man mano che aumenteranno i pazienti inseriti in famiglia entreranno a far parte dell’équipe nuovi operatori. Per questo motivo attualmente 6 operatori sono in formazione (3 terapisti della riabilitazione psichiatrica, 2 psicologi ed uno specializzando in psicologia clinica).

Qualunque professionista socio-sanitario può diventare operatore IESA, se motivato e adeguatamente formato, in particolare: educatore professionale, infermiere professionale, psicologo, sociologo, assistente sociale, pedagogista, ma anche un operatore socio sanitario, quindi un professionista non laureato.

Le mansioni svolte dal Coordinatore - Referente istituzionale  dell’équipe sono:

§               formazione degli operatori e coordinamento del corso di formazione per gli ospitanti;

§               coordinamento degli interventi di sostegno, delle riunioni d’équipe settimanali,  dell’attività scientifica di valutazione, ricerca e verifica, della selezione delle famiglie e degli ospiti, dell’abbinamento famiglia-ospite e del relativo progetto;

§               promozione del servizio, contatti con i media e le pubbliche relazioni;

§               colloqui periodici con gli ospiti e le famiglie;

§               rapporti con le altre agenzie dipartimentali e relative riunioni, referente per la Direzione Generale, Sanitaria e Dipartimentale.

Le mansioni svolte dall’operatore IESA sono:

§               reperimento delle famiglie e degli ospiti;

§               selezione ed abbinamento famiglia-ospite;

§               stesura del progetto IESA individualizzato;

§               sostegno e supporto agli ospiti ed agli ospitanti;

§               gestione dei contatti con l’eventuale famiglia di origine;

§               organizzazione degli eventuali inserimenti lavorativi;

§               sostegno all’ospite nelle attività amministrative e rapporti con l’assistente sociale di riferimento;

§               reperibilità telefonica sulle 24 ore;

§               riunione d’équipe e supervisione settimanale;

§               contatti con gli invianti;

§               riferisce al coordinatore.

Infine il Supervisore (esterno) dell’équipe e delle dinamiche relazionali familiari ha il compito di condurre la supervisione settimanale.

Le figure ambulatoriali che seguivano il paziente prima dello IESA (infermieri, educatori ed altri), vengono gradualmente rimpiazzate dall’operatore IESA, il quale si occuperà dell’ospite per tutto il periodo della convivenza. Di conseguenza il carico di lavoro, in particolare di infermieri ed educatori, si riduce notevolmente, in quanto l’operatore IESA si occuperà del supporto.

Naturalmente nulla vieta al paziente di mantenere, anche dopo l’inserimento in famiglia, i contatti con gli operatori ambulatoriali con i quali aveva una relazione significativa.

Per quel che riguarda l’assistenza medica specialistica e quella sociale, l’ospite continua a rivolgersi al suo psichiatra ed assistente sociale territoriali.

Elemento essenziale per procedere all’inserimento di un paziente è la compilazione del foglio di invio, dove il medico psichiatra di riferimento formalizza la presa in carico della persona da parte del servizio IESA.

 

la famiglia ospitante

 

Il reperimento di famiglie ospitanti è stato possibile attraverso l’utilizzo di numerosi canali:

§               pubblicazione di articoli su riviste e giornali locali;

§               partecipazione a programmi radiofonici;

§               passaparola;

§               telefonate di risposta ad annunci di ricerca di lavoro nel campo dell’assistenza alla persona;

§               distribuzione di materiale divulgativo in occasione di eventi pubblici;

§               affissione di volantini in pubblici esercizi;

§               organizzazione di eventi pubblici presso enti, associazioni che operano nel volontariato, comuni, quartieri, parrocchie e università;

§               organizzazione di convegni sul tema specifico degli inserimenti eterofamiliari supportati e partecipazione a congressi scientifici riguardanti tematiche vicine alla psichiatria e ai servizi sociali.

Ad oggi sono state svolte 5 campagne informative su 9 anni di attività IESA. Da una stima risalente a luglio del corrente anno 2006, su più di 2500 famiglie informate del progetto nell’arco dei 9 anni di attività IESA, 156 famiglie risultano interessate al progetto e 72 hanno terminato il percorso di formazione e sono state abilitate al ruolo di famiglia ospitante (Aluffi G., in Enveloppes Thérapeutiques, Paris, 2006).

Attualmente le famiglie in banca dati sono 44, di cui 24 in attesa di accogliere un ospite e 20 impegnate in una convivenza. Tra questi 20 inserimenti in corso, 7 sono a lungo termine, 7 a medio termine e 6 a tempo parziale.

 

Tipologia di inserimento

  N° di inserimenti attualmente in corso

Lungo termine

7

Medio Termine

7

Tempo parziale

6

 

Fra questi inserimenti 1 è iniziato nel 1999, 2 nel 2000, 1 nel 2002, 2 nel 2003, 1 nel 2004, 5 nel 2005 e 8 nel 2006.

Inoltre dal 2006 è attivo un inserimento a breve termine per un solo paziente, il quale normalmente vive a casa propria con un familiare biologico, ma nei periodi di assenza di quest’ultimo o in momenti di particolare difficoltà, viene ospitato da una famiglia per brevi periodi.

Per mantenere un contatto con le famiglie che attendono in banca dati vengono effettuare periodicamente delle telefonate, di solito in prossimità delle vacanze estive e delle feste natalizie.

I requisiti essenziali richiesti alla famiglia per potersi candidare al ruolo di famiglia ospitante sono:

§               presenza di una camera ad uso esclusivo dell’ospite;

§               possesso di regolare permesso di soggiorno (se si tratta di persone straniere);

§               disponibilità di tempo da dedicare all’ospite.

È stato predisposto un protocollo di selezione strutturato sulla base di elementi socioculturali caratterizzanti il territorio interessato, attraverso il quale vengono raccolte informazioni in merito ai componenti del nucleo familiare, alla disponibilità di tempo da poter dedicare all’ospite, alla situazione abitativa ed economica, alle abitudini, alla cultura, ai principi educativi della famiglia. Infine vengono sondati i desideri e le fantasie rispetto ai potenziali ospiti.

È previsto un corso di formazione per le famiglie ospitanti, che si compone di sette seminari informativo esperienziali, al termine del quale viene rilasciato un attestato di partecipazione. Il percorso formativo non deve snaturare la famiglia nella sua autenticità, ma deve limitarsi a fornire accessibili ed utili informazioni sugli ambiti interessati dal progetto.

 

l’utente

 

I requisiti richiesti alla persona da inserire in famiglia sono:

§               consenso e adesione al progetto IESA;

§               nucleo familiare in difficoltà o assente;

§               buon compenso psichico;

§               assenza di agiti aggressivi;

§               assenza di problematiche di dipendenza da sostanze;

§               assenza di trascorsi delinquenziali;

§               assenza di tentativi anticonservativi.

È stato predisposto un protocollo di selezione degli ospiti, il quale viene utilizzato durante colloqui semistrutturati, che, per questa tipologia di intervento, si ritiene siano maggiormente adatti rispetto alla  somministrazione di test invasivi. 

 

la famiglia di origine

 

La famiglia di origine, quando è presente, viene sempre coinvolta nella realizzazione dell’inserimento eterofamiliare supportato.

Solitamente il nucleo di origine, in un primo momento, ha la tendenza fisiologica a porsi in termini antagonistici rispetto all’esperienza, in quanto si domanda come sia possibile che un’altra famiglia possa far meglio di loro. Poi, con un attento lavoro di coinvolgimento e di addolcimento, la famiglia, nella maggior parte dei casi, diventa un alleato dell’équipe IESA.

Dall’esperienza del servizio IESA di Collegno emerge che, in 9 anni di attività, su 44 progetti, ci sono stati solo 2 casi in cui la famiglia di origine ha ostacolato notevolmente l’inserimento e di conseguenza lo ha influenzato negativamente. In entrambi i casi la famiglia biologica era infastidita dal fatto che il loro congiunto fosse molto più libero ed autonomo rispetto a quando era inserito in una comunità protetta, e perciò controllato per la maggior parte del tempo da professionisti. 

Per gestire questa potenziale conflittualità l’équipe IESA svolge un ampio lavoro di prevenzione, prestando attenzione, fin dai primi momenti, al coinvolgimento ed alla partecipazione del nucleo di origine. In particolare si spiega ai familiari del paziente che lo IESA è un programma terapeutico di alto livello, praticato in molti paesi e che l’inserimento eterofamiliare, se adeguatamente supportato da operatori specificamente formati, sortisce buoni effetti.

Inoltre, una volta avviata la convivenza, vengono svolti incontri periodici fra gli operatori IESA e la famiglia biologica del paziente, durante i quali possono essere affrontate in itinere eventuali difficoltà.

 

il contratto

 

è stato predisposto un contratto per la regolamentazione del servizio di inserimento familiare, il quale viene sottoscritto dal Direttore del Dipartimento, dall’ospite, dalla famiglia ospitante, dall’operatore IESA e dall’eventuale tutore.

L’art. 1 del contratto formalizza l’impegno che la famiglia ospitante si assume accogliendo una persona sofferente di disturbi psichici. Tale impegno deve essere ottemperato secondo le modalità indicate negli articoli seguenti.

L’art. 2 prevede un periodo di prova di coabitazione, della durata di tre settimane, per consentire alla famiglia e all’ospite di conoscersi reciprocamente. Entrambe le parti possono decidere in qualsiasi momento di interrompere l’esperienza, previo incontro con gli operatori, nel quale si evidenzieranno le ragioni della rinuncia.

L’art. 3 indica la data di inizio dell’inserimento e le modalità a disposizione dell’ospite, della famiglia e dell’ASL per interrompere il rapporto di convivenza.

L’art. 4 descrive le modalità della convivenza, in particolare i compiti degli ospitanti (fornire vitto, alloggio, soddisfare altre vitali necessità dell’ospite, ecc.). Si specifica espressamente che deve essere consentita all’ospite la partecipazione alle attività familiari comuni, soprattutto ai pasti. La famiglia può decidere di non trascorrere le vacanze con l’utente, in tal caso dovrà darne comunicazione scritta al servizio almeno 40 giorni prima della partenza. L’ospitante non può accogliere presso la propria dimora altri soggetti all’infuori dell’ospite. Qualsiasi intenzione ad ospitare altre persone per periodi superiori a 3 mesi deve essere preventivamente comunicata agli operatori IESA.

L’art. 5 precisa la presenza di una copertura assicurativa per le  responsabilità civili in favore della famiglia ospitante e dell’ospite, stipulata dall’ASL 5.

L’art. 6 regolamenta i rimborsi spese, prevedendo che, per le prestazioni offerte, la famiglia riceva un rimborso mensile, all’erogazione del quale contribuisce anche l’utente (se ha disponibilità economica sufficiente).

Infine l’art. 7 è riservato ad eventuali accordi aggiuntivi fra le parti.

L’inserimento eterofamiliare supportato realizzato dal servizio IESA può essere distinto in quattro categorie, sulla base della tipologia dell’intervento o della durata media della convivenza:

§               Breve termine;

§               Medio termine;

§               Lungo termine;

§               Part-time (mezze giornate, giornate intere o week-end).

La famiglia ospitante riceve un rimborso spese mensile di Euro 930. L’ospite deve poter contare su una somma mensile minima di Euro 129, per far fronte alle piccole spese quotidiane e all’acquisto del vestiario.

Laddove, tramite valutazione documentata del servizio IESA, le possibilità economiche dell’utente non consentono di poter disporre della cifra mensile totale (Euro 1.059) occorrente per garantire l’inserimento eterofamiliare supportato, l’ASL provvede all’erogazione della somma mancante attraverso l’utilizzo dello strumento “assegno terapeutico” con finalità riabilitative a favore dell’ospite, il quale provvede a girarlo alla famiglia come rimborso spese per l’ospitalità. Questa modalità consente di mantenere alto il potere contrattuale dell’utente nei confronti della famiglia.

Per quel che riguarda gli inserimenti a tempo parziale, l’accoglienza può essere realizzata su mezze giornate (dalle 08.00 alle 14.00, oppure dalle 14.00 alle 22.00), giornate intere (dalle 08.00 alle 22.00), oppure l’intero week-end (dalle ore 08.00 di sabato alle ore 22.00 di domenica). La famiglia in questi casi riceverà un rimborso spese rispettivamente pari a Euro 20 per le mezze giornate ed Euro 40 per le giornate complete. Per i week-end il rimborso è pari ad Euro 90. La retribuzione per l’ospitalità a breve termine (da 1 giorno a due mesi circa) corrisponde ad Euro 40 al giorno.

 

la realizzazione e il monitoraggio

 

il primo passo da compiere per la realizzazione di inserimenti eterofamiliari è la pubblicizzazione del servizio, al fine di consentirne la conoscenza alle potenziali famiglie ospitanti, agli operatori del DSM e ad altri professionisti esterni al DSM (auspicando la diffusione della cultura dello IESA e la nascita di nuovi servizi).

È fondamentale curare la “formazione interna al DSM”, per ovviare al problema delle scarse segnalazioni di pazienti da inserire in famiglia da parte degli psichiatri dipartimentali. Occorre curare molto bene l’attività di informazione dei colleghi, senza trascurare di coinvolgerli nella progettazione e nella gestione delle convivenze.

A seguito della sensibilizzazione della popolazione, avvengono i primi contatti telefonici fra operatori IESA e famiglie candidate. Dopo il primo contatto si convoca la famiglia interessata presso la sede del servizio e si dà luogo ad un primo colloquio di presentazione reciproca.

La seconda fase di selezione prevede un colloquio semistrutturato, nel quale si raccolgono informazioni in merito ai membri della famiglia, alla disponibilità di tempo, alla situazione abitativa ed economica, alle abitudini familiari, ai desideri e aspettative rispetto ai potenziali ospiti.

Il terzo momento prevede una visita domiciliare, durante la quale ci si accerta delle condizioni effettive della stanza singola da poter dedicare all’ospite e della collocazione dell’abitazione. La visita risulta fondamentale anche per poter conoscere la famiglia nel suo reale contesto di vita e quindi nella sua quotidianità.

Al termine di questi tre momenti di reciproca conoscenza, si valuta, durante la riunione d’équipe, se i candidati possono essere ritenuti idonei per un progetto IESA. È importante che ad ogni fase della selezione partecipino almeno 2 operatori, in modo da favorire un confronto fra i vissuti e le percezioni soggettive.

Se il percorso di selezione risulta positivo, la famiglia candidata è considerata abilitata e viene inserita nella banca dati delle potenziali famiglie ospitanti. Raggiunto un numero sufficiente di famiglie idonee, si avvia il corso di formazione.

Contemporaneamente avviene il reperimento dei candidati ospiti, attraverso un’attenta opera di pubblicizzazione del servizio interna al DSM. Inoltre, attraverso la partecipazione alle riunioni ambulatoriali, si cerca di valutare insieme agli operatori di base i potenziali candidati ad un progetto IESA, in considerazione della banca dati delle famiglie disponibili.

Una volta individuati gli utenti potenzialmente idonei allo IESA, si prosegue con la conoscenza del candidato, sia attraverso riunioni di approfondimento con gli invianti, sia attraverso una conoscenza diretta del paziente. Al fine di raccogliere maggiori informazioni, si svolgono colloqui semistrutturati mirati a conoscere l’anamnesi, gli interessi, i vissuti, le opinioni, le relazioni passate e presenti con i familiari e, in generale, si cerca di valutare quelle dinamiche psicologiche che possono essere positive o negative in prospettiva di una futura convivenza.

Durante la riunione di équipe si valuta l’idoneità dell’utente ad un inserimento, in considerazione degli elementi conoscitivi acquisiti. Se il percorso di selezione risulta positivo si abilita l’utente al ruolo di potenziale ospite. Una volta che l’utente ha espresso il suo consenso e la sua scelta di adesione al progetto, si può continuare il percorso inserendo la persona nella banca dati dei potenziali ospiti.

Il processo di abbinamento fra ospite e famiglia avviene attraverso il confronto delle risorse presenti nelle rispettive banche dati, nel tentativo di avviare una convivenza che sia il più possibile rispondente alle aspettative di entrambe le parti. Durante la riunione di équipe gli operatori IESA discutono dei potenziali abbinamenti che, una volta individuati, vengono riportati in una riunione allargata con i medici e gli operatori di riferimento, i quali esprimono il loro parere in merito.

Quando si giunge ad una soluzione condivisa, si può avviare il percorso di conoscenza graduale e reciproca tra l’ospite e la famiglia. Trascorso il periodo di prova l’inserimento può ritenersi avviato.

Inizialmente le visite domiciliari dell’operatore sono frequenti, poi diventano periodiche, in media una ogni quindici giorni. Se la convivenza lo richiede, le visite e gli interventi vengono intensificati. 

L’operatore IESA deve essere un punto di riferimento sia per le situazioni di ordinaria praticità, sia per le emergenze. Il supporto si concretizza attraverso un’attività mirata a sostenere le parti, ed in particolare l’ospite, nell’affrontare le varie attività quotidiane.

 

la valutazione del progetto

       

Il Dr. Aluffi esprime la propria valutazione positiva in merito al progetto di Inserimento Eterofamiliare Supportato, argomentando ampiamente nel testo Aluffi G., Dal Manicomio alla famiglia, Franco Angeli, Milano, 2001, nonché nei contributi presenti negli atti dei Convegni di Torino 2000 e Lucca 2001.

Inoltre, in questo elaborato, sono state riportate più volte le opinioni del Dr. Aluffi in merito all’ospitalità eterofamiliare (Cfr. cap. 2  par. 4).  

In sintesi riporto nuovamente un passaggio significativo di un articolo pubblicato su una nota rivista di servizio sociale: “… Attraverso l’accoglienza in famiglia, con le sue dinamiche relazionali e le sue possibili figure di identificazione e di attaccamento, hanno luogo quell’integrazione e quella possibilità di sviluppo e di riscatto che rendono possibile all’ospite il recupero di un ruolo, di un’identità nuova. L’ex paziente di comunità si trova così a ritornare ed essere un cittadino con un proprio spazio privato, con il proprio nome sul campanello e sulla buca delle lettere, con le sue figure di riferimento sane e, finalmente, non rappresentate da professionisti della psichiatria, inevitabilmente causa di relazioni asimmetriche e artificiose” (Aluffi G, in Animazione Sociale, Novembre 2001).

 

 

                                                                                                                                                                                                            Il progetto “Una pazza idea!! Accogli un ospite” del DSM dell’ASL 7[13]

 

Il servizio di inserimento eterofamiliare del DSM dell’ASL 7 di Settimo Torinese è il più recente presente in Piemonte, infatti la delibera che ne autorizza l’attivazione operativa è datata 01.06.2006. Per tale motivo non è stato possibile rispondere a tutte le domande dell’intervista, in quanto alcuni aspetti dell’attività potranno essere valutati soltanto una volta attivati i primi inserimenti.

 Secondo la sopraccitata delibera, l’inserimento eterofamiliare supportato di adulti sofferenti di disturbi psichici (IESA) consiste nel processo di inserimento di una persona seguita dai servizi psichiatrici all’interno di una famiglia ospitante, diversa da quella di origine, opportunamente selezionata, formata e supportata durante tutto l’arco dell’inserimento. Il progetto nasce come uno strumento di alternativa concreta all’istituzionalizzazione dei pazienti psichiatrici, che vengono così reinseriti sul territorio, divenendo risorse per la comunità e non “problemi” da risolvere.

 

la nascita del progetto

 

Il progetto “Una pazza idea!! Accogli un ospite” nasce da una richiesta della dirigenza aziendale, ma dal canto loro gli operatori avevano già pensato più volte di attivare una risorsa di questo tipo. Dunque la richiesta giunge dall’alto è viene accolta con favore dagli “addetti ai lavori”.

La conoscenza della risorsa è stata possibile grazie ad alcuni operatori del dipartimento che, in passato, si erano interessati all’istituzione di un progetto di inserimento eterofamiliare.

Il progetto ha avuto ufficialmente inizio con l’emanazione della Deliberazione del Direttore Generale ASL 7, n. 0431 del 1.06.2006, “I.E.S.A.: Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici. Avvio progetto”.

Il nome scelto per identificare l’inserimento di un utente psichiatrico in famiglia è “Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici”, poiché IESA è la sigla riconosciuta a livello nazionale alla quale si è scelto di uniformarsi. Quando il progetto viene divulgato, gli operatori ne parlano come di “accoglienza familiare”, poiché ciò che si richiede alle famiglie è proprio di accogliere un ospite.

 

gli attori del progetto

 

l’équipe

 

Il personale che gestisce il progetto è misto: i responsabili, Dr.ssa Stefania Rossit e Dr. Diego Menchi, entrambi psicologi, sono esterni all’ASL e dipendenti della Cooperativa IN/CONTRO, mentre due infermieri sono dipendenti statali dell’ASL, uno appartenente all’Unità Modulare 1 (CSM di Chivasso) e l’altro all’Unità Modulare 2 (CSM di Settimo Torinese).

Gli psicologi sono assunti part-time e lavorano sul progetto di inserimento eterofamiliare supportato per 19 ore settimanali, mentre gli infermieri sono ad ore (cioè dedicano una quantità di ore prestabilite all’attività IESA).

L’utente inserito in famiglia rimane in carico a tutti gli effetti al CSM e mantiene i contatti con tutte le figure ambulatoriali. 

Come anticipato, gli operatori che compongono l’équipe sono 2 psicologi e 2 infermieri. Gli psicologi si occuperanno principalmente della selezione delle famiglie e della gestione di gruppi di confronto di utenti e di famiglie ospitanti, mentre gli infermieri si occuperanno dell’assistenza alla terapia farmacologica. Si programma di svolgere una riunione d’équipe settimanale.

 

la famiglia ospitante

 

I canali attraverso i quali si pensa di reperire famiglie ospitanti sono:

§               pubblicazione di articoli su giornali locali;

§               affissione di volantini in pubblici esercizi;

§               passaparola;

§               pubblicazione di annunci di offerta di lavoro nel campo dell’assistenza alla persona;

§               organizzazione di incontri con associazioni del territorio, gruppi locali ed istituzioni pubbliche;

§               spazio dedicato al progetto su una guida ai servizi pubblicata dal Comune di Settimo;

La campagna di sensibilizzazione del territorio è attualmente in corso e vuole avere un carattere di continuità nel tempo, in modo tale da perseguire non solo l’obiettivo di reperimento di potenziali famiglie ospitanti, ma anche un più ampio obiettivo di sensibilizzazione del territorio. Parallelamente si sta curando l’attività di informazione e sensibilizzazione all’interno dell’ASL, in particolare fra i medici psichiatri, per fare in modo che propongano pazienti da candidare allo IESA.

Durante l’estate 20 famiglie hanno risposto alla campagna informativa (a seguito della pubblicazione di un annuncio di offerta lavoro nel campo dell’assistenza alla persona su un noto periodico), ma la maggior parte di queste è residente al di fuori del territorio di competenza dell’ASL 7, e per tal motivo non è possibile coinvolgerle nel progetto. Soltanto 2 famiglie hanno potuto essere tenute in considerazione. Con entrambe si è svolto un primo colloquio conoscitivo, ad una è stata effettuata anche la visita domiciliare. Quest’ultima famiglia risponde bene ai requisiti richiesti, e di conseguenza è stata inserita in banca dati (dati aggiornati al 25.07.06).

In proposito, i requisiti richiesti alla famiglia ospitante sono i seguenti:

§               presenza di almeno un reddito o una pensione in famiglia;

§               una stanza decorosa per l’ospite;

§               disponibilità a collaborare con gli operatori;

§               tempo libero, flessibilità, buona volontà e un po’ di pazienza.

È stata predisposta una scheda informativa relativa alla famiglia di accoglienza, la quale viene somministrata nel corso di un colloquio semistrutturato, in modo tale da consentire l’approfondimento degli aspetti che emergono in relazione all’evoluzione del dialogo.

Non è ancora stata stabilita una modalità strutturata per mantenere i contatti con le famiglie selezionate ma non utilizzate, si ritiene comunque necessario impostare un rapporto di tipo informale, non regolato da logiche sanitario-istituzionali.

Sono previsti alcuni incontri di formazione e sensibilizzazione sulla malattia mentale, condotti da operatori specializzati del DSM, ai quali parteciperanno in gruppo le potenziali famiglie ospitanti.

L’obiettivo di questi incontri di formazione è aiutare le famiglie ad entrare in contatto con il mondo della malattia mentale, sfatare pregiudizi e false credenze, fornire indicazioni pratiche sulla convivenza con un malato mentale (es. approfondimento relativo all’aspetto farmacologico,  precisando le modalità di somministrazione della terapia, la sua enorme importanza, chiarimenti in merito ad all’eventuale condizione giuridica della persona, spiegando che cosa significa avere un tutore, curatore o amministratore di sostegno).

 

l’utente

 

Il progetto IESA si rivolge a pazienti anche con diagnosi importanti, ma in fase di stabilità, che non possono appoggiarsi alle famiglie di origine, che non trarrebbero giovamento dall’inserimento o dalla eccessiva permanenza in comunità psichiatriche e per i quali un inserimento in famiglia può essere preferibile alla convivenza in gruppi appartamento.

Le caratteristiche dei pazienti che potrebbero essere adatti per un inserimento a tempo pieno (7 giorni su 7, 24 ore su 24) sono:

§               buon compenso della sintomatologia;

§               alto livello di cronicità;

§               prolungata permanenza in istituti;

§               famiglia d’origine non più presente;

§               sufficiente grado di autonomia per le funzioni elementari;

§               assenza di scompensi psicopatologici acuti, almeno al momento dell’inserimento;

§               assenza di scompensi organici gravi;

§               assenza di forme di dipendenza da sostanze e/o alcool;

§               assenza di manifestazioni aggressive e/o ricorso a pratiche illegali di vario tipo (furto, spaccio, ecc.);

§               valutare la presenza di tentativi anticonservativi nella storia clinica.

Il Target di pazienti per l’inserimento a tempo parziale (alcuni giorni a settimana, weekend, alcune ore al giorno) è il seguente:

§               pazienti più giovani;

§               difficoltà relazionali nella famiglia d’origine;

§               inserimento come soluzione preventiva in casi di ripetuti ricoveri e crisi;

§               situazioni di temporanea difficoltà.

La Dr.ssa Rossit precisa che il target di pazienti proposti fin ora dai medici per l’inserimento a tempo pieno, è parzialmente diverso rispetto a quello ipotizzato, infatti gli operatori avevano pensato a persone anziane o comunque sole, in modo tale da evitare, almeno all’inizio, di dover gestire la conflittualità tra famiglia biologica e famiglia ospitante. Invece sono stati proposti per lo più pazienti piuttosto giovani e con un nucleo di origine presente ma problematico, oppure con genitori molto anziani, che non sono in grado di prendersi cura di loro (dato aggiornato al 25.07.06).

 

il contratto

 

È stato predisposto un protocollo d’intesa per la regolamentazione del progetto di inserimento eterofamiliare, tale documento viene sottoscritto dall’utente, dalla famiglia affidataria, dall’operatore IESA, dal Direttore del dipartimento e dall’eventuale tutore.

Il periodo di prova previsto per consentire alle parti di conoscersi reciprocamente può variare da 1 a 3 mesi.

Come regola generale ogni famiglia affidataria può accogliere un solo utente, ciò in primo luogo per evitare che l’accoglienza familiare diventi un business, che il solo obiettivo delle famiglie sia il riscontro economico, in secondo luogo poiché risulterebbe comunque difficoltoso prendersi adeguatamente cura di due o più utenti psichiatrici.                Si prendono però in considerazione alcune eccezioni, cioè casi nei quali è necessario prendere in carico una coppia, ad esempio madre e figlio, marito e moglie, fratelli o sorelle.

Il rimborso spese previsto per la famiglia è di Euro 1.000 mensili, di cui 750 erogati direttamente dall’ASL e 250 versati dall’utente. Nel caso in cui l’utente non disponga di tale cifra, l’ASL provvede a fornirglieli sotto forma di sussidio terapeutico (che egli provvederà a girare alla famiglia). Inoltre il servizio ha previsto una copertura assicurativa per i danni recati dall’utente a persone e cose e per quelli da egli subiti.

La tipologia di inserimenti che si pensa di realizzare sono a medio termine, a lungo termine e a tempo parziale (diurno e weekend).

 

la realizzazione ed il monitoraggio

 

Dal punto di vista della famiglia, la realizzazione di un inserimento si realizza secondo i seguenti passaggi:

1.            dopo essere venuta a conoscenza del progetto (grazie agli strumenti della campagna informativa) la famiglia effettua una prima telefonata al servizio IESA per avere maggiori informazioni;        

2.            se si pensa di essere interessati, una volta ottenute telefonicamente alcune informazioni generali, si fissa un primo colloquio con gli operatori IESA (senza impegno);

3.            dopo aver avuto informazioni dettagliate (formazione, lista d’attesa, periodo di prova, ecc.) se si decide di proseguire ci saranno altri 2 colloqui ed una visita domiciliare;

4.            gli operatori IESA valuteranno in équipe l’idoneità della famiglia candidata, la quale, in caso di giudizio positivo, verrà inserita in banca dati sarà e contattata nel momento in cui sarà individuato un potenziale ospite. 

Dal punto di vista dell’utente le fasi da attraversare per avviare una convivenza sono:

1.            segnalazione dell’équipe curante all’équipe IESA;

2.            incontro di presentazione caso tra équipe curante e équipe IESA;

3.            l’équipe curante propone lo IESA all’utente;

4.            presentazione dell’utente all’équipe IESA;

5.            individuazione della famiglia a cura dell’équipe IESA;

6.            incontro tra équipe curante e équipe IESA per definire l’abbinamento e procedere all’inserimento;

7.            incontro di conoscenza tra utente, famiglia, operatore IESA e operatore ambulatoriale di riferimento;

8.            inserimento dell’utente;

Le attività di monitoraggio e di supporto alla famiglia e all’utente sono essenzialmente i colloqui periodici con la famiglia e con l’utente, le visite domiciliari ed gruppi di confronto di famigliari e di pazienti. L’obiettivo ultimo di questi gruppi di auto mutuo aiuto è che i familiari e gli utenti creino fra loro una rete informale di supporto.

 

la valutazione del progetto

 

Non essendo ancora stati inseriti utenti in famiglia al momento della somministrazione del questionario, non è stato possibile rispondere alle domande relative alla valutazione del progetto.

In sostituzione all’esposizione dei dati relativi a questa parte di intervista, si riportano alcuni passaggi particolarmente divertenti e significativi, estratti da una “simulazione di colloquio”, fra un operatore IESA ed una potenziale famiglia ospitante, facente parte del materiale informativo divulgato sul progetto IESA.

Dopo un primo scambio di informazioni in merito alla definizione dello IESA, ai requisiti richiesti alla famiglia ospitante, al rimborso spese, alle tipologie di inserimento, la famiglia ospitante domanda: “Ma durante il giorno cosa farebbe l’ospite?”, e l’operatore IESA: ”Ti rispondo con una domanda: tu cosa fai durante il giorno?”, la famiglia un po’ sorpresa dichiara: “Ma… ora che sono in pensione mi occupo della casa, dei campi, guardo la tv, perché?”, e l’operatore IESA: “ Beh potrebbe darti una mano nei campi, nella gestione della casa e guardare con te la tv, oppure starsene qualche ora per conto suo. Dipende dall’equilibrio che si creerebbe, dalle tue e dalle sue esigenze, per noi il fatto che l’ospite venga coinvolto nelle attività quotidiane della famiglia è una cosa positiva. È chiaro che non permetteremmo mai che venisse sfruttato, ma in linea di massima neanche che si comporti come al Grand Hotel.

Vedi non c’è una risposta unica, noi abbiamo anche previsto che durante il giorno l’ospite possa recarsi fuori per alcune ore a svolgere altre attività sul territorio. È possibile infatti che la persona svolga dei lavoretti, o che sia impegnata in attività ricreative o relative alla sua riabilitazione”. E la famiglia: ”Ma… è interessante…”.

 

 

 

            Il progetto di accoglienza familiare del CSM di Chieri dell’ASL 8[14]

 

la nascita del progetto

 

Il progetto di accoglienza familiare del DSM dell’ASL 8 nasce dalla proposta di alcuni operatori del servizio, in particolare il Dr. Paolo Campisi (medico psichiatra, Direttore del DSM), la Dr.ssa Clelia Tamagnone (assistente sociale) e la Dr.ssa Massaglia (psicologa).

Gli operatori sono venuti a conoscenza della risorsa degli affidamenti eterofamiliari grazie alla lettura di articoli, che riportavano l’esperienza belga di Geel, grazie alla normativa psichiatrica regionale ed alla conoscenza dell’attività di inserimento eterofamiliare svolta dal DSM 5b dell’ASL 5, presso cui la Dr.ssa Tamagnone aveva lavorato in passato.

L’attività per gli affidamenti eterofamiliari ha avuto ufficialmente inizio nel 1999, anno in cui è stata emanata la Determinazione del Direttore Generale ASL 8, n. 263 del 14.12.1999, “Avvio programma sperimentale di Affidi familiari di paziento psichiatrici”, che stabilisce le linee guida del progetto.

Il nome scelto per identificare l’inserimento in famiglia di un paziente psichiatrico è “affidamento familiare”, poiché così viene definito dalla D.C.R. 357-1370 del 1997. In seguito è stata sempre utilizzata l’espressione “accoglienza familiare”, per differenziare l’attività rivolta agli utenti psichiatrici dall’affidamento dei minori.

Le fonti di riferimento per il progetto sono la D.C.R. 357-1370 del 1997, la Legge 13.05.1978 n. 180, la Legge 23.12.1978 n. 833 ed il Piano Sanitario Regionale 1997-1999.

 

 

gli attori del progetto

 

Gli operatori che gestiscono il progetto fanno parte dell’équipe del CSM che ha in carico l’utente e sono: il medico psichiatra Direttore del Dipartimento (Dr. Campisi), un’assistente sociale (Dr.ssa Tamagnone) ed una psicologa (Dr.ssa Massaglia). Questi operatori si occupano della selezione delle famiglie di accoglienza, dello svolgimento dei colloqui, delle visite domiciliari e delle verifiche periodiche relative all’andamento del progetto.

Non è prevista una riunione d’équipe periodica, vengono svolti degli incontri informali tra la psicologa e l’assistente sociale.

 

la famiglia affidataria

 

Il reperimento delle famiglie affidatarie è stato possibile attraverso i seguenti canali:

§               pubblicazione di articoli e annunci su riviste e giornali locali;

§               affissione di volantini in pubblici esercizi;

§               passaparola;

§               incontro con il consiglio dei parroci della zona.

È stata svolta un’unica campagna informativa all’inizio del 2000, alla quale hanno risposto 5 famiglie, di cui 2 sono state ritenute idonee a ricoprire il ruolo di famiglia affidataria.

I requisiti essenziali richiesti alla famiglia sono una camera ad uso esclusivo dell’ospite ed un minimo di presenza in casa lungo l’arco della giornata.

Il percorso di selezione delle famiglie prevede che, oltre ai colloqui psicosociali, la psicologa si occupi della somministrazione di un test, la  Pinacoteca di Rorschach, sia alla famiglia che al paziente, il quale prevede la proiezione di una serie di quadri, a seguito della quale viene richiesto ai soggetti di verbalizzare le sensazioni che gli suscitano quelle immagini. Grazie a questo test è possibile verificare la compatibilità tra famiglia e paziente, individuando i punti di legame e quelli di possibile attrito.

Attualmente le famiglie che accolgono un ospite sono due: una è impegnata in un affido a tempo pieno (24h/24h), iniziato nel 2001-2002, l’altra in un affido diurno (3 mattine a settimana), partito a luglio 2006. Momentaneamente non vi sono famiglie in stand-by.

È previsto un corso di formazione per le famiglie, il quale attualmente non viene svolto, non essendoci nuove famiglie candidate all’accoglienza.

Gli incontri che compongono il corso possono variare, a seconda del numero dei partecipanti e della complessità delle dinamiche di gruppo, da un minimo quattro ad un massimo di otto. Questo strumento consente agli operatori di valutare le capacità relazionali, affettive e pratiche dei potenziali affidatari, e di sfatare eventuali pregiudizi della famiglia rispetto alle persone sofferenti di disturbi psichici. In ogni incontro c’è spazio per uno scambio dialettico fra i potenziali affidatari e gli operatori, al fine di chiarire dubbi, perplessità e timori.

Alla fine del corso, i partecipanti ricevono un attestato di frequenza.  Gli incontri sono tenuti dagli operatori del CSM e da eventuali consulenti esterni, esperti dei vari argomenti trattati.

Le tematiche affrontate durante gli incontri del corso sono le seguenti:

§               l’attuale contesto legislativo e le strutture attive nell’ambito psichiatrico;

§               l’intervento sociale di rete e l’azione del CSM sul territorio;

§               le fasi di sviluppo psichico normale e patologico;

§               le dinamiche relazionali inserite nel contesto familiare;

§               l’inserimento eterofamiliare supportato: modalità, regolamentazione, diritti e doveri;

§               tematiche da approfondire proposte liberamente dai partecipanti.

 

 

 

 

 

 

l’utente

 

Gli utenti psichiatrici potenzialmente adatti per un progetto di accoglienza familiare sono coloro che potrebbero trarre giovamento dall’inserimento in un contesto familiare di “normalità”, quelli per cui non si ritiene adatto un ingresso in un ambiente “medicalizzato”, come la comunità protetta. Si tratta di persone con disturbi psichici e rapporti familiari problematici, non in grado di vivere in situazioni abitative che prevedano un livello più elevato di autonomia.

I requisiti essenziali richiesti ai pazienti candidati per l’affidamento familiare sono:

§               assenza di patologie gravi;

§               stabilizzazione della sintomatologia psichiatrica;

§               assenza di problematiche legate all’alcool e/o alla tossicodipendenza;

§               assenza di gravi problemi di tipo organico (es. elevata difficoltà di deambulazione).

 

la famiglia di origine

 

Il coinvolgimento della famiglia di origine del paziente è considerato un elemento importate per la buona riuscita dell’affidamento, poiché, in assenza di adeguati interventi di supporto e contenimento da parte degli operatori, la famiglia biologica può rappresentare un problema.

Le difficoltà che possono sopraggiungere sono di tipo relazionale, in particolare possono scattare dei meccanismi di competizione e/o di invidia, in quanto sovente il nucleo di origine non capisce perché il paziente riesca ad esprimere meglio le proprie risorse all’interno della famiglia di accoglienza di quanto non faccia a casa.

Per gestire questa conflittualità si effettuano degli incontri tra operatori e famiglia di origine e/o tra operatori e famiglia affidataria. Non è mai avvenuto un incontro al quale abbiano presenziato sia la famiglia di origine che quella affidataria.

 

il contratto

 

Sono stati predisposti tre tipi di contratto per la regolamentazione del servizio di accoglienza familiare (a seconda della tipologia di affidamento), i quali vengono sottoscritti dall’utente, dalla famiglia affidataria, dagli operatori che si occupano del progetto, dall’eventuale tutore e dal Dirigente del CSM.

I tre contratti differiscono soltanto nella parte introduttiva, nella quale viene specificato se si tratta di un affido continuativo, breve,  infrasettimanale o diurno ed i relativi obiettivi. Per il resto le condizioni del contratto sono le medesime.

L’art. 1 formalizza l’impegno di accoglienza assunto dalla famiglia affidataria nei confronti dell’ospite, il quale dovrà essere ottemperato secondo le modalità indicate negli articoli seguenti.

L’art. 2 prevede un periodo di prova di coabitazione per permettere alla famiglia e all’utente di conoscersi reciprocamente e di scegliere se avviare o meno la convivenza. La durata di tale periodo viene stabilita di volta in volta in base alle esigenze concrete.

L’art. 3 indica la data di inizio del rapporto di convivenza, a partire alla quale verrà erogato il contributo economico alla famiglia, e le modalità attraverso le quali ciascuna delle parti coinvolte può interrompere l’esperienza.

L’art. 4 descrive le modalità della convivenza, in particolare i doveri degli affidatari nei confronti dell’ospite (fornire vitto, alloggio ed altre necessità). Si specifica espressamente che all’ospite deve essere permesso di partecipare alle attività familiari comuni, soprattutto ai pasti. La famiglia può decidere di non trascorrere le vacanze con l’utente, in tal caso sarà cura del CSM provvedere alla collocazione temporanea dell’ospite. Per tutta la durata dell’affido, il nucleo familiare non può assumersi altri incarichi di affidi o similari, salvo deroga concessa dal CSM, a seguito di opportuna valutazione (in alcune particolari situazioni potrebbe essere consentita l’accoglienza di una coppia di utenti, per esempio due fratelli, presso un'unica famiglia).  

L’art. 5 prevede la copertura assicurativa inerente ai danni causati dall’ospite alla famiglia affidataria o a terzi e i danni arrecati colposamente dalla famiglia affidataria all’ospite.

L’art. 6 regolamenta la remunerazione a favore degli ospitanti, indicando la cifra che l’ASL si impegna a versare e l’eventuale contributo a carico dell’ospite.

Infine l’art. 7 lascia spazio ad eventuali accordi aggiuntivi tra le parti sottoscriventi.

La determinazione aziendale del 1999 stabilisce come segue i massimali dei compensi per il nucleo familiare:

§               per affidamenti continuativi £ 2.200.000 mensili;

§               per affidamenti brevi o infrasettimanali £ 70.000 giornaliere;

§               per affidamenti diurni £ 50.000 giornaliere.

Il rimborso spese viene erogato sotto forma di contributo economico versato direttamente dall’ASL alla famiglia. L’utente partecipa economicamente all’erogazione del rimborso per il proprio affido in base al reddito ed alle esigenze personali.

Gli affidamenti realizzati dal CSM di Chieri sono:

§               a medio termine;

§               a lungo termine;

§               continuativi (24h/24h);

§               brevi o infrasettimanali (brevi periodi o alcuni giorni a settimana);

§               diurni (alcune ore al giorno);

§               a tempo determinato e con obiettivi specifici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

la realizzazione ed il monitoraggio

 

Il percorso che conduce alla realizzazione di un affidamento può essere riassunto nei seguenti punti:

1.            campagna pubblicitaria;

2.            reperimento di famiglie potenzialmente idonee;

a)     primo incontro con i membri adulti della famiglia;

b)     se ci sono figli minori o maggiorenni, incontro con adulti e figli; 

3.            visita domiciliare per valutazione dei locali e degli spazi;

4.            conoscenza tra paziente e famiglia;

5.            somministrazione del test della Pinacoteca di Rorschach per valutare ulteriormente la compatibilità;

6.            periodo di prova, se positivo avvio della convivenza.  

Per monitorare l’andamento dell’affido e per supportare la famiglia e l’ospite, vengono effettuati colloqui e visite domiciliari, le quali sono frequenti nel periodo iniziale, poi man mano che l’affido si consolida diventano periodiche.               

 

la valutazione del progetto

 

Fino ad oggi sono stati effettuati 8 affidamenti, di cui 2 ancora in corso. Purtroppo non è stato possibile dedicare tutto il tempo necessario al progetto a causa della scarsità di personale disponibile.

Inoltre la carente disponibilità della comunità locale ad accogliere soggetti con disturbi psichiatrici ha rappresentato un ostacolo rilevante. Tale atteggiamento è in parte motivato dal fatto che, non molto tempo fa, nel chierese si è verificato un episodio di omicidio ad opera di un soggetto psichiatrico, il quale per altro non era neppure in carico al servizio di salute mentale.

Le cause che fino ad oggi hanno determinato l’interruzione di un affido sono:

§               la crisi psichica del paziente, la quale richiedeva il ricovero in SPDC;

 

§               l’incompatibilità di carattere fra il paziente ed un componente della famiglia;

§               più semplicemente il termine del progetto.

Secondo quanto riportato dalla Dr.ssa Tamagnone, fra gli aspetti positivi dell’affidamento si evidenziano maggiormente:

1.            l’arricchimento affettivo dei membri della comunità: l’accoglienza di persone con problemi psichiatrici nella famiglia affidataria genera un arricchimento affettivo sia nei diversi membri della famiglia, sia nella persona affidata. Di questo beneficio fruiscono anche i membri della comunità locale, che entrano in relazione con le persone che hanno vissuto l’esperienza dell’accoglienza;

2.            la valenza terapeutico-riabilitativa: l’inserimento in ambito familiare genera un miglioramento della qualità della vita e della salute psico-fisica, riconducibile all’incremento del numero e dell’intensità dei legami affettivi e delle relazioni sociali;

3.            gli aspetti etico-culturali: l’inserimento di soggetti psichiatrici nelle famiglie d’accoglienza promuove i valori e la cultura della tolleranza, della solidarietà e dell’integrazione;

4.            i benefici economici: i costi dell’affidamento familiare sono inferiori rispetto all’inserimento in strutture residenziali;

5.            la possibilità di fornire una risposta alternativa al rientro presso la famiglia d’origine dopo un percorso in comunità terapeutica;

6.            la diversificazione dell’affidamento familiare: continuativo, fine settimana, alcuni giorni, ecc.

Tra gli aspetti negativi si evidenziano invece i seguenti punti:

1.            fenomeni culturali di rifiuto del malato di mente dovuti a vissuti latenti di paura della diversità dell’altro;

2.            difficoltà nel reperire famiglie disponibili ad accogliere;

3.            carenza di personale al quale poter trasmettere una formazione in merito all’affidamento di adulti.

L’affidamento familiare permette di non “sradicare” gli utenti dal proprio territorio originario, a differenza di quando invece avviene a seguito dell’inserimento in strutture protette, le quali spesso distano molti chilometri dall’ambiente di vita della persona, e perciò comportano la perdita di ogni contatto preesistente.

Attraverso l’affidamento familiare è possibile reperire risorse umane “ad hoc” sul territorio di provenienza, al fine di inserire l’utente in un nuovo nucleo familiare, ma anche in una realtà ambientale a lui già nota. Con questa modalità non solo non vengono recisi i legami che l’utente ha costruito negli anni sul territorio, ma è possibile svolgere un intervento di potenziamento “nutritivo” delle reti sociali del soggetto.

Un altro aspetto non indifferente è la possibilità di mantenere gli stessi operatori di riferimento, i quali possono continuare a seguire l’utente nel suo percorso terapeutico riabilitativo.

L’affidamento familiare non può che rappresentare una parte significativa dell’area progettuale di un’assistente sociale che opera in Centro di Salute Mentale (Tamagnone C., L’affidamento di persone con problemi psichici, sfida utopistica o possibile nodo di rete nella comunità locale, Tesi di Laurea in Servizio Sociale, Facoltà di Scienze della Formazione di Trieste, A.A. 2000-2001).

 

 

            Il progetto di affidamento eterofamiliare del DSM dell’ASL 18[15]

 

la nascita del progetto

 

Il progetto di affido familiare del DSM dell’ASL 18 nasce dalla proposta di alcuni operatori del servizio, i quali sono venuti a conoscenza della risorsa grazie alla D.C.R. 357-1370 del 1997, che, all’allegato C, prevede specificamente la possibilità di sperimentare progetti di questo tipo nei DSM piemontesi.

L’attività di accoglienza familiare ha avuto inizio nel 1997, anno in cui è stato predisposto un protocollo interno al dipartimento, il quale prevede sostanzialmente che la famiglia affidataria debba essere selezionata dall’équipe inviante, che il pagamento dell’assegno di affidamento gravi sul bilancio degli assegni terapeutici e che debba essere equiparato alla cifra erogata dai Consorzi per gli affidi di anziani e/o minori.

Il nome scelto per identificare l’inserimento di un utente psichiatrico in famiglia è “affidamento eterofamiliare”, poiché tale è la dicitura prevista dalla normativa regionale e dagli enti gestori di progetti simili in ambito socio-assistenziale.

 

gli attori del progetto

 

l’èquipe

 

Gli operatori che gestiscono il progetto fanno parte dell’équipe territoriale e di riabilitazione che segue l’utente, ciò per evitare la frammentazione della presa in carico.

Le figure professionali che compongono l’équipe sono: il medico psichiatra, lo psicologo, l’infermiere, l’educatore e l’assistente sociale.  Le mansioni svolte nello specifico da ciascun operatore sono le seguenti:

§          medico psichiatra: coordina l’équipe, verifica lo stato di salute psico-fisica del paziente;

§          psicologo: partecipa agli incontri con la famiglia biologica e quella affidataria, mantiene una relazione terapeutica con il paziente attraverso sedute a cadenza fissa;

§          infermiere: controlla regolarmente, attraverso le visite domiciliari, l’assunzione della terapia farmacologica e la sua efficacia;

§          educatore: mantiene il rapporto con l’utente nell’ambito della riabilitazione attraverso le attività del centro diurno e/o gli inserimenti lavorativi;

§          assistente sociale: redige la parte amministrativa relativa ai pagamenti, partecipa agli incontri con la famiglia biologica e quella affidataria e stila un elenco delle persone potenzialmente idonee per l’affido.

Le riunioni del gruppo di lavoro vengono effettuate ogni 15 giorni.

la famiglia affidataria

 

Il reperimento delle famiglie affidatarie è stato possibile grazie a personali conoscenze degli operatori ed attingendo da un elenco di famiglie, già selezionate e formate a questo tipo di esperienza, redatto dai Consorzi socio-assistenziali.

I requisiti essenziali richiesti alla famiglia per poter avviare una convivenza con un paziente psichiatrico sono:

§               presenza di una camera ad uso esclusivo dell’ospite;

§               presenza di una persona che possa occuparsi in modo costante del paziente;

§               adesione e collaborazione al progetto riabilitativo del paziente;

§               disponibilità a monitorare costantemente con l’équipe inviante l’andamento dell’esperienza, evidenziando eventuali difficoltà relazionali, mediante l’utilizzo di indicatori specifici individuati dagli operatori.

Attualmente non vi sono affidamenti in corso, in passato ne sono stati effettuati 3, i quali si sono conclusi poiché erano affidi a tempo determinato e con obiettivi specifici. I pazienti accolti in famiglia erano persone giovani, con limitata autonomia personale, per le quali era comunque auspicabile un movimento verso una maggiore autonomia a seguito dell’esperienza dell’affido.

Non è previsto un corso di formazione per le famiglie ospitanti ed al momento non è stata presa in considerazione l’opportunità di strutturarne uno.

 

l’utente

 

Le caratteristiche ideali per la persona da inserire in famiglia sono le seguenti:

§               giovane età;

§               possibilità di essere inseriti, successivamente all’affido, in un programma riabilitativo che prevede un maggior livello di autonomia personale;

§               presa in carico effettiva e redazione di un progetto terapeutico individualizzato;

§               atteggiamento espulsivo o assenza del nucleo familiare di origine;

§               buona compliance farmacologica;

§               stabilità del quadro psicopatologico.

 

la famiglia di origine

 

La famiglia di origine dell’utente, quando è possibile, viene coinvolta nella realizzazione dell’affidamento.

In un solo caso uno dei genitori di un paziente in affidamento ha ostacolato notevolmente la convivenza. In quella specifica situazione ci sono stati dei contatti diretti tra famiglia affidataria e nucleo biologico, in tutte le altre situazioni le famiglie sono state prese in carico e seguite singolarmente dall’équipe del CSM.

Gli interventi messi in atto dagli operatori per gestire la conflittualità tra le parti, sono degli incontri separati tra operatori e famiglia affidataria e/o tra operatori e famiglia naturale.

 

il contratto

 

È stato predisposto un contratto per regolamentare la convivenza tra utente e famiglia, tale documento viene sottoscritto dal paziente, dalla famiglia affidataria e dagli operatori di riferimento.

Attraverso questo strumento l’utente conosce ed accetta le regole della convivenza, accetta il tentativo di coabitazione (a seguito di una serie di incontri di reciproca conoscenza con la famiglia ospitante), aderisce e collabora alla buona riuscita del progetto individuale (di cui la permanenza presso la famiglia affidataria è parte integrante), infine concorda le modalità di incontro con la famiglia di origine.

La famiglia affidataria indica il componente del nucleo familiare responsabile dell’affidamento, garantisce spazi confortevoli e sufficiente privacy alla persona ospitata, conosce e collabora attivamente alla buona riuscita del progetto terapeutico e si impegna a non assumere particolari iniziative senza l’autorizzazione dell’équipe inviante.

Infine gli operatori indicano con chiarezza la cadenza degli incontri di verifica relativi al buon andamento dell’esperienza e, in generale, assumono il compito di monitorare e supportare la famiglia ed il paziente.

È previsto un periodo di prova, della durata di, 1 mese, per consentire alle parti di conoscersi reciprocamente.

È stato stabilito che ciascuna famiglia possa accogliere soltanto un paziente per volta, poiché normalmente si tratta di persone di per sé molto “impegnative” per la giovane età e per il quadro di recente esordio della malattia.

Il rimborso spese previsto per le famiglie è pari ad Euro 600 mensili e viene erogato sotto forma di assegno terapeutico intestato al paziente e consegnato all’affidatario, il quale lo ritira con delega. L’utente ha l’obbligo di provvedere autonomamente alle proprie spese personali.

Gli affidamenti realizzati dal DSM dell’ASL 18 sono:

§               a tempo pieno;

§               a medio termine (inserimenti eterofamiliari indirizzati a persone giovani ed impegnate in attività riabilitative, per le quali è previsto un recupero, anche solo parziale, delle funzioni temporaneamente compromesse);

§               a tempo determinato e con obiettivi specifici.

 

la realizzazione ed il monitoraggio

 

Le tappe del percorso che conduce alla realizzazione di un inserimento possono essere riassunte nei seguenti punti:

1.            individuazione della famiglia affidataria;

2.            primo incontro presso l’ambulatorio;

3.            secondo incontro presso l’abitazione della famiglia;

4.            discussione e valutazione in équipe;

5.            se il giudizio è positivo, registrazione nel data-base delle potenziali famiglie ospitanti.

Le attività di monitoraggio e di supporto sono variabili, a seconda del paziente inserito. In linea generale le visite domiciliari vengono effettuare a cadenza settimanale.

 

la valutazione del progetto

 

In relazione agli esiti terapeutici dell’affidamento eterofamiliare, il miglioramento del paziente si evidenza maggiormente nell’area dell’autonomia personale, poiché in famiglia la persona viene stimolata ad assumersi impegni e a portarli a termine con successo.

Inoltre la cura del sé, in particolare per chi proviene da famiglie connotate da marginalità sociale, tende a migliorare in modo significativo.

Le cause che fin ora hanno determinato l’interruzione della convivenza sono il desiderio dell’ospite di ritornare a casa e le difficoltà emerse nel gestire i momenti di crisi, frequenti nei pazienti molto giovani, le quali spaventano molto la famiglia affidataria.

Secondo la Dr.ssa Franco, l’affido familiare è un intervento ancora poco utilizzato dai sevizi psichiatrici, poiché si discosta molto dai tradizionali strumenti operativi delle équipes.

Le comunità protette, con il turn-over degli operatori. reggono meglio il confronto con la sofferenza e la difficoltà di gestire i momenti di crisi.

Inoltre le famiglie nel tempo subiscono mutamenti sostanziali (nascite, separazioni, lutti, ecc.), che incidono a volte pesantemente sul loro assetto, e non sempre le rendono ancora idonee all’affidamento.

La maggiore difficoltà riscontrata dagli operatori del DSM      dell’ASL 18 è stata il reperimento delle famiglie affidatarie, poiché il territorio di competenza è molto esteso, e tra i punti del protocollo generale, è previsto che la famiglia affidataria risieda non troppo lontano dal territorio di appartenenza dell’utente, in modo tale da evitare uno sradicamento.

L’affidamento eterofamiliare continua ad essere una delle risorse  dipartimentali, accanto alle comunità e ai gruppi appartamento, anche se  attualmente non è utilizzata per nessun utente. Ma se si presentasse l’occasione, cioè un paziente adatto per questa tipologia di intervento, l’affido potrebbe nuovamente essere impiegato.

 

     

4.            La Cooperativa Sociale Alice nello Specchio e le Crisis Farm[16]

 

L’articolo 5 della legge n. 328 del 2000, legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, stabilisce che “Alla gestione ed all’offerta dei servizi provvedono soggetti pubblici nonché, in qualità di soggetti attivi nella progettazione e nella realizzazione concertata degli interventi, organismi non lucrativi di utilità sociale, organismi della cooperazione, organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di promozione sociale, fondazioni, enti di patronato e altri soggetti privati. Il sistema integrato di interventi e servizi sociali ha tra gli scopi anche la promozione della solidarietà sociale, con la valorizzazione delle iniziative delle persone, dei nuclei familiari, delle forme di auto-aiuto e di reciprocità e della solidarietà organizzata”.

Dunque, secondo tale disposizione, per la realizzazione del sistema integrato dei servizi, è necessario che vi sia cooperazione interattiva fra il pubblico ed il terzo settore. In particolare è importante che quegli organismi che hanno natura di impresa (le cooperative sociali) si facciano promotori dell’offerta di servizi e della gestione delle prestazioni.   

La Cooperativa Sociale Alice nello Specchio nasce a Torino il 20 febbraio 1985, dall’iniziativa di un gruppo di educatori che hanno lavorato ed operano tuttora nel settore socio-assistenziale, con lo scopo di realizzare e gestire strutture di tipo lavorativo, istruttivo, riabilitativo, culturale, abitativo, sportivo ed editoriale, per soggetti portatori di handicap psichici, fisici e sensoriali. Fra le attività della cooperativa vi sono i laboratori artigianali ed artistici, il commercio equo e solidale alla “Bottega di Alice”, l’equitazione, l’organizzazione di incontri, feste e vacanze, la pubblicazione di testi ed atti dei convegni, nonché l’ospitalità supportata presso le “fattorie della salute”, la relativa formazione di operatori di ospitalità supportata eterofamiliare e la supervisione, effettuata da professionisti esperti in psicoterapia e psicodramma.

In particolare l’attività che qui interessa analizzare è l’Ospitalità Supportata ed Eterofamiliare (O.S.e.E.). L’obbiettivo di questo progetto, in accordo con alcune ASL del Piemonte, è integrare nel tessuto sociale quei soggetti che non riescono a trovare una propria dimensione vitale all’interno del nucleo familiare di origine, offrendo loro nuovi modelli di compatibilità e convivenza, mediante periodi di accoglienza presso famiglie aperte a nuove esperienze. L’intervento tramite l’ospitalità supportata è in grado di stimolare una corretta capacità di gestione dei rapporti interpersonali e dalla quotidianità, di facilitare percorsi di autonomizzazione e consentire la restituzione di calore domestico dove sia venuto a mancare. Per fare ciò la cooperativa si avvale della collaborazione di famiglie disposte ad aprire uno spazio nella propria casa e nella propria vita a persone che temporaneamente si trovano in una condizione di difficoltà o di crisi nel gestire le proprie risorse. Alle famiglie ospitanti non sono richiesti requisiti particolari, solo voglia di condividere, tempo libero ed una camera da mettere a disposizione dell’ospite. Per gli ospitanti è previsto un contributo spese, che viene erogato dall’ASL di appartenenza dell’utente. L’esperienza è supportata da operatori e supervisori qualificati, in collaborazione con i servizi territoriali di provenienza.

Nell’ottobre 2001 ha inizio il 1° corso di formazione permanente per operatori di ospitalità supportata eterofamiliare, ma già dai primi anni di attività della cooperativa (1985-1991), veniva offerta ospitalità presso l’unico luogo allora disponibile, la cascina di Stupinigi, sede a quell’epoca delle attività diurne e di ippoterapia.

L’ospitalità presso la cascina veniva offerta agli utenti che partecipavano alle attività diurne, nei periodi in cui essi attraversavano momenti critici dal punto di vista relazionale e/o familiare. Tale ospitalità aveva principalmente lo scopo di sollevare, per brevi periodi, da un lato le famiglie naturali dal peso della gestione del congiunto 365 giorni l’anno, e dall’altro l’utente dalla dipendenza perenne da madri e padri sempre più nervosi e disperati. Gli operatori che vivevano in fattoria ed offrivano accoglienza erano due educatori, un uomo ed una donna, i quali svolgevano la funzione di nucleo genitoriale durante i momenti di ospitalità.

All’inizio l’ospitalità eterofamiliare veniva offerta spontaneamente, essa era considerata più un’opportunità per sollevare le famiglie biologiche, che non una risorsa riabilitativa nei confronti dei pazienti. Con il trascorrere degli anni lentamente si passa dall’offerta di una struttura residenziale a basso costo (la cascina), alla crescente consapevolezza che si tratti di un “processo di riabilitazione psico sociale”, reso possibile grazie alla peculiarità delle risorse “familiari” disponibili, in particolare la presenza continuativa degli ospitanti sulle ventiquattro ore, l’accoglienza di tipo familiare e la continuità relazionale (contrapposta ai cambi di turno delle classiche strutture residenziali).

Il primo periodo dell’accoglienza, chiamato “luna di miele”, trascorreva serenamente, poi iniziavano ad emergere le prime difficoltà e la coppia di operatori, che in quel momento fungeva da nucleo familiare, se lasciata sola, rischiava di commettere gli stessi errori della famiglia di origine del paziente.

A quel punto si comprende la necessità di fornire un supporto attraverso delle supervisioni psicologiche, inizialmente svolte gratuitamente dalla Dr.ssa Casolo, e mosse dal desiderio di andare incontro alle difficoltà di coloro che, per primi, si erano impegnati in questo tipo di attività. Inoltre altri educatori della cooperativa intervenivano per consentire alla coppia di operatori residenti di recuperare momenti di vacanza dall’intenso impegno richiesto da quel particolare tipo di accoglienza.

Con il passare del tempo questa apertura del triangolo “coppia più ospite” verso la formazione di un micro sistema in grado di supportare l’ospitalità, rendendola di conseguenza più “sopportabile”, evidenzia la terapeuticità dell’accoglienza in famiglia.

Da qui la codifica, a fine anni ‘90, delle modalità di ospitalità ed anche qualche primo tentativo di teorizzazione sul come, in un periodo anche discretamente breve, si potevano compiere notevoli passi avanti dal punto di vista terapeutico riabilitativo, riuscendo spesso ad avviare la persona ospitata verso una vita più autonoma (per esempio alloggi supportati). 

Da qui anche la definizione di Ospitalità Supportata ed eterofamiliare (O.S.e.E.) e l’invenzione del termine Crisis Farm per definire il processo di riabilitazione psico-sociale che avviene durante i periodi di accoglienza dei pazienti in fattoria.

Il termine Crisis Farm nasce dall’ironico crossing-over linguistico fra Crisis Homes[17] americane e Beauty Farm, esso definisce non tanto il luogo fisico, la struttura (cioè la cascina), ma una modalità di intervento, un processo, che si struttura giorno per giorno, dai primi anni dell’ospitalità a Stupinigi fino ad oggi. Il processo Crisis Farm non trae origine da una precisa teoria scientifica, bensì deriva dall’esperienza concreta e sperimentale degli operatori, volta a fronteggiare le difficoltà emergenti e ad ottimizzare i risultati.

Oggi le famiglie che accolgono i pazienti sono esterne alla cooperativa, vivono in fattorie sparse per il Piemonte, ma collaborano strettamente con gli operatori durante tutto il periodo dell’ospitalità. Per mantenere i contatti con le famiglie ospitanti vengono spesso impiegati mezzi informatici, fino a qualche tempo fa si utilizzavano soprattutto le  e-mail, attualmente si sta passando ad un sistema diverso, una piattaforma sul web tramite cui vengono gestiti direttamente i contatti, assicurando maggior efficienza e privacy.

La famiglia un tempo era una piccola società produttiva, nella quale appartenenza familiare e attività lavorativa coincidevano. Oggi la famiglia ha perso quasi del tutto questa sua funzione economico produttiva. In cascina invece è ancora presente un’economia di tipo familiare, la quale funge da “collante”, esercitando una sorta di attrazione centripeta verso l’aia. La famiglia, intesa come forma societaria arcaica, assume un ruolo centrale nel processo Crisis Farm, svolgendo la funzione di contenitore affettivo-normativo per tutti coloro che ne fanno parte.

La cascina è considerata il contesto ideale per l’accoglienza di persone sofferenti di disturbi psichici, quando queste attraversano momenti di crisi relazionale, poiché da un lato essa è un sistema fortemente autocentrato e con scarsi stimoli esterni, perciò svolge di per sé un effetto contenitivo, ma dall’altro l’aia della cascina rimanda al mercato, che è simbolo di apertura, dunque un contesto diverso da quello dell’istituzione chiusa, del tutto priva di contatti con l’esterno. Inoltre l’ambiente rurale e la presenza di animali consente relazioni meno impegnative di quelle interumane, ed anche l’affidamento di piccole mansioni che danno immediata gratificazione (Sileci S., in Atti 1° Conv. Naz. IESA, Torino 2000).

Se si va più a fondo nell’analizzare i possibili fattori “curativi” dell’O.S.e.E., ci si accorge che, in un primo momento, prevale in maniera aspecifica l’effetto vacanza. La parola vacanza presuppone una decontestualizzazione, la quale di solito favorisce un benessere, un miglioramento temporaneo, che rappresentano un primo obiettivo  dell’intervento di Crisis Farm. La rifioritura del paziente consegue verosimilmente all’attivazione di capacità adattive rispetto alla nuova situazione e costituisce la cosiddetta fase di “luna di miele”.

Nell’O.S.e.E. spesso la permanenza dell’utente è a medio-lungo termine, perciò vi è il tempo per riprodurre “vecchie abitudini”, per rimettere in moto funzionamenti di difesa, e di conseguenza per strutturare nuovamente i sintomi della malattia mentale. Questa ristrutturazione dei sintomi è uno dei presupposti necessari affinché possa avvenire il cambiamento, attraverso il processo di Crisis Farm.     Il trasferimento nel nuovo contesto delle vecchie problematiche è lo scoglio più duro con cui ci si deve confrontare per raggiungere una modificazione profonda delle dinamiche relazionali dell’utente (Sileci S., in Atti 2°Conv. Naz. IESA, Lucca 2001).    

La formula per la buona riuscita del percorso terapeutico in fattoria può essere così riassunta: ambiente rurale più esperienza educativa delle famiglie ospitanti più intervento di supporto degli operatori, uguale recupero dell’individuo e rapido superamento della crisi.

È necessario specificare che cosa si intende qui per “momento di crisi” del paziente psichiatrico. La crisi non è mai intesa come emergenza ed urgenza, bensì come giro di boa, svolta, passaggio di stato e soprattutto cambiamento. Di per sé la crisi non è né buona né cattiva, la prognosi dipende dai fattori clinici e dalle risorse e potenzialità  presenti nel sistema in cui il paziente vive, cioè dalla rete di sostegno in cui egli è inserito (famiglia, servizi socio-sanitari, lavoro, relazioni sociali, ecc.). Le Crisis Farm avviate dalla cooperativa Alice nello Specchio non si rivolgono né all’emergenza né all’urgenza, per cui esistono apposite strutture e protocolli d’intervento; la crisi, che può essere superata grazie al processo Crisis Farm, è una crisi relazionale-ambientale, cioè un momento di difficoltà del sistema familiare e di vita del paziente, per cui la convivenza non è più tollerata. Per il paziente, accettare di trascorrere un periodo in fattoria, significa decidere di cambiare e migliorare la qualità della propria vita (Sileci S., in op.cit.).

I tempi dell’ospitalità possono essere diversi, si va da un minimo di 15 giorni fino ad un massimo di 2 o 3 anni. Mai nessun utente si è fermato a vivere stabilmente presso la famiglia ospitante, anche perché ciò sarebbe profondamente in contrasto con gli obbiettivi di riabilitazione ed autonomizzazione che stanno alla base di questa tipologia di intervento.   

L’intervento di Crisis Farm è particolarmente indicato in quelle situazioni che non necessitano, o per cui potrebbe addirittura essere controindicato, il ricovero in ospedale, quelle situazioni in cui il problema più rilevante è la scarsa tolleranza del sistema sociale circostante, o laddove l’intolleranza ambientale rischia di slatentizzare la situazione clinica. Inoltre questa modalità può essere utile per le crisi psicotiche, dopo che le fasi di emergenza e urgenza sono rientrate, per velocizzare le dimissioni dall’S.P.D.C.[18], nonché per verificare preventivamente       “in vitro”, al fine di impostare un progetto terapeutico in un contesto non istituzionale, l’interazione di persone che successivamente andranno a vivere insieme in alloggi non protetti, osservando e formando di conseguenza il gruppo (Sileci S., in op.cit.).   

Per comprendere il funzionamento del processo Crisis Farm occorre prima di tutto puntualizzare che cosa si debba intendere per ospitalità. Dell’ospitalità può essere privilegiato l’aspetto residenziale o quello terapeutico, la cooperativa Ans sottolinea in primis l’aspetto terapeutico. Utilizzando la metafora della psicoanalisi potremmo dire che, così come nello studio dell’analista, il lettino non rappresenta l’elemento essenziale dell’analisi, ma è solo parte del setting, poiché ciò che conta è la relazione con il terapeuta, allo stesso modo nell’ospitalità l’aspetto residenziale, cioè il vivere in cascina, funge da cornice ambientale, ma ciò che conta veramente è la potenzialità riabilitativa connessa a questo particolare tipo di contesto.

Privilegiare l’aspetto terapeutico dell’ospitalità significa considerare il periodo di accoglienza come un momento della propria vita nel quale si affrontano alcune difficoltà, compiendo un percorso che porterà l’utente ad acquisire una migliore capacità di gestione dei rapporti interpersonali e dalla propria quotidianità. Gli operatori di Ans partono dal presupposto che ogni ospite delle fattorie sia “di passaggio”, esattamente come potrebbe esserlo nello studio di un terapeuta con cui si effettua un percorso. L’impostazione dell’intervento è quella di ospitare l’utente per il periodo necessario al conseguimento degli obbiettivi progettuali, sostenerlo durante questo suo percorso evolutivo, e successivamente, quando è possibile, passare ad una soluzione abitativa più autonoma, come gli alloggi supportati. Deve essere chiaro che l’ospitalità in cascina non è una soluzione definitiva per pazienti cronici, non può rappresentare una collocazione a vita, ma un luogo di passaggio.

Il termine stesso “ospitare” definisce una situazione temporanea, che non incoraggia vincoli, anche se non li esclude, che è in continua e dinamica evoluzione. 

La tendenza a considerare la malattia mentale come legata alla cronicità ed all’irrecuperabilità è piuttosto ricorrente. L’esperienza della cooperativa Ans invece è che, così come per i minori in difficoltà, che vengono affidati per un periodo ad una famiglia, con l’obbiettivo di aiutarli a completare il proprio percorso evolutivo, che li condurrà verso una sempre maggiore autonomia, lo stesso si può fare con i malati psichiatrici. Con l’aiuto della metafora della guida potremmo dire che quella che per un minore è la patente, l’abilitazione alla guida, per un paziente psichiatrico è la riabilitazione. Per il minore si tratta di un’abilitazione alle relazioni sociali, per il malato mentale di una riabilitazione all’interazione con il mondo esterno. Il paziente psichiatrico accolto in famiglia viene gradualmente inserito nella rete delle relazioni sociali della famiglia, la quale assume il ruolo di “garante”.

L’ospitalità eterofamiliare svolge una funzione riabilitativa anche nei confronti della società, che viene “riabilitata” a considerare diversamente il malato mentale, contribuendo così a combattere lo stigma che colpisce da sempre questa tipologia di pazienti.

Il malato psichiatrico accolto in famiglia entra a far parte di una rete sociale, quella della famiglia ospitante, con un’abilitazione a tessere relazioni significative, le quali rappresentano importanti stimoli su cui è necessario “lavorare”. Tali relazioni tendono a far emergere una serie di difficoltà, le quali difficilmente affiorerebbero in un contesto artificiale come la comunità, ed ecco perché è essenziale che l’ospitalità sia “supportata” dagli operatori di Ans. Senza l’intervento degli operatori, che osservano con attenzione le dinamiche che si instaurano tra famiglia e paziente, non avverrebbe il cambiamento, la riabilitazione, poiché molti segnali passerebbero inosservati.

Attraverso la metafora della psicoanalisi si potrebbe dire che se ci si stende sul lettino analitico senza che via sia un analista a supportare questo relax, la “magia” non avviene, poiché non è il lettino ad essere significativo, ma è la presenza dell’analista con cui si entra in relazione; allo stesso modo, nell’ospitalità supportata ed eterofamiliare, non è sufficiente trascorrere un periodo in cascina ospitati da una famiglia, ma, affinché avvenga il cambiamento, il passaggio, il giro di boa, è necessario il supporto dell’operatore O.S.e.E. e del cousellor O.S.e.E.

   L’ospitalità eterofamiliare deve essere supportata poiché, in questo modo, gli ostacoli che si presentano durante il soggiorno in cascina, possono essere superati con l’aiuto degli operatori di Ans.

La difficoltà si affronta da un lato con la famiglia, cercando di capire che cosa non ha funzionato, e dall’altro con il paziente, poiché sicuramente essa rappresenta un nodo irrisolto, uno scoglio che era già presente nella storia dell’utente, perciò si lavora sul suo passato, un po’ come sul lettino analitico.   

 Dunque il periodo trascorso in fattoria, se è ospitalità eterofamiliare supportata, dovrebbe condurre l’ospite ad acquisire alcune consapevolezze, a prendere coscienza di certi aspetti della sua vita.

Fin ora si è evidenziata l’importanza del supporto fornito dagli operatori della cooperativa, ma non bisogna dimenticare il ruolo centrale  assunto dalle famiglie ospitanti nel processo di Crisis Farm.

In primo luogo è necessario sottolineare che le famiglie che offrono ospitalità non sono composte da operatori professionisti. Soltanto inizialmente, all’epoca della fattoria di Stupinigi, la coppia che ospitava era formata da due educatori; in realtà anche in questo caso il ruolo della coppia era pressoché esclusivamente quello di famiglia ospitante, poiché gli interventi di supporto erano effettuati da altri operatori.

Oggi le famiglie non sono composte da professionisti del settore, se con il termine professionista si intende un soggetto che ha effettuato uno specifico percorso di formazione, che l’ha portato ad acquisire determinate capacità tecniche e professionali, che gli consentono di ricoprire una determinata posizione.

Ma le famiglie devono comunque essere “professionali”, secondo la raccomandazione del Dr. Jean Cloude Cebulà “Siate professionali, restate voi stessi!” (Cebulà J.C., in Atti 1° Conv. Naz. IESA, Torino 2000). La professionalità della famiglia è nell’essere sé stessa lungo tutto il periodo dell’ospitalità, senza voler assumere atteggiamenti o modalità operative terapeutiche che non le competono.

Per restare sé stessa la famiglia ha due possibilità: può impedire l’accesso al proprio interno ad estranei, evitando fin dal principio l’innestarsi di un cambiamento, oppure può aprire il proprio spazio familiare ad altri, accettando di mettere in discussione la propria stabilità.

L’ingresso di un paziente psichiatrico determina un movimento relazionale all’interno della famiglia, il quale mette in discussione  equilibri consolidati: a quel punto essere professionali significa restare sé stessi. È la famiglia a dover “trasformare” il paziente psichiatrico, aiutandolo a smussare alcuni angoli particolarmente spigolosi del suo essere, non il paziente a trasformare la famiglia, modificandone   abitudini e comportamenti. Può comunque accadere che, durante l’ospitalità, la famiglia cambi in qualche suo aspetto, ma ciò fa parte della sua naturale evoluzione; l’ingresso dell’ospite può anticipare un cambiamento che si sarebbe comunque verificato in futuro. In questo caso il giro di boa, la svolta, il passaggio di stato si verifica da entrambe le parti: famiglia ed utente.

La peculiarità dell’intervento “non professional” è data dalla possibilità di sfruttare tutti gli aspetti positivi del non professional, evitandone contemporaneamente i rischi. L’ospitalità Supportata ed Eterofamiliare gode dei benefici del non professional, potenziati dalla presenza di un supporto tecnico, che facilita il cambiamento e stimola la crescita. Attraverso la metafora della botanica potremmo dire che coltivare delle piantine in una serra rende sicuramente più abbondante la produzione, coltivare le stesse piantine in un campo all’aria aperta ne consente la crescita naturale, ma coltivare queste piantine all’aria aperta  con “occhio professionale” stimola la forza medicatrice della natura e contemporaneamente la potenzia, poiché il professionista interviene durante la crescita, nel momento opportuno.

Dunque l’atteggiamento delle famiglie deve essere “naturale” (non professional), perché il non professional favorisce alcune dinamiche che altrimenti non si instaurerebbero; ma quando si innestano questi meccanismi è essenziale coglierli e trasformarli in un momento strategico, affinché possa avvenire il passaggio di stato, il giro di boa, il cambiamento. Alcune situazioni si sono verificate ripetutamente nella vita “familiare” di un paziente, poi, durante l’eventuale periodo trascorso in comunità non accadono più, in quanto vengono a mancare gli stimoli necessari al loro innesto. Nell’accoglienza familiare tali situazioni si verificano nuovamente, ma a quel punto vanno colte e deve essere possibile lavorarci sopra: il paziente è “in vitro” ma è contemporaneamente una piantina che cresce immersa nella natura, non una piantina in serra, come invece sarebbe in comunità.

La possibilità di “crescere” in un ambiente naturale è garantita dalla disponibilità delle famiglie ospitanti, che aprono il loro spazio affettivo relazionale alla persona accolta.

Il canale privilegiato per il reperimento delle famiglie ospitanti è sicuramente il passaparola, inoltre vi è l’informazione attraverso cartaceo in sede di convegni o in altre situazioni.

I canali utilizzati sono pochi (ma buoni), poiché le dimensioni dell’équipe che supporta l’ospitalità sono ridotte, dunque non è pensabile lavorare su grandi numeri. La cooperativa non ha intenzione di espandersi, gli operatori privilegiano la qualità degli interventi, piuttosto che la quantità.

Tornando alla metafora della botanica, potremmo dire che vi sono margherite molto piccole, di tre, quattro centimetri, ma esistono anche margherite più grandi, che arrivano a sei, sette centimetri. Non esistono invece margherite di venticinque centimetri. Ciò significa che c’è una dimensione ideale per ogni cosa, una giusta misura che consente di “crescere” naturalmente.  

Se la cooperativa ricercasse le famiglie attraverso altre tipologie di canali, si rischierebbe di avere un eccessivo incremento del numero di ospitanti, il quale non sarebbe gestibile, perché non ci sono abbastanza operatori formati al counselling in ospitalità eterofamiliare. Non avendo counsellor in numero sufficiente si dovrebbero assumere altri operatori, non specificamente formati al counselling in O.S.e.E., abbassando di conseguenza la qualità dell’intervento.

La cooperativa Alice nello Specchio sa bene di non voler diventare una margherita di venticinque centimetri, poiché una volta arrivati a questa altezza si inizierebbero a vedere dei petali secchi, meglio restare una piccola margherita, ma con una corolla fiorita.

Fin ora sono state nominate due diverse tipologie di operatori che  supportano l’ospitalità: il  counsellor O.S.e.E. e l’operatore O.S.e.E.

Il cousellor è colui che in altre situazioni verrebbe chiamato case manager, è la figura che “tira le fila dell’ospitalità”, egli si occupa dei rapporti con i curanti del DSM, con gli operatori O.S.e.E. della cooperativa, con la famiglia ospitante, con il paziente. L’intervento del cousellor deve essere in sinergia con quello degli operatori ambulatoriali, insieme ai quali si crea la “macro équipe” che gestisce l’intervento specifico. È importante sottolineare che il paziente ospite delle Crisis Farm non perde mai i contatti con lo psichiatra e con l’èquipe ambulatoriale, con la quale mantiene una continuità terapeutica;           gli operatori del DSM seguitano a svolgere la loro funzione di curanti, essi sono in stretto contatto con il cousellor, il progetto del paziente viene studiato e realizzato insieme, di comune accordo.

Dietro la figura del counsellor vi è un’ulteriore figura, che è il Supervisore. Esistono due tipi di supervisione: una con psicodramma o discussione di caso, alla quale presenziano anche i residenti, ed una individuale, attivata direttamente dall’operatore o dai residenti quando ne ravvisano la necessità.

L’operatore O.S.e.E. è uno dei fili mossi dal cousellor, egli si occupa concretamente del paziente ospitato, effettuando spostamenti, accompagnamenti ed interventi di supporto alla quotidianità.

La formazione dell’operatore O.S.e.E. passa attraverso un percorso informativo-formativo in aula; il cousellor invece, oltre alla formazione in aula, effettua un percorso individuale che avvicina molto le necessità formative di  tali professionisti a quelle di uno psicoterapeuta. Per questo motivo, oltre ai momenti in aula, alle simulate ed alla supervisione di gruppo, per tali operatori è previsto un tutoraggio da parte di un altro counsellor su ogni singolo caso ed un percorso terapeutico-formativo personale, precedente o in corso, da parte del neofita (Sileci S., in op.cit.).

A testimoniare la validità dell’intervento di Crisis Farm sulla crisi relazionale-familiare del paziente, sono i numerosi successi ottenuti dalla cooperativa in vent’anni di attività. Un caso esemplare è la storia di Antonio, il quale, dopo numerosi ricoveri in S.P.D.C., viene ospitato per un periodo in una delle fattorie della salute gestite da Alice nello Specchio. L’ambiente accogliente e genuino, il contatto diretto con la natura, le attività manuali specifiche del posto (cura degli animali, lavori di campagna, ecc.), l’intervento educativo svolto dalla famiglia ed il supporto degli operatori, lo hanno restituito in breve tempo ed in buona forma fisica alla propria occupazione lavorativa. Le vacanze dell’anno successivo Antonio le ha trascorse interamente presso la cascina, questa volta non come paziente ma come libero villeggiante, autofinanziandosele per intero. Oggi Antonio sta abbastanza bene, ha ancora il suo lavoro, vive solo nella propria casa, va in vacanza dove gli pare, ma ogni tanto, anche se non è in crisi, passa a trovare gli amici della fattoria (Aluffi G, op.cit.).     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5.      Il progetto di affido familiare per tossico-alcoldipendenti “L’ho sentita casa mia” del Ser.T. dell’ASL 21[19]  

 

Durante una delle telefonate effettuate prima di procedere all’invio dei questionari nei diversi servizi, sono venuta a conoscenza del progetto di affidamento familiare per soggetti tossico-alcoldipendenti realizzato dal Ser.T. dell’ASL 21. Incuriosita dalla peculiarità dell’esperienza, data la tipologia di utenza a cui si rivolge, ho contattato la Dr.ssa Monica Ferrero, educatrice professionale e responsabile del progetto, per avere maggiori informazioni sull’attività.

Pur trattandosi di un’esperienza parzialmente diversa rispetto all’affido di pazienti psichiatrici, in quanto gli obietti terapeutici non coincidono del tutto, ritengo importante riportare alcune informazioni relative a questa realtà del tutto peculiare presente sul territorio piemontese, auspicando che possano sorgerne presto di nuove.

Il progetto di affidamento familiare “L’ho sentita casa mia” risale al 1998 ed è stato pensato e realizzato dal Ser.T. dell’ASL 21 di Casale Monferrato.

All’epoca il servizio di salute mentale ed il servizio tossicodipendenze facevano capo a due distinti dipartimenti. Successivamente sono stati riuniti in un'unica struttura organizzativa (Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche), ma, nonostante questa unione, fin ora non c’è stato alcun caso di paziente psichiatrico accolto in famiglia. Si è verificato soltanto un caso in cui l’affido di un soggetto comorbile è stato gestito dal Ser.T. in collaborazione con la salute mentale.

Né a livello nazionale, né a livello locale esiste un riferimento normativo specifico relativo a questo tipo di esperienza rivolta a soggetti tossico-alcoldipendenti. I fondi per il progetto sono stati concessi in riferimento al D.P.R. 9.10.1990 n. 309, “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenze”.

Il progetto parte con una prima sperimentazione, su finanziamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, negli anni 1997-1998-1999, e si consolida fino ad oggi, grazie anche all’assunzione degli oneri relativi allo stesso da parte dell’ASL 21, riceve giudizio positivo e viene nuovamente finanziato dal Fondo Regionale Lotta alla Droga.

I destinatari del progetto sono soggetti tossicodipendenti giunti al termine del percorso comunitario, per i quali si valuta idonea una fase intermedia di esperienza in ambiente familiare sostitutivo, soggetti tossicodipendenti con storia di deprivazione familiare e/o a “doppia diagnosi” e soggetti tossicodipendenti, singoli o coppie, con figli seguiti in collaborazione dal Ser.T. ed dal Servizio Socio Assistenziale, per i quali esistono i presupposti per il mantenimento e/o recupero delle competenze genitoriali.

Gli obiettivi del  progetto sono:

§               favorire, in soggetti tossicodipendenti che hanno concluso un percorso in comunità e per i quali si valuta idonea una fase intermedia di esperienza in ambiente familiare sostitutivo, il processo di autonomizzazione, con particolare riferimento a quella lavorativa ed abitativa;

§               favorire, in soggetti td. per i quali è stata accertata una peculiare carenza nei modelli familiari, il percorso di recupero e di stabilizzazione personale;

§               favorire, in soggetti. td. con figli minori, l’assunzione ed il mantenimento di un adeguato ruolo genitoriale;

§               integrare funzionalmente il lavoro svolto dal Ser.T. e dal Servizio Sociale, attraverso una formazione comune, condotta in modo partecipato, con analisi sui casi, confronto metodologico e di contenuto sull’esperienza dell’affido, nonché produzione di protocolli comuni;

§               messa a punto metodologica dello strumento “affidamento familiare” ed ampliamento del bacino delle famiglie aderenti all’esperienza;

§               favorire l’ingaggio della famiglia d’origine del tossicodipendente in un percorso parallelo di trattamento familiare su tre possibili livelli:

a) di consulenza familiare (volta al controllo del livello di stress emotivo);

b) di terapia familiare strutturata;

c) di gruppo di auto aiuto per genitori con figli tossicodipendenti.

Di seguito vengono indicati alcuni dati (estratti da una rendicontazione effettuata nel 2000) per illustrare il progetto:

§               Corso di formazione famiglie interessate all’iniziativa (anni ’97- ’98):        9 incontri a cadenza quindicinale, sui temi del funzionamento della famiglia d’origine del tossicodipendente, sulla tutela dei minori figli di tossicodipendenti, sul lavoro con la coppia tossicodipendente, sulla relazione con i genitori dei tossicodipendenti ed in merito al problema di un’eventuale diagnosi psichiatrica sottostante la tossicodipendenza.

§               a)  Famiglie che frequentano il corso: 12;

b)  famiglie che concludono il corso: 11;

c) famiglie che al termine della formazione confermano la propria disponibilità all’esperienza: 7;

d) famiglie che accolgono in affidamento uno o più utenti: 6;

e) utenti posti in affidamento: 9.

§               Incontri di supervisione: incontro mensile, condotto dal Dr. Mazza, per tutta la durata del progetto, con intervallo nei mesi estivi, alternati ad incontri di autosupervisione con il supporto dell’E.P. Ferrero.

§               Incontri  strutturati con la famiglia d’origine dell’affidato: in 3 situazioni;

§               incontri di supporto alla famiglia affidataria: sempre;

§               incontri di verifica affidato - famiglia affidataria - operatori: sempre;

Le famiglie ricevono un contributo mensile per le spese che affrontano e sono coperte da assicurazione.

L’esperienza ha dimostrato la sua validità rispetto a:

§               esito positivo degli affidamenti (decorso coerente con le aspettative);

§               continuità nell’ingaggio terapeutico dell’utente affidato e sua crescita nel percorso di autonomia;

§               maturazione delle famiglie affidatarie che, oltre a proseguire l’impegno assunto, si configurano come gruppo in rete e come promotori di ulteriori esperienze.

Attualmente è in corso un unico affidamento, più un secondo caso che non è più un vero e proprio affido, si tratta di una mamma con minori, la quale prima era in affidamento, ora non più ma la famiglia che l’aveva accolta continua tuttora a darle una mano.

Tale progetto infatti mira anche a svolgere un ruolo educativo, supportando il soggetto tossicodipendente nello svolgimento della sua funzione genitoriale. Spesso gli utenti dei servizi si trovano, pur con il problema della tossicodipendenza, ad essere genitori. L’utente tossicodipendente può essere affidato avendo egli stesso dei figli e l’affidamento implica quindi non solo la cura della persona rispetto alla quotidianità, ma anche un’educazione rispetto al ruolo di genitore per i propri figli.

 

 

6.     Altre esperienze di affidamento eterofamiliare

 

Dall’analisi complessiva dei questionari brevi, somministrati nei servizi in cui non è attivo un progetto per gli affidamenti eterofamiliari, emerge che in 8 servizi è stata utilizzata occasionalmente la risorsa dell’accoglienza familiare per utenti psichiatrici. Si tratta di situazioni in cui la convivenza tra un paziente in carico al CSM ed una famiglia ospitante non rappresenta una consueta modalità di intervento, in quanto non ne è prevista la regolamentazione mediante la predisposizione di un progetto che indica le linee guida dell’attività.

In singoli casi l’équipe curante ha ritenuto comunque opportuno ricorrere all’affido familiare, previsto dalla D.C.R. 357-1370 del 1997, ed ha predisposto un apposito progetto individuale relativo all’inserimento del paziente in famiglia.

 

 

 

 

 

l’allargamento familiare realizzato dal csm dell’asl 2 di torino

 

Presso il CSM di Corso Unione Sovietica di Torino, è in corso  un’esperienza di affidamento di un paziente in carico al servizio, gestita in collaborazione con altri servizi, la quale viene definita ”allargamento familiare”.

L’utente è vedovo e ha 2 figlie, entrambe minori all’epoca dell’inizio dell’affido. Per anni si è cercato di fornire degli appoggi a questa famiglia, poi ad un certo punto si è pensato di costruire una “progettualità mirata” tra più servizi: CSM, Servizio Sociale e Neuropsichiatria Infantile.

Inizialmente sono stati individuati dei vicini, che vivevano sullo stesso pianerottolo, i quali si erano resi disponibili ad occuparsi delle bambine, fornendo un aiuto al papà.

All’inizio il paziente era molto preoccupato e temeva che lo scopo della famiglia fosse quello di portargli via le sue figlie. Dunque, in un primo momento, il supporto non era accettato di buon grado, poiché veniva vissuto come un’invasione nella propria vita personale.

Poi man mano l’utente ha acquistato fiducia nella famiglia, ha preso consapevolezza del fatto che i vicini potevano fornirgli un valido aiuto, ha compreso che il loro intento era aiutarlo, e non portargli via le figlie.

L’esperienza è durata un anno, poi i vicini sono invecchiati e non se la sono più sentita di continuare a fornire supporto.

A questo punto è stata individuata una famiglia di Moncalieri che si è data disponibile a seguire le bambine e ad dare una mano al papà. Questa famiglia è stata in grado di rendere l’utente partecipe della quotidianità delle sue figlie, infatti, per esempio, la domenica spesso pranzano tutti insieme. Questo allargamento familiare prosegue tutt’ora, la famiglia di Moncalieri segue solo più una figlia (l’altra è diventata maggiorenne) e rappresenta un importante punto di riferimento per il papà.

 

 

gli affidamenti eterofamiliari del csm dell’asl 4 di torino

 

In passato, presso l’ambulatorio di via Leoncavallo di Torino, sono stati realizzati alcuni affidi, grazie all’iniziativa dell’assistente sociale che all’epoca lavorava presso il servizio psichiatrico. Purtroppo, a seguito del trasferimento dell’assistente sociale presso altra sede, la pratica dell’accoglienza familiare si è interrotta.

L’esperienza è iniziata nel 1993 ed è terminata nel 2003.               Non esisteva una specifica delibera aziendale, né un progetto generale cui fare riferimento. Si trattava di interventi su progetto individuale, contestualizzati nell’ambito del Piano Sanitario Regionale 1997-1999 e della D.C.R. 357-1370 del 1997.

Gli affidamenti realizzati erano di due tipi: intrafamiliari, cioè allo stesso nucleo biologico del paziente (detti anche omofamiliari), ed eterofamiliari, e perciò ad un nucleo diverso da quello di origine.

Si tratta di una sfumatura particolare di affidamenti eterofamiliari, nel senso che le persone alle quali venivano affidati gli utenti facevano già parte della rete personale del paziente, rappresentavano già degli importanti nodi di rete, ad esempio vicini di casa che conoscevano da tempo la persona e sporadicamente si occupavano di lei in modo volontario. Ratificare questo rapporto significa valorizzare le risorse presenti nella rete della persona.

Inoltre la conoscenza del paziente risultava rassicurante per la famiglia affidataria, le consentiva di non avere paura dell’utente. Sarebbe stato difficile pensare ad affidi a persone sconosciute, in particolare per il timore ed i pregiudizi che la malattia mentale suscita.

Secondo l’assistente sociale che ha promosso questi interventi, nell’affidamento eterofamiliare, come in tutti gli interventi “di valore” e ad alta complessità terapeutica e gestionale, è necessaria una grande mobilitazione di risorse da parte degli operatori, i quali devono essere in grado di fornire un supporto costante ed adeguato: “Bisogna esserci come punti di riferimento solido per gli affidatari, che non devono in alcun modo sopperire alle mancanze dell’ente pubblico. Questo significa lavorare meglio ma anche lavorare di più, ma certamente con più soddisfazione per i risultati ottenuti”.

 

il dsm nord dell’asl 13 di arona

 

Presso Il DSM Nord dell’ASL 13 di Arona, alcuni anni fa, è stato realizzato un affidamento eterofamiliare di un utente in carico al servizio di salute mentale. In quell’occasione il CSM ha potuto contare sulla disponibilità di un parroco del posto, il quale ha offerto uno spazio abitativo ed un lavoro all’utente. Per coprire le spese di vitto e alloggio è stato utilizzato lo strumento dell’assegno terapeutico.

È stata un’esperienza positiva, dalla quale si è diramato un progetto in rete sul territorio, che ha coinvolto l’educativa territoriale, alcuni volontari, il CSM ed il Comune.

L’affido ha sortito buoni effetti, oggi l’utente vive solo ed è autonomo, ma purtroppo, per ora, è rimasto un caso isolato.

Il DSM Nord dell’ASL 13 ha comunque intenzione di attivare un progetto di affidamento eterofamiliare, e per questo motivo il Direttore del dipartimento, Dr. Michele Vanetti, ha inviato l’assistente sociale ambulatoriale al 2° Convegno Nazionale sull’Inserimento Eterofamiliare Supportato, tenutosi a Lucca nel 2001.

Gli operatori hanno deciso di “arare il terreno per la semina”, costituendo un’associazione di famiglie e di volontari, ed è stato impegnato molto tempo nella realizzazione di questo obiettivo. Una volta costituita l’associazione, il cui statuto prevede anche la “promozione culturale degli affidamenti eterofamiliari”, ci si è concentrati sulla formazione di gruppi di auto mutuo aiuto.

Attualmente si è ancora nella fase di consolidamento delle attività svolte dal volontariato e dell’esperienza dei gruppi di auto mutuo aiuto, ma permane l’intenzione di realizzare un progetto di accoglienza familiare.

Secondo l’assistente sociale intervistata, un progetto per gli affidamenti eterofamiliari “sarebbe veramente una ricchezza territoriale ed una risorsa aggiuntiva del servizio che in rete si articola con altri servizi e risorse pubbliche e private”.

 

altre esperienze singole nei dsm piemontesi

 

L’assistente sociale coordinatrice del DSM dell’ASL 9 dichiara “In passato, tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90, in qualità di responsabile dei servizi socio-assistenziali, avevo attivato un progetto di affido di persone in carico ai servizi psichiatrici, utilizzando la delibera quadro relativa all’affido di persone adulte”.

Le assistenti sociali del DSM dell’ASL 14 rivelano che negli anni ’80, presso il loro servizio, erano state attivate 2 esperienze di affidamento eterofamiliare, le quali però non avevano sortito buon esito, infatti entrambi i pazienti sono stati reinseriti in comunità.

Inoltre l’assistente sociale del DSM dell’ASL 15 riferisce che il servizio ha “ereditato” un affidamento eterofamiliare di un utente di Savigliano (ASL 17). È un progetto in corso tuttora, che coinvolge un paziente dell’ex Ospedale Psichiatrico di Racconigi, il quale è stato affidata ad un parroco. A conferma di ciò, l’assistente sociale dell’ASL 17 afferma che, in passato, era stato avviato un progetto individuale di affidamento di un degente ricoverato per anni presso l’ex Ospedale Psichiatrico di Racconigi. Questa persona stava realizzando da anni un inserimento lavorativo protetto presso la locale comunità parrocchiale.  Al momento della chiusura dell’Ospedale questa esperienza è stata trasformata in un affidamento familiare al parroco

Infine non vanno dimenticate le testimonianze delle assistenti sociali del DSM Sud dell’ASL 13 e del DSM dell’ASL 19. Entrambe dichiarano che il loro servizio ha attivato affidamenti eterofamiliari in collaborazione con la Cooperativa Sociale Alice nello Specchio, di conseguenza si tratta di Ospitalità Supportata ed Eterofamiliare presso le Crisis Farm della cooperativa (Cfr. par. 4).

In particolare presso il DSM Sud dell’ASL 13 è stato attivato circa due anni fa un singolo intervento di ospitalità supportata ed eterofamiliare, mentre il CSM di Nizza Monferrato ha effettuato il primo affidamento eterofamiliare dal 2002 al 2004, l’utente in questione era una ragazza di 28 anni. Inoltre, presso altri ambulatori del dipartimento,  negli anni passati, sono stati realizzati altri percorsi di ospitalità supportata ed eterofamiliare: il primo, dal 2001 al 2005, sempre di una ragazza ventottenne, il secondo, da marzo 2002 a maggio 2002, di un ragazzo ventiduenne, il terzo, partito nel 2005 ed attualmente in corso, di un ragazzo di 33 anni.

 

 

7.      Conclusioni

 

Dagli anni delle istituzioni totali ai giorni nostri, la psichiatria italiana ha fatto molti passi in avanti, andando sempre verso una maggiore integrazione nel tessuto sociale delle persone con disagio mentale.

La realtà dell’affidamento eterofamiliare rappresenta un ottimo esempio di accoglienza, solidarietà ed integrazione nella comunità della persona sofferente di disturbi psichici. Per questi motivi appare come una risorsa da promuovere, da far conoscere e da sperimentare, partendo sempre dal presupposto che non dovrà e non potrà mai sostituire le comunità protette, i gruppi appartamento e gli altri interventi messi in atto dai servizi psichiatrici, ma che può rappresentare una risorsa valida, alternativa e complementare rispetto ad essi.

Come è stato illustrato nei paragrafi precedenti, nella nostra regione sono 5 i dipartimenti di salute mentale che hanno raccolto l’indicazione della legge regionale del 1997, promuovendo progetti di affidamento familiare per pazienti psichiatrici.

Una prima valutazione superficiale potrebbe indurre a pensare che si tratti di un numero molto esiguo, tenuto conto che i dipartimenti di salute mentale della Regione Piemonte sono 22. Ma data la peculiarità della risorsa ed i presupposti culturali di partenza (stigma che da sempre colpisce i malati mentali), se si analizza a fondo la tipologia di intervento e la realtà in cui è implementato, ci si accorge che la presenza di 5 servizi attivi sul territorio regionale non è cosa da poco, se si pensa che fino a pochi anni fa i malati psichiatrici venivano custoditi in strutture come i manicomi, che di familiare non avevano proprio nulla.   

Inoltre è necessario tenere conto delle realtà emergenti e di quelle che, pur non avendo predisposto protocolli e linee guida specifici, possono annoverare fra i propri interventi, seppur in maniera occasionale, l’affidamento eterofamiliare. 

Sono 3 i servizi psichiatrici che dichiarano espressamente nei questionari di voler attivare un progetto di accoglienza familiare, e di essere attualmente nella fase di studio del progetto (Cfr. figura 5 pag. 66). Inoltre, durante la somministrazione dei questionari, gli operatori sociali hanno espresso più volte l’intenzione di realizzare affidamenti eterofamiliari, o comunque l’interesse ad approfondire maggiormente la conoscenza sull’argomento.

In riferimento ai dati raccolti attraverso questa ricerca, si possono evidenziare alcune condizioni essenziali affinché l’affidamento eterofamiliare possa realmente funzionare:

1.            forte motivazione degli operatori, i quali devono “credere” nella possibilità di realizzare affidi familiare di pazienti psichiatrici, e per primi devono avere fiducia nelle risorse che il territorio può esprimere, in questo caso nel potenziale riabilitativo delle famiglie che si rendono disponibili ad intraprendere quest’esperienza;

2.            disponibilità di tempo da dedicare alla progettazione e alla realizzazione degli affidi, e in questo senso risulta fondamentale avere pieno appoggio da parte del Direttore del dipartimento e della Dirigenza aziendale, i quali devono essere abbastanza lungimiranti da comprendere che un progetto di questo tipo non “toglie” tempo al lavoro quotidiano degli operatori, certo significa lavorare di più, ma anche lavorare meglio e con più soddisfazione;

3.            accurata selezione delle famiglie affidatarie, alle quali è sempre richiesto di possedere alcuni requisiti essenziali: una camera ad uso esclusivo dell’ospite, tempo da dedicare all’ospite e disponibilità a collaborare con gli operatori. Inoltre è importante che ci sia il giusto equilibrio fra spirito solidaristico ed interesse economico. Per il resto sono le caratteristiche personali della famiglia a fare la differenza, in particolare la loro capacità di trasmettere accoglienza, prossimità e calore umano.

4.            la famiglia deve restare sé stessa lungo tutto il periodo della convivenza, senza voler assumere atteggiamenti o modalità operative terapeutiche che non le competono. Non si chiede loro di trasformarsi in professionisti, ma di consentire alla persona accolta di vivere un’esperienza umanamente ed affettivamente significativa, in un contesto di vita non istituzionalizzato e non alienante. L’obbiettivo è  valorizzare e potenziare le parti sane del soggetto, consentendogli di   recuperare un ruolo, un’identità nuova: il sofferente psichico ritorna ad essere un cittadino con un proprio spazio privato, con il proprio nome sul campanello e sulla buca delle lettere;

5.            valutare attentamente l’abbinamento tra ospite e famiglia affidataria. Inizialmente l’équipe cerca, per quanto possibile, di andare incontro alle esigenze e alle richieste di entrambi (sesso ed età dell’utente, possibilità per l’ospite di fumare in casa, di raggiungere il centro con i mezzi pubblici, ecc.), poi si inizia a riflettere attentamente su quelle che sono le esigenze di sostegno, contenimento e stimolazione del paziente e si sceglie la famiglia che più di ogni altra sembra rispecchiarle. Per alcuni utenti è più adatto un ambiente tranquillo, che offre limitate stimolazioni ed elevato contenimento, mentre per altri è più utile un ambiente familiare dinamico e stimolante, quindi una famiglia molto attiva, che tende a coinvolgere l’ospite nelle proprie iniziative;      

6.            fornire un supporto professionale costante alle famiglie che si rendono disponibili ad intraprendere quest’esperienza di convivenza, poiché esse non devono in alcun modo sopperire alle mancanze dell’ente pubblico;

7.            non tutti i pazienti psichiatrici sono adatti per la convivenza in famiglia, per alcuni sono più indicate le comunità protette o i gruppi appartamento: non bisogna dimenticare che l’affido familiare rappresenta una risorsa complementare e non sostitutiva rispetto ad altre tipologie di intervento adottate dai CSM. I requisiti fondamentali richiesti agli utenti da inserire in famiglia possono essere riassunti nei seguenti punti:

§               motivazione all’inserimento;

§               condivisione del progetto terapeutico, di cui l’affidamento familiare è parte essenziale ed integrante;

§               buon compenso psichico e stabilizzazione della sintomatologia;

§               assenza di agiti aggressivi, trascorsi delinquenziali, dipendenza da sostanze e/o alcool, tentativi anticonservativi;

§               nucleo familiare assente o espulsivo: sono persone che hanno “perso” i propri punti di riferimento essenziali nella vita e per le quali si immagina che un ambiente di tipo familiare possa essere di grande impatto e stimolo, mobilitando le risorse, potenziando gli aspetti sani e le abilità residue della persona.

Infine ritengo importante evidenziare che la risorsa dell’affidamento eterofamiliare di persone sofferenti di disturbi psichici rispecchia pienamente:

1.            il principio della personalizzazione dell’intervento di servizio sociale,     il cui obiettivo specifico è quello di fornire risposte individualizzate e personalizzate a situazioni di bisogno, mediante l’utilizzazione e/o la promozione di risorse personali, sociali, formali ed informali (Bartolomei A., Passera A.L., 2003). L’affidamento eterofamiliare consente di realizzare abbinamenti ad hoc tra utente e famiglia, scegliendo la famiglia che meglio risponde alle esigenze di sostegno, contenimento e stimolazione della persona. Inoltre l’accoglienza familiare permette al sofferente psichico di instaurare relazioni dirette, affettive e significative   con i membri della famiglia, avendo a disposizione uno spazio molto personale, che favorisce l’espressione delle sue potenzialità. Il paziente psichiatrico ritorna così ad essere un cittadino con un proprio spazio privato, con le sue figure di riferimento sane, non rappresentate da professionisti, inevitabilmente causa di relazioni asimmetriche ed artificiose;

2.            il principio della solidarietà tra persone e gruppi, inteso come tensione a porsi in posizione di servizio a favore dell’altro, riconosciuto pari a sé per dignità e diritto di cittadinanza (Bartolomei A., Passera A.L., op.cit.). L’ospitalità offerta da una famiglia ad una persona sofferente di disturbi psichici è espressione della solidarietà sociale, della prossimità e della presa in carico, da parte della comunità, dei “problemi” della comunità stessa. In questo modo i pazienti psichiatrici accolti in famiglia diventano risorse, e non più problemi, per il territorio di appartenenza;    

3.            il principio della fiducia nel cambiamento a livello individuale, ambientale, comunitario e sociale (Bartolomei A., Passera A.L., op.cit.). Affinché un progetto di affidamento eterofamiliare sortisca gli effetti desiderati è necessario che gli operatori abbiano fiducia nelle risorse del territorio, e che, di conseguenza, credano fermamente nelle potenzialità riabilitative della famiglia ospitante. Sovente si assiste ad un vero e proprio rifiorire del paziente psichiatrico accolto in famiglia, il quale recupera alcune delle abilità che una vita di anonimato aveva sepolto e fatto tacere.     

4.            l’atteggiamento professionale di contrasto all’emarginazione ed all’esclusione sociale, facendosi promotori di cambiamento e di processi di inclusione, per una migliore qualità della vita e dei rapporti interpersonali, anche mediante l’utilizzo delle reti sociali di aiuto (Bartolomei A., Passera A.L., op.cit.). L’affidamento eterofamiliare può essere annoverato fra gli interventi che favoriscono l’inclusione sociale del sofferente mentale, poiché essere accolto da una famiglia significa essere accettato come persona, e non discriminato per il solo fatto di essere affetto da una patologia psichiatrica. L’affidamento eterofamiliare rappresenta un ottimo strumento per la lotta contro lo stigma che da sempre colpisce gli utenti psichiatrici, poiché consente loro di percepire e dimostrare alla comunità le proprie capacità e potenzialità;      

5.            la metodologia di intervento basata sul lavoro di rete. L’obiettivo centrale di un progetto di affidamento eterofamiliare è quello di ricercare contesti di aiuto naturali, in cui la persona si senta meno stigmatizzata. Spesso la rete informale di un utente psichiatrico è assente, oppure non è disponibile a trasformarsi in sistema di supporto per il soggetto appartenente. Consentire a queste persone di entrare a far parte di una famiglia significa offrire loro una seconda chance, un’opportunità per riprovare a tessere la propria rete, instaurando finalmente relazioni significative, che potranno favorire un sostegno naturale e perciò meno stigmatizzante, nonché una maggiore autonomia ed integrazione nel tessuto sociale (Ferrario, 1992).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

8.            Allegati

 

Allegato 1 – Questionario somministrato nei DSM in cui non è attivo un progetto per gli affidamenti eterofamiliari. 

 

 

 

Università degli Studi di Torino

Facoltà di Scienze Politiche

Corso di Laurea in Servizio Sociale

Anno accademico 2005/2006

 

 

Sara Celestino

Tesi di Laurea – L’affidamento eterofamiliare di persone sofferenti di disturbi psichici

 

 

QUESTIONARIO PER REPERIMENTO DATI

 

 

§  Nominativo Assistente Sociale:

 

§  Servizio presso cui lavora:

 

§  Telefono ed e-mail: 

 

 

Durante la telefonata mi ha comunicato che nel suo servizio non è attivo un progetto per gli affidamenti eterofamiliari, in riferimento a questa informazione le porgo alcune domande:

 

 

1.                      Conosce la risorsa degli affidamenti eterofamiliari di persone con disturbi psichici? Se si, in quale contesto e grazie a quale fonte ha avuto modo di apprenderne l’esistenza (convegni, corsi di formazione, colleghi di altri servizi, letture personali, ecc.)?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


2.                      È a conoscenza di esperienze di affidamenti eterofamiliari in passato, nell’area dipendente dal dipartimento in cui lavora? È a conoscenza di servizi di salute mentale in Piemonte, in altre zone d’Italia o all’estero ove è attivo un progetto per gli affidamenti eterofamiliari?  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


3.                      L’équipe del suo servizio ha mai pensato, ed eventualmente proposto, di avviare un progetto di questo tipo? Se si per quale motivo l’idea è naufragata?  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


4.                      Quali sono le ragioni per cui, secondo lei, non esiste un progetto per gli affidamenti eterofamiliari presso il suo servizio?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


5.                      In riferimento ai principi del servizio sociale, ritiene che gli affidamenti eterofamiliari potrebbero promuovere una migliore qualità della vita per alcuni utenti psichiatrici?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


6. Qual è la sua opinione personale in merito a questo tipo d’intervento?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Allegato 2 – Intervista somministrata nei DSM in cui esiste un progetto per gli affidamenti eterofamiliari.

 

 

 

Università degli Studi di Torino

Facoltà di Scienze Politiche

Corso di Laurea in Servizio Sociale

Anno accademico 2005/2006

 

 

Sara Celestino

Tesi di Laurea – Gli affidamenti eterofamiliari di persone sofferenti di disturbi psichici

 

 

§  Nominativo e qualifica professionale dell’operatore intervistato:

 

§  Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL                 CSM di          

 

§  Telefono ed e-mail: 

 

 

Questionario

 

 

1. la nascita del progetto

 

 

1.                      Il progetto è nato:

                     dalla proposta di alcuni operatori del servizio

                     da una richiesta della dirigenza aziendale

 

          

 

 

 

 

 

 


2.                      Come siete venuti a conoscenza della pratica dell’affidamento eterofamiliare?

                     convegni o incontri di formazione (specificare)

 

 

 

 

 


                     lettura di testi, articoli (specificare)

 

 

 

 

 

 

 


                     conoscenza dell’attività di affidamento eterofamiliare svolta da altri servizi (specificare quali sono questi servizi e come si è venuti a conoscenza della loro attività)

 

 

 

 

 


                     altro (specificare)

 

 

 

 

 

 

 

3.                      In quale anno ha avuto ufficialmente inizio l’attività per gli affidamenti eterofamiliari?

 

 

 

 

 


4.                      Esiste una Delibera aziendale che stabilisce le linee guida del progetto? Richiederne copia

 

 

 

 

 


5.                      Quale nome è stato scelto per identificare l’inserimento di un utente psichiatrico in famiglia?

               Affidamento eterofamiliare

               Inserimento eterofamiliare

               Accoglienza familiare

               Altro                          

 

 

 


Motivare la scelta.

 

 

 

 

 

 


6.                              Quali sono le fonti normative, nazionali e regionali, di riferimento per l’attività?

 

 

 

 

 

 

 


2. gli attori del progetto

 

 

a) l’èquipe

 

7.                      Gli operatori che gestiscono il progetto:

                     fanno parte dell’équipe del CSM che ha in carico l’utente

                      sono operatori esterni all’équipe del CSM che ha in carico  l’utente

 

         In questo secondo caso:

 

·               Il personale è interno o esterno all’ASL?

 

 

 

 

 

 


·               L’utente mantiene i contatti con alcune figure ambulatoriali    (Psichiatra di riferimento, Assistente Sociale, altri)?

 

 

 

 

 

 


·               La collaborazione tra l’équipe inviante e l’équipe affido è gestita attraverso incontri periodici e strutturati?

 

 

 

 

 

 


8.                      Le figure professionali che compongono l’équipe sono:

(Indicare il n° di figure professionali presenti)

                  Psichiatra

                  Psicologo

                  Psicoterapeuta

                  Infermiere

                  Educatore

                  Assistente Sociale

                  Sociologo

                  Pedagogista

                                                      (altre professionalità)

                 
 

  

 

9.                      Chi è l’operatore responsabile – coordinatore del progetto?

 

 

 

 

 


10.                  Quali sono le mansioni svolte nello specifico da ciascun operatore dell’équipe?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


11.                  È prevista la figura dello psicoterapeuta supervisore dell’équipe e delle dinamiche relazionali familiari? Se si, ogni quanto viene effettuata?

 

 

 

 


12.                  Ogni quanto viene svolta la riunione di équipe?

 

 

 

 


b) la famiglia affidataria

 

13.                  Attraverso quali canali è stato possibile il reperimento di famiglie affidatarie?

               Articoli e annunci su riviste e giornali locali

               Programmi radiofonici

               Affissione di volantini in pubblici esercizi

               Passaparola

               Risposte ad annunci di ricerca di lavoro nel campo                     dell’assistenza alla persona

               Altro (specificare)

 

 

 

 

 

 


14.                  Ad oggi quante campagne informative sono state svolte?

 

 

 

 

 


15.                  Quante famiglie hanno risposto all’ultima campagna?

 

 

 

 

 


16.                  Quante famiglie sono state ritenute effettivamente idonee a ricoprire il ruolo di famiglia affidataria?

 

 

 

 

 

 


17.                  Quali sono i requisiti essenziali richiesti alla famiglia di accoglienza?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


18.                  È stata predisposta una scheda informativa relativa alla famiglia di accoglienza?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


19.                  Attualmente quante sono le famiglie che hanno in corso un affido? Da quanto dura ciascun affidamento?

 

 

 

 


                                                                                                                   

 

 

20.                  Quante sono attualmente le famiglie in stand – by? 

 

 

 

 

 

 


21.                  È prevista una modalità strutturata per mantenere un contatto con le famiglie selezionate ma non ancora utilizzate? (es. invio periodico di lettere, telefonate)

 

 

 

 

 

 

 

 


22.                  È previsto un corso di formazione per le famiglie affidatarie?

 

 

 

 

 

 


In caso di risposta affermativa:

 

·  Quanto dura il corso ?

 

 

 

 


·  Quali sono i contenuti e gli obiettivi di questo strumento?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


In caso di risposta negativa:

 

·  Pensa che un corso di formazione potrebbe essere utile oppure ritiene che non sia necessario per questo tipo di progetto?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


c) l’utente

 


23.                  Quali sono i requisiti della persona da inserire in famiglia?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


24.                  È stata predisposta una scheda informativa relativa alle caratteristiche dell’utente candidato all’affidamento?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


d) la famiglia di origine

 

25.                  La famiglia di origine dell’utente viene coinvolta nella realizzazione dell’affidamento?

 

 

 

 

 

 

 

 

 


26.                  Solitamente il nucleo di origine tenta di ostacolare la realizzazione dell’affidamento?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


27.                  Quali sono le difficoltà che emergono maggiormente nei rapporti fra il nucleo di origine e la famiglia affidataria?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


28.                  Quali sono gli interventi messi in atto per gestire questa conflittualità?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


3. il contratto

 

 

29.                  Quali sono le parti che sottoscrivono il protocollo d’intesa?

               Utente

               Famiglia affidataria

               Famiglia d’origine

               Gli operatori che si occupano del progetto

               L’eventuale tutore, curatore o amministratore di sostegno

 

 

30.                  È previsto un periodo di prova per consentire alla famiglia e alla persona di conoscersi reciprocamente? Quanto dura?

 

 

 

 

 

 

 


31.                  È prevista una copertura assicurativa per i danni recati dall’utente a persone e cose e per quelli da egli subiti (responsabilità extra contrattuale)?

 

 

 

 

 

 

 


32.                  Ogni famiglia affidataria può accogliere un solo utente o più d’uno? Illustrare le motivazioni della scelta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


33.                  A quanto ammonta il rimborso spese previsto per le famiglie? Attraverso quale modalità viene erogato? L’utente partecipa economicamente? In quali termini?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


34.                  Gli affidamenti realizzati dal vostro servizio sono:

               A medio – lungo termine

               A breve termine (da alcuni giorni a 2 mesi)

               A tempo pieno

               A tempo parziale (diurno, weekend)

               A tempo determinato e con obiettivi specifici

 

 

4. la realizzazione ed il monitoraggio

 

 

35.                  Descrivere sommariamente le tappe del percorso che conduce alla realizzazione di un affidamento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

36.                  Descrivere le attività di monitoraggio e di supporto alla famiglia ed all’utente. Indicare la frequenza delle visite domiciliari e degli incontri ambulatoriali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


5. la valutazione del progetto

 

 

37.                  In relazione agli esiti terapeutici dell’affidamento eterofamiliare, in quali aree si evidenzia maggiormente il miglioramento dell’utente?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


38.                  Quali sono le cause che hanno determinato con più frequenza l’interruzione di un affidamento?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


39.                  Esprima la sua opinione personale rispetto a questa tipologia d’intervento.

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

 

 

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§         ALUFFI G., CAGNONI L. (a cura di), Atti del 2° Convegno Nazionale sullo IESA, Ed. Alice nello Specchio, Lucca, 2001.

§         ALUFFI G., Quando una famiglia accoglie, in Animazione Sociale, Gruppo Abele, Novembre 2001.

§         ALUFFI G., La diffusion de l’Accueil Familial Thérapeutique en Italie, in Enveloppes Thérapeutiques, G.R.E.P.Fa. France, Paris, 2006.

§         Arrêté du 01/10/90.

§         Aslinsieme, Dal racconto diretto da parte di una famiglia pinerolese già affidataria di un paziente in disagio psichico, Gennaio 2006.  

§         BARTOLOMEI A. PASSERA A.L., L’assistente sociale – Manuale di servizio sociale professionale, CieRre, Roma, 2003. 

§         BERNARD KOUCHNER, Ministre délégué à la Santé, Journée mondiale de la Santé  5/04/2001.

§         BERNHEIM K., LEHMAN A., Come aiutare la famiglia del malato di mente, Astrolabio, 1987.

§         CAMARLINGHI R. (a cura di), Un matto in famiglia: intervista a Paolo Henry, in Animazione Sociale, Gruppo Abele, Marzo 1999.   

§         Code de l’Action Sociale et des familles, articles L442-1, L443-10,   L443-4, D442-2.

§         DAL PRA PONTICELLI M. (diretto da), Dizionario di Servizio Sociale, Carrocci Faber, Roma, 2005.

§         DE GIORGI L., Ontogenesi dello sviluppo psichico, Torino, 1992.

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§         Deliberazione del Direttore Generale ASL 10, n. 1449 del 16.12.1999, “Affidamento  eterofamiliare di utenti del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL 10”.

§         Deliberazione del Direttore Generale ASL 5, n. 2148 del 30.12.1998, “Avvio prima fase del programma di Inserimenti eterofamiliari supportati di adulti seguiti dal Dipartimento di Salute Mentale 5b”.

§         Deliberazione del Direttore Generale ASL 7, n. 0431 del 1.06.2006, “I.E.S.A.: inserimento eterofamiliare supportato di adulti sofferenti di disturbi psichici. Avvio progetto”.

§         DE MARTIS D., L’assistenza psichiatrica: un antico problema sempre d’attualità nella pubblica opinione, in De Martis D., Rampazi D., Sommi M., Vender S. (a cura di), La riforma psichiatrica: il linguaggio dei quotidiani, Franco Angeli, Milano, 1987.

§         Determinazione del Direttore Generale ASL 8, n. 263 del 14.12.1999, “Avvio programma sperimentale di Affidi familiari di paziento psichiatrici”. 

§         FERRARIO F., Il lavoro di rete nel servizio sociale, NIS, Roma, 1992.

§         FRICK B., CLERICI M., CARRÀ G., HINTERHUBER H., L’immagine sociale dellà malattia mentale, Franco Angeli, Milano, 1997.

§         FURLAN P.M., CRISTINA E., ALUFFI G., OLANDA I. (a cura di), Atti del 1° Convegno Nazionale sullo IESA, Ed. Alice nello Specchio, Torino, 2000. 

§         Legge 08.11.2000 n. 328, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali. 

§         Legge 12.02.1904 n. 36, Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati.

§         Legge 13.05.1978 n. 180, Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori.

§         Legge 18.03.1968 n. 431, Provvidenze per l’assistenza psichiatrica.

§         Legge 23.12.1978 n. 833, Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale.

§         MINISTERO DELLA SALUTE, Brochure campagna di comunicazione on line “Non è diverso da te. Curare i disturbi mentali si può”, www.ministerosalute.it, 3 dicembre 2004.

 

§         NEVE E., Il servizio sociale – Fondamenti e cultura di una professione, Carrocci Faber, Roma 2000.

§         Note d’orientation du 27/12/91.

§         Regio Decreto 16.08.1909 n. 615, Regolamento sui manicomi e sugli alienati.

§         SOLDI C. (a cura di), La malattia mentale, Di.A.Psi. Piemonte, Torino, 1995.

§         SERVIZIO STUDI CAMERA DEI DEPUTATI, L’assistenza psichiatrica prima e dopo la riforma: dati statistici, Dipartimento Socioculturale, Roma, 1984.

§         SOINS PSYCHIATRIE, La revue de tous les acteur du soin en santé mentale, n°225, mars/avril 2003.

§         STANZANI D., STENDARDO V., Le leggi dell’insanità mentale, in Diritto&Diritti - Electronic Law Review, Ragusa, Novembre 2001.

§         TAMAGNONE C., L’affidamento di persone con problemi psichici, sfida utopistica o possibile nodo di rete nella comunità locale, Tesi di Laurea in Servizio Sociale, Facoltà di Scienze della Formazione di Trieste, A.A. 2000-2001.   

§         WINNICOTT D.W., I bambini e le loro madri, Cortina, Milano, 1987.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RINGRAZIAMENTI

 

 

 

Il primo pensiero e ringraziamento va sicuramente agli operatori del Centro di Salute Mentale di Pinerolo, che mi hanno accolto con affetto  fin dal primo giorno di tirocinio e mi hanno insegnato che cosa significa lavorare in équipe e credere ogni giorno nel proprio lavoro.

Un pensiero affettuoso ed un ringraziamento speciale vanno in particolare alla Dr.ssa Gili Raffaella, supervisore, assistente sociale ed amica straordinaria.       

Ringrazio inoltre gli operatori dell’équipe affidi del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL 10, senza il loro lavoro l’idea di questa tesi non sarebbe nata.

Ringrazio la Prof.ssa Donatella Ravera che è stata prodiga di consigli teorici e metodologici essenziali per la realizzazione di questo elaborato.

Un grande ringraziamento a tutte le Assistenti Sociali che, con la loro disponibilità, hanno permesso la raccolta dei dati: Angela Ciambrone, Linda Terrasi, Stefania Verde, Annalisa Martina, Manuela Mellano, Antonella Candito, Elena Ruggeri, Maria Foti, Stefania Montalbano, Silvia Murdocca, Anna Maria Barbero, Marco Manganaro, Marisa Nigrone, Marta Allorio, Marisa Serra, Giuseppina Battaglia, Anita Gedruschi, Francesca Mattanza, Donata Quagliaroli, Claudia Romanetto, Simona Roatis, Margherita Abrate, Claudia Canale, Salomone Silvana, Sosso Mariateresa, Gabriella Sala, Patrizia Forin, Mazzarello Vittoria, Patrizia Biorci e Simona Siri.

Un ultimo sentito ringraziamento vorrei porgerlo ai referenti dei progetti di affidamento eterofamiliare che mi hanno dedicato tempo ed attenzione: Dr. Saverio Sileci, Dr. Gianfranco Aluffi, Dr.ssa Stefania Rossit, Dr.ssa Clelia Tamagnone, Dr.ssa Patrizia Franco, Dr.ssa Monica Ferrero.

Questo mio primo traguardo lo dedico ai miei angeli custodi, nonno Carlo e nonna Felicita, che hanno creduto in me fin dal giorno in cui sono nata. Sarete per sempre nel mio cuore.           



[1] Le notizie raccolte in questo capitolo sono tratte da Aluffi G., Dal Manicomio alla famiglia, Franco Angeli, Milano, 2001, pp. 34-44.

[2] Con la sigla DSM (Dipartimento di Salute Mentale) si intende l’assetto delle strutture proprie dell’assistenza psichiatrica delle ASL. Il DSM appartiene all’ASL e rappresenta la forma organizzativa che meglio risponde alle esigenze di garantire l’unitarietà della programmazione e della gestione delle attività in psichiatria e la pari dignità dei compiti operativi nelle diverse sedi di intervento.

  Ogni DSM, per poter assicurare tutte le attività di prevenzione, cura (compresa la risposta all’emergenza e al ricovero ospedaliero), riabilitazione e reinserimento sociale, adotta uno o più moduli-tipo, riferiti tendenzialmente a bacini di utenza non superiori a 150.000 abitanti, dotati almeno di:

-   una struttura territoriale, il centro di salute mentale (CSM), sede organizzativa del dipartimento, con attività ambulatoriali e domiciliari;

-   un servizio psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC), dotato tendenzialmente di un posto letto ogni 10.000 abitanti, collocato all’interno di ospedali generali e collegato organicamente e funzionalmente con gli altri servizi psichiatrici del territorio;

-   strutture per attività in regime semiresidenziale (centro diurno e/o day hospital) con la ricettività tendenziale di almeno un posto letto ogni 10.000 abitanti;

-   strutture residenziali (piccole strutture con non più di 20 posti letto) atte ad accogliere pazienti dimessi dagli ospedali e cosiddetti ”nuovi cronici”.

  Le Regioni determinano l’organizzazione dei DSM con riferimento alle suddette indicazioni, adeguandola alla specificità delle diverse situazioni locali (D.P.R. 7.04.1994, Approvazione del Progetto-Obiettivo Tutela della salute mentale 1994-1996). 

[3] Le notizie raccolte in questo capitolo sono tratte da Aluffi G., op.cit., pp. 121-126.

 

[4] Le notizie raccolte in questo paragrafo sono tratte da Aluffi G., op.cit., pp. 44-53.

 

[5] Le notizie raccolte in questo paragrafo sono tratte da Cébula J.C., in Atti 1° Conv. Naz. IESA, Torino, 2000.

 

[6] La tabella e le notizie delle quali di seguito si riporta la traduzione sono tratte dal sito francese www.famidac.net, portale ufficiale dell’associazione Famidac “Association des accueillants familiaux et de leurs partenaires”.    

 

[7] Le notizie raccolte in questo paragrafo sono tratte da Franke C., in Atti 1° Conv. Naz. IESA, Torino, 2000, pp. 39-55.

[8] I Servizi Tossicodipendenze (Ser.T.) si occupano delle problematiche legate alle dipendenze sia da sostanze illegali sia legali (alcol, farmaci, ecc.).

I Ser.T. si avvalgono del contributo integrato di tutte le discipline (psicologiche, sociali, educative e sanitarie) ed impostano programmi di recupero in collaborazione e coordinamento con le diverse realtà presenti nell'area del privato sociale.

[9] www.regione.piemonte.it/sanita/program_sanita/dip_salute_ment

[10] Aluffi G., Dal manicomio alla famiglia, Franco Angeli, Milano, 2001

 

[11] Le notizie raccolte in questo paragrafo sono state gentilmente fornite dalla Dr.ssa Gili Raffaella, Assistente Sociale presso il CSM di Pinerolo ed operatrice dell’équipe affidi del DSM dell’ASL 10.

[12] Le notizie raccolte in questo paragrafo sono state gentilmente fornite dal                Dr. Gianfranco Aluffi, Coordinatore del Servizio IESA del DSM 5b ASL 5 di Collegno, nonché tratte da Aluffi G., Dal Manicomio alla famiglia, Franco Angeli, Milano, 2001, pp. 114-121, e da Aluffi G., Cagnoni L. (a cura di), Atti del 2° Convegno Nazionale sullo IESA, Ed. Alice nello Specchio, Lucca, 2001. 

[13] Le notizie raccolte in questo paragrafo sono state gentilmente fornite dalla        Dr.ssa Stefania Rossit, Psicologa  Responsabile del progetto IESA del DSM dell’ASL 7.

 

[14] Le notizie raccolte in questo paragrafo sono state gentilmente fornite dalla Dr.ssa Clelia Tamagnone, Assistente Sociale presso il CSM di Chieri ed operatrice dell’équipe affidi del DSM dell’ASL 8, nonché tratte da Tamagnone C., L’affidamento di persone con problemi psichici, sfida utopistica o possibile nodo di rete nella comunità locale, Tesi di Laurea in Servizio Sociale, Facoltà di Scienze della Formazione di Trieste,   A.A. 2000-2001.    

 

[15] Le notizie raccolte in questo paragrafo sono state gentilmente fornite dalla        Dr.ssa Patrizia Franco, Assistente Sociale presso il DSM dell’ASL 18 ed operatrice dell’équipe affidi di tale dipartimento.

[16] Le notizie raccolte in questo paragrafo sono state gentilmente fornite da Saverio Sileci, Presidente della Cooperativa Sociale Alice Nello Specchio, nonché tratte da Furlan P.M., Cristina E., Aluffi G., Olanda I. (a cura di), Atti del 1° Convegno Nazionale sullo IESA, Ed. Alice nello Specchio, Torino, 2000; Aluffi G., Cagnoni L. (a cura di), Atti del 2° Convegno Nazionale sullo IESA, Ed. Alice nello Specchio, Lucca, 2001.

  

[17] Dal 1987 a Dane Country (USA), all’interno del Crisis Home Program, i pazienti vengono accolti in famiglia soltanto per il periodo della crisi. La durata dell’intervento nelle Crisis Homes, cioè l’accoglienza in famiglia, è assestata mediamente sui 3 giorni. Il fatto che il “ricovero” avvenga in ambienti familiari e non ospedalieri facilita e rende meno drammatico per il soggetto il periodo della crisi. A conferma di ciò, Russel Bennet, Responsabile del Crisis Home Program della contea di Dane, afferma che gran parte dei pazienti trattati con questo metodo si rivolge spontaneamente al servizio durante le fasi prodromiche della crisi, chiedendo di essere ospitati in famiglia per il periodo necessario (Aluffi G., op.cit.).

[18] Il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (S.P.D.C.), collocato all’interno di ospedali generali e collegato organicamente e funzionalmente con gli altri servizi psichiatrici del territorio, è il reparto ospedaliero nel quale vengono temporaneamente ricoverate, a seguito di crisi psicotiche, le persone che soffrono di disturbi psichici. 

[19] Le notizie riportate in questo paragrafo sono state gentilmente fornite dalla       Dr.ssa Monica Ferrero, educatrice professionale, Responsabile del progetto di affido familiare per soggetti tossico-alcoldipendenti del Ser.T. dell’ASL 21 di Casale Monferrato.