ONORANZE AL PROF. SEN. GIOVANNI MARRO
CAPO DI PONTE (VALCAMONICA) - 22 MAGGIO 1955
Il Comune di Capo di Ponte
allo Scopritore dei graffiti preistorici di Valcamonica
l'Istituto e Museo di Antropologia e di Etnografia
dell'Università di Torino
al suo Fondatore
gli Ospedali Psichiatrici di Collegno-Torino
al Medico e Direttore Generale
PROGRAMMA DELLE ONORANZE:
Ore 11 - Ricevimento al Municipio di Capo di Ponte
Ore 11,30 - Commemorazione del prof. sen. G. Marro
22 maggio 1955.
Il Comune ha voluto conferire all'eminente studioso piemontese la Cittadinanza Onoraria, in riconoscimento della fatica che Egli ha dedicato alla ricostruzione della civiltà degli abitanti preistorici della località e di tutta la Valcamonica.
Oggi l'opera Sua, che abbraccia In complesso cinque lustri, é più che mai conosciuta, studiata e valorizzata con grande impulso da ammiratori e da continuatori; e validamente ed efficacemente divulgata, reca lustro e decoro,al Comune di Capo di Ponte, con riflessi benefici sulla popolazione, che Lo ha amato e Lo onora quale insigne personalità del mondo scientifico italiano.
E’ per noi un grande piacere di poter conservarne da oggi l'effigie nel Municipio, anche per il valore ed il pregio artistico del medaglione in bronzo, opera dello scultore Virgilio Audagna di Torino, donato al Comune dalla prof. Savina Fumagalli, allieva prediletta del grande Maestro e continuatrice dell'opera del medesimo.
Rimane l'opera, rimane la memoria, resta imperitura la riconoscenza e la venerazione e soprattutto il proposito fermo di lavorare perché la fatica e la vita del sen. prof. Giovanni Marro sia sempre più conosciuta e apprezzata, conservando a noi e ai posteri il materiale e lo studio dell'illustre Scomparso.
L'affettuoso ricordo sia di conforto e di esempio al Discepoli, che vogliono continuare l'opera del primo tenace rievocatore e acuto interprete delle manifestazioni artistiche preistoriche della nostra bella Valle.
GIACOMO BONA Sindaco di Capo di Ponte
LO SCOPRITORE E ILLUSTRATORE DEL MONUMENTO PALETNOLOGICO CAMUNO
Il «sasso dei pitoti» era ab antiquo noto nell'alta Valcamonica e soprattutto a Cemmo e negli altri immediati dintorni. Nessuno vi aveva rivolto occhio indagatore o sol curioso; quando il prof. S. Squinabol lo indicava al prof. Giovanni Marro, lo scienziato che fondò l'Istituto di Antropologia dell'Università di Torino, e che, morendo nel luglio 1952, lasciò una copia di materiali antropologici ed etnologici tale da costituire un interessantissimo Museo, che ci auguriamo abbia presto a divenire proprietà dello Stato, secondo la liberale e benemerita intenzione dell'erede. Materiali in gran parte curiosissimi e preziosissimi, in copia e in scelta, da destare oltre la calda ammirazione, quasi un senso di sorpresa che una sola vita sia bastata ad adunarli. Si pensi, per ricordare qualche cosa di maggior valore, a un centinaio di scheletri prefaraonici che il Marro, che fece a suo tempo parte della famosa Missione Archeologica Schiaparelli, dissotterrò nella necropoli di Gebelen nell'Alto Egitto e a un mezzo migliaio prelevati nella necropoli dinastica della stessa località nonché in quelle di Assiut e nella Valle delle Regine: materiale che ancora attende un analitico studio.
Il «sasso dei pitoti», sasso dei fantocci, è un masso precipitato dalle pendici incombenti, affiorante da un terreno a vigneto a poche centinaia di metri dall'abitato.
Era conosciuto, e da ciò il nome, per certe curiose figure che, con un po' di buona volontà, sono ben riconoscibili per cervi, caprioli, stambecchi, lupi ed altra fauna. Fu una grande fortuna quella segnalazione al Marro, che fu conquiso e dedicò gli ultimi parecchi lustri della Sua vita a quello che doveva apparire, rivelarsi un grandioso complesso: il Monumento paletnologico Camuno.
Sulla superficie di spacco dei « Pitoti» è l'iconografia di un emporio faunistico su un'area di quasi tre metri per due: un centinaio di animali, ottenuti per regolare e minuta picchiettatura, irregolarmente disposti, oppure raccolti in serie verticali affrontate; affascinante la serie dei cervi e quella dei cinghiali e dei lupi, affrontate; nessuna figura d'uomo: però presente la sua azione in pugnali quasi sospesi e volanti, dalla tipica forma halstattiana, diretti verso l'una o verso l'altra serie degli animali, taluni già sul corpo delle vittime.
Un secondo masso, di minori dimensioni, era finito, per i lavori agricoli, nascosto sotto il terriccio; messo allo scoperto rivela un magnifico simbolo solare, dominante la restante istoriazione che comprende anche suggestive scenette agricole, una con il carro e l’altra con l’aratro tirato da una coppia di buoi. In questo secondo masso i pugnali sono rappresentati in una con gli uomini che li lanciano.
Il Marro fece le prime dotte e illustrate comunicazioni nel 1929 alla Società di Antropologia di Roma, facendovi seguito immediato una memoria, parimenti illustrata, all'Accademia delle Scienze di Torino.
La ricchezza delle prime indagini indusse il Marro ad estendere le ricerche; giudicava che non poteva trattarsi di un fatto, di un prodotto singolo: troppo caratteristica, troppo complessa, troppo rifinita, la scena, e pur la tecnica e il contesto, che si è indotti a cercarvi.
Su ampie distese di rocce, tipicamente levigate e striate dal grande ghiacciaio camuno, sulle massicce pendici dei due lati della valle, sulle quali si ergono, sopra l'abitato, la dentata Concarena, e di faccia, l'imponente mole granitica del Badile camuno, sono un succedersi di scene di vita reale, di caccia, di guerra, di pesca, di culture dei campi, di iniziazione magica, con chiare belle capannette su palafitte.
Quando al Marro apparvero le palafitte, e poi le barche, le pagaie, Egli giustamente, vorrei dire genialmente, pensò che non potevano essere frutto di immaginazione: si volse a conoscere a quale origine si potesse ricondurre questo complesso di figurazioni, che diremmo di ambiente acqueo: e, volgendosi a tutte le fonti, trovò che fin dal secolo scorso geologi bresciani, il Rosa e il Cozzaglio, avevano trattato del bacino di Cemmo come già occupato da palude; perché nei tempi post-glaciali tutta la valle superiore dell'Oglio doveva ritenersi come un succedersi di raccolte di acqua. Queste notizie fecero talmente esultare il geniale antropologo che si è soffermato, direi preoccupato, davanti a quelle figurazioni, che ora gli apparivano anch'esse come null'altro che una fedele rappresentazione dei mondo locale da parte degli uomini dell'età del ferro.
Il Marro, scienziato nel senso profondo della parola, cercò di salire a ritroso le vie della popolazione, e trovò, fra l’altro, che solo sul secolo decimo il Cristianesimo scacciò del tutto il paganesimo dalle Alpi Camune: il paganesimo dei pagi montani, con riti, con sacrifici anche umani.
Su questa stessa rivista lo scrivente ha in altri tempi, nella sua incompetenza, pur osato abbozzare un'ipotesi: nella vicina finitima valle dell'Adda, sulle pendici ridenti e solatie di Montagna,di Tresivio, di Teglio, furono trovate iscrizioni, una splendida pietra tombale, con caratteri etruschi: quel pendii si stendono, volti a pien meriggio, dallo sbocco di una delle maggiori convalli dell'Adda, la Val Malenco, che ha alla sua testata il più facile, il più breve, il meno arduo dei valichi, che immette sull'origine del gran bacino dell'Inn, affluente del Danubio. L'ipotesi era concretata in questo: che per quanti, e son molti e autorevoli, che non accettano un arrivo per mare della misteriosa gente etrusca, che invece parrebbe venuta per lontani itinerari dal continente, il Danubio, l’Inn, il Passo del Muretto, la Val Malenco, l’avrebbero condotta su quelle pendici che ora, laboriosamente sudate, producono i famigerati vini di Grumello, Inferno e Valgella. Ai competenti il vaglio e ancor più l'indagine se i Camuni incisori di rocce levigate avessero rapporti di dimestichezza con gli Etruschi della Valtellina: la quale, diciamo a chiusa, era sbarrata al suo sbocco dal grande bacino del Lario, a sponde precipiti, poco probabili da risalire da genti venienti per decine di miglia dal meridione, onde insediarsi lassù, su le ora vitifere pendici.
Il Marro, a cui lo scrivente ne aveva parlato, in un suo lavoro ha un accenno alla pietra tombale di Tresivio.
Il Marro pubblicò dense monografie, con la cura di ricordare, nominandoli in scrupoloso ordine cronologico, quanti in tempi vari abbiano contribuito alla illustrazione del monumento camuno, sono più di una trentina le pubblicazioni del compianto antropologo torinese, tutte in grande formato e con ampia illustrazione iconografica.
Oltre quelli del Marro sono comparsi altri scritti sul monumento camuno con diversa impostazione, di sostanza e di forma.
E un merito di altro genere ebbe il Marro, che pure era di opinioni assai ortodosse; nel 1936, difese da una invasione di tedeschi, presentatisi come turisti, che avevano con tedesco metodo iniziati rilievi e pur fatto alcune pubblicazioni sulle iscrizioni di Cemmo; nel periodico del Consiglio Nazionale delle Ricerche mise, con precisione, le cose a posto di quanto quei signori avevano ricalcate e plagiate.
Ora, il progresso scientifico dell'Istituto di Antropologia di Torino è affidato alla allieva del Marro, Prof. Savina Fumagalli, che si è proposta e sta continuando l'opera di illustrazione del monumento paletnologico camuno: la Fumagalli ha, fra l'altro, ideato e attuato un suo personale metodo che le consente di trarre stupendi calchi delle incisioni rupestri, alcuni dei quali stanno per essere esposti nelle sale del Museo Nazionale della Montagna del Club Alpino Italiano.
I vecchi conoscitori delle pubblicazioni del C.A.I. ricordano le belle contribuzioni che per l'iniziativa, la tenacia e l'intelligenza di uno studioso britanno, il Bicknell, vennero a quell'altro complesso di incisioni, così lontane geograficamente, il Monte Bego e il bacino detto ben propriamente delle Meraviglie delle Alpi Marittime. Il Bicknell, con tenace appassionato fervore, illustrò e cercò di interpretare le migliaia di incisioni su roccia, diverse dalle camune, ad altezza sopra i 2ooo metri, che fanno sostare, come quelle camune, pensieroso e raccolto ogni visitatore delle Alpi che rechi sempre con sé, e aperto, il bagaglio dello spirito.
Lo scrivente, che è dell'antica Rezia, volge il pensiero a quei lontani progenitori, di molte decine di secoli, che, per generazioni e generazioni, incidendo al sole le rupi camune, in una luminosa mistica ansia del bello, trasmisero indelebile il grande monumento della loro spiritualità. Erano quegli antichi, i progenitori di quei fieri valligiani, “Gens que virum truncis et duro robore nata” di Virgilio, della Valle Camonica e della finitima Alta Valtellina, che resistettero a lungo alla forza di Roma che per molto tempo li riconobbe autonomi, che inflissero ancora alle coorti di Augusto terrificanti carneficine. Strabone e Plinio li ricordano!
E lo scrivente ancora non può tacere il compiacimento di avere, or son parecchi decenni, dato ausilio al Collega Marro a fondare quell'Istituto di Antropologia dell'Università di Torino, donde s'è alzata la fiaccola che ha illustrato i «Sassi dei Pitoti».
Prof. ALFREDO CORTI
Direttore dell'Istituto di Anatomia Comparata nell'Università di Torino
(Estratto dal “Club Alpino Italiano”, Rivista Mensile, Torino, 1955).
PER L'ANTROPOLOGO E L'ETNOLOGO
La figura di Giovanni Marro è, come la Sua opera, poliedrica e multiforme, abbracciando più rami del sapere. Base essenziale e fondamento di tutto è l'antropologia.
Secondo la concezione formatasi verso la metà del secolo scorso, l'antropologia è la scienza generale dell'uomo; e, come tale, ne studia gli aspetti vari e diversi, fisici e morali, singoli e collettivi, dalla costituzione alla conformazione, dai sentimenti alle passioni, dalle costumanze all'attività e alle istituzioni. Scienza complessa va dall'anatomia alla fisiologia e alla psicologia, dalla storia alla paletnologia e all'etnografia principalmente, per costruire la visione dell'essere umano nel tempo e nello spazio, nel suoi esordi e nei-suoi progressi.
Partendo da tale concetto, che è logico ed umanistico insieme, il Marro distinse la Sua disciplina in due grandi settori, di cui uno riservato alla somatologia nel significato più ampio del termine, e l'altra alla culturologia, nel complesso delle varie indagini che la interessano, dallo studio dell'esiste-nza primitiva a quella delle tradizioni popolari.
Lavorando nell'un campo e nell'altro, Egli ne fece risaltare i rapporti, mettendo a profitto le indagini di un settore nell'altro, e scrivendo pagine meravigliose, che spesso contengono questioni e problemi interessantissimi. Basti pensare al suoi studi sull'Egitto, ove accompagnò lo Schiaparelli nella Missione Archeologica, con speciale riguardo all'Antropologia degli antichi sudditi faraonici; a quelli sulle incisioni rupestri degli empori preistorici della Valcamonica e del Monte Bego, che sono luminosi per la conoscenza paletnologica delle più antiche civiltà alpine, a quelli sull'Italia dal punto di vista etnografico e folklorico e agli altri sull'Africa, sull'America, sull'Asia e l'Oceania.
La visione della Sua scienza è vasta e molteplice. E lo dimostrano oltre gli scritti, che sono, innumerevoli, anche le istituzioni da Lui fondate e promosse. A Torino, ove insegnò da titolare Antropologia nell'Università, creò l'Istituto Antropologico, con due Musei, uno per l'Antropologia e l'altro per l'Etnografia, per non dire del terzo Paletnologico, che è inserito tra l'uno e l'altro. I vari Musei, in sostanza, ne rappresentano uno solo, data l'idea di concepire la scienza antropologica come la storia naturale dell'uomo, considerata in tutti i suoi aspetti e caratteri, interni ed esteriori.
Non è possibile intendere l'opera di questo grande studioso, che il Piemonte onora, senza tener presente i vari campi illuminati dal Suo pensiero, i diversi orizzonti e differenti panorami da Lui indagati o percorsi con l'acuto occhio, nell'intento di ricostruire scientificamente la storia dell'umano incivilimento. Figlio di quell'Antonio Marro, che gareggiò col Lombroso per la genialità e la struttura delle Sue opere, Giovanni Marro ascese a più alti fastigi nella scienza, che percorse e dominò da Maestro.
Prof RAFFAELE CORSO di Etnografia nell'Istituto Orientale di Napoli
La signorile casa del compianto cav. Giovanni Murachelli che sorge in Cemmo nella piazza intitolata al pittore Pietro Giovanni accanto alla canonica costruita dal cardinale Durante Duranti, quando, prima di indossare la porpora era Arciprete Vicario Foraneo Parrocchiale di Cemmo, fu, per vari anni, dal 1929 in poi, l'accogliente asilo del senatore Giovanni Marro durante le campagne di ricerche, esplorazione e studio delle rocce preistoriche istoriate della zona Cemmo, Capo di Ponte e dintorni.
A Cemmo il prof. Senofonte Squinabol, pure dell'Università di Torino, soleva passare il periodo estivo presso il cav. Murachelli, il cui primogenito, dott. Giuseppe, aveva sposata la figlia dott. Silvia. Fu lo Squinabol a segnalare al prof. Marro l’esistenza dei massi di Cemmo, localmente conosciuti come «balocc dei Pitote» (pupazzi). Si sapeva in paese della loro esistenza, ma nessuno vi attribuiva valore, tanto che proprio alle pareti istoriate i contadini continuavano ad addossare i detriti e i rifiuti dei campi.
Il lavoro del Marro, diretto a liberare i massi dal materiale accumulatovi, fu seguito più con curiosità che con interesse: localmente nessuno, meno la mente divinatrice del Marro, valutava l'importanza della scoperta, che doveva far conoscere a tutto il mondo, nei congressi scientifici, i nomi di Cemmo e Capo di Ponte.
La geniale intuizione dello Scienziato che i massi arcaici di Cemmo non fossero gli unici istoriati, ebbe presto clamorosa conferma nella scoperta, sui due versanti della valle, di altre rocce portanti migliaia dei più svariati disegni.
Cosi dopo aver rimesso in luce, illustrati in Memorie e Note varie, i due massi di Cemmo, iniziò l'esplorazione della zona. Come guida ed accompagnatore si scelse il defunto Giuseppe Amaracco, del luogo, il quale, per essere stato guardia boschiva comunale per vari anni, era pratico della località e particolarmente indicato allo scopo. All'Amaracco si affezionò, restando amareggiato alla notizia della di lui morte.
Le giornate di Cemmo erano fervide di feconda attività. Di buon mattino, provvisto di macchina fotografica, col fido accompagnatore che nel sacco da montagna portava la colazione quando prevedeva di non poter rientrare per il pranzo, lasciava il paese. Aveva passo lento e misurato e l'occhio attento ad ogni particolarità del terreno. Per quanto parco di parole era affabile con tutti, e mai sazio di conoscere: si intratteneva bonariamente con contadini e boscaioli che incontrava, interessandosi a tutte le notizie di carattere locale riguardanti storia, leggende, folklore. Nella Sua vasta mente avveniva il lavoro di sintesi, per cui dalle varie minute e piccole notizie risaliva a millenni addietro ricreando l'ambiente nel quale gli antichi abitanti della valle scolpivano sulle rocce il sole, l'uomo e l'aratro da primitivi quali erano, con gli stessi segni dei ragazzi nei primi tentativi di espressione grafica. Alla sera nel salotto di casa Murachelli era interessantissimo il Suo conversare che spaziava ecletticamente da argomento ad argomento, dimostrando una coltura veramente eccezionale. Motivi preferiti dai presenti erano, naturalmente, quelli interessanti la Sua attività scientifica: la scoperta dell'epistolario del Drovetti, rintracciato casualmente in una cassa abbandonata; le pubblicazioni fatte per conto della Casa Reale d'Egitto, le campagne di esplorazione del deserto egiziano con lo Schiaparelli; le collezioni etnologiche ed osteologiche del Suo Museo; i mobili, quadri ed oggetti d'arte da Lui amorosamente rintracciati e raccolti; la Sua attività quale Direttore del Manicomio di Collegno e degli altri Istituti neurologici di Torino; il parere Suo, decisivo agli effetti del giudizio dell'Autorità Giudiziaria, sullo smemorato che si attribuiva la personalità del prof. Canella; dolci ricordi del Padre medico e scienziato insigne nell'alpestre Limone Piemonte; rimembranze di vita militare nei cui ranghi, rarissimo fra gli ufficiali di complemento, raggiunse il grado di generale. Come era profondo nei campi del sapere altrettanto si manifestava, ed era, semplice e modesto. Quando, mancato il cav. Murachelli, ed assente la Famiglia. non poté goderne l'ospitalità, scelse a Capo di Ponte la trattoria Mai, locale pulito, ma modestissimo. Durante la guerra, scarse essendo le comunicazioni ferroviarie, non disdegnava servirsi della bicicletta, e chi scrive ricorda ancora lo stupore e la sorpresa del compianto storico camuno don Alessandro Sina, quando lo vide arrivare ad Esine, alla restaurata chiesa di S. Maria decorata da Pietro Giovanni da Cemmo, col popolare mezzo di trasporto. Lavoratore infaticabile si adattava anche a lavori manuali: così si prodigava personalmente alla ripulitura delle rocce dal muschio e dai licheni e al rilievo dei calchi; così non appena rientrato si chiudeva in stanza per lo sviluppo e la stampa delle fotografie, tardando anche notevolmente a mettersi a tavola. Conscio dell'importanza delle scoperte interessò il Ministero per una protezione dei due massi di Cemmo; ciò che fu fatto a mezzo di due tettoie di legno, ormai inesistenti per l'usura del tempo e per gli abusi degli uomini. La personalità del Marro umanista - fatta di profondità di studi, di umana comprensione, di bontà d'animo - ebbe scintille polemiche quando studiosi d'oltre Alpe vollero intrapporsi nelle ricerche e negli studi di quello che riteneva, giustamente, il campo di Sua specifica attività per diritto di intuizione, di scoperta e di valorizzazione. La esplorazione nella zona per il rintraccio di altre rocce istoriate non si limitava al periodo di Sua permanenza in Valle, ma proseguiva tutto l'anno a cura dell'Amaracco, al quale il Marro, di tasca sua, pagava le giornate. Sulla base delle annotazioni e degli schematici disegni del ricercatore, alla Sua venuta estiva formulava il Suo piano di attività. Forse non può dirsi che il Senatore sia stato veramente popolare nella zona: troppo astruso, per i più, il Suo studio e troppo alto lo scopo. Era conosciuto, riscuoteva larghissima stima, ed era amato dalla gente di ogni condizione che aveva la fortuna di avvicinarlo. La sua persona alta, ben formata, dal sereno sguardo penetrante e dalla fronte altissima, noi che ben lo conoscemmo, vediamo ancora aggirarsi nei prati, pascoli, terreni aridi e rocciosi, e curvarsi sulle nostre rocce violacce a rimuovere il muschio, a ripulire dal terriccio, nella ricerca di un segno, di una lettera sconosciuta degli idiomi di genti trapassate, che furono i nostri antenati: e in questo atteggiamento lo vediamo circondato di un alone di luce - cui si accompagna la nostra riconoscenza - per aver scoperto e generosamente donato ai Camuni i documenti delle loro nobili origini.
G. B. BELOTTI già Segretario del Comune di Capo di Ponte
Tocca allo scrivente di queste righe, che fu già Suo modesto collaboratore e poi continuatore dell’opera Sua come Direttore di Ospedale, rievocare la figura di Giovanni Marro nel campo psichiatrico. Si deve al fatto che gli studi Suoi nel campo dell'antropologia, dell'etnologia e dell'archeologia ebbero tale risonanza da offuscare ogni altra Sua attività, se Marro come psichiatra è assai meno noto di quanto meriterebbe di esserlo. Egli è, infatti, ricordato come uno dei più illustri fra i medici che dettero la propria collaborazione agli Ospedali Psichiatrici di Torino.
Laureatosi in medicina nel 1900, Giovanni Marro, dopo qualche tempo, passato frequentando cliniche ed istituti scientifici in Italia ed all'estero, venne nominato medico degli Ospedali Psichiatrici di Torino (allora denominati «Regio Manicomio di Torino»). Avendo Egli ben presto messo in evidenza la propria predilezione per la criminologia e l'antropologia, Gli venne affidata la conduzione del reparto criminali dell'Ospedale di Collegno, dove Egli ebbe occasione di fare un gran numero di osservazioni in tema di antropologia criminale e di redigere molte perizie psichiatriche, che rimarranno sempre come pregevoli saggi di osservazioni cliniche e di apprezzamenti medico forensi, fatti a vantaggio dell'Amministrazione della Giustizia.
Nel 1907 venne affidata a Giovanni Marro la direzione del Laboratorio di anatomia patologica dell'Ospedale di Collegno, che Egli tenne sino al giorno in cui lasciò il servizio e Gli diede occasione di compiere molte centinaia di autopsie, di cui alcune particolarmente interessanti divennero oggetto di pubblicazioni.
Il 1° giugno I937 Giovanni Marro, in seguito a Concorso Nazionale, venne nominato Medico Direttore degli Ospedali Psichiatrici di Torino, carica che poi abbandono di Sua volontà il 1° agosto 1940, per la Sua entrata nei ruoli universitari, quale titolare della cattedra di Antropologia nell'Ateneo torinese.
Si può dire che l'opera di Giovanni Marro come psichiatra fu la degna continuazione di quella del Padre Suo, l'indimenticabile Antonio Marro, che fu il primo a ricoprire nel Manicomio di Torino la carica di Medico Direttore, che era stata istituita dalla Legge sui Manicomi e gli Alienati del 1904-
L'acuto occhio clinico, il profondo spirito scientifico e la grande cultura psichiatrica e medica generale, fecero di Giovanni Marro uno dei migliori campioni di quella schiera di medici che tennero alta la bandiera della psichiatria nei primi decenni di questo secolo, dimostrando con i fatti come Scienza ed Umanità sappiano ben unirsi e collaborare per il bene dell'infermo di mente.
Anche le pubblicazioni scientifiche di Giovanni Marro su temi di psichiatria sono da considerarsi come particolarmente pregevoli, anche se, messe in rapporto con la rimanente massa della Sua produzione scientifica, costituiscono un insieme relativamente modesto come numero.
Prof CARLO FERRIO Docente di Psichiatria nell'Università di Torino
Forse a pochi, al di fuori dei ristretto gruppo degli amici della Società di Archeologia e delle Belle Arti di Torino e di quella Storica di Cuneo, era noto l'amore veramente commovente che legava il professore Giovanni Marro alla sua terra ed alle testimonianze della sua storia, della sua arte.
Questo amore Lo spingeva a ricercare con paziente tenacia gli oggetti più disparati, nascosti nelle vecchie case della Sua Limone od a scovarli in altri luoghi dei Piemonte, di sicura provenienza dalle valli del Cuneese, per acquistarli e per raccoglierli con amorosa cura nella Sua casa. Là dovevano restare in attesa di trovare la loro definitiva sistemazione in quel Museo che Egli voleva creare nella Sua città natale, a cui, fin dal momento dell'acquisto, aveva stabilito di donarli.
Lo scopo ben preciso era di lasciare a quel piccolo Comune di confine qualche documento del suo passato, rappresentato dall'attività artigiana e dagli oggetti d'arte creati in quella località, spogliata di quasi tutti i suoi arredi emigrati all'estero fin dal secolo scorso.
Oggetti più disparati ripeto: da quelli folkloristici di cui ha raccolto 40 bastoni da pastore intagliati, dagli scialli e dalle coperte, filati e tessuti dalle contadine del luogo, alle 70 chiavi e serrature dei fabbri della valle del Gesso, dal vasellame di peltro costituito da circa 60 pezzi a molti oggetti in ceramica, in vetro, in metallo.
Le armi raccolte nei dintorni di Limone sono circa 80 e quasi nella totalità medioevali.
Notevoli sono alcuni mortai dei secolo XVI, alcuni mobili intarsiati del '700, sedie intagliate a motivi geometrici, cofanetti, diversi mobili che serviranno a ricostruire una camera da letto ed un tinello, oltre a un gruppo notevole di cristalli di Chiusa Pesio e di porcellane di Vinovo.
Da segnalare fra i rilievi in marmo, i Santi Cosma e Damiano provenienti da San Damiano Macra, del secolo XV; e fra le numerose sculture lignee una bella Vergine dello stesso secolo.
Questa collezione, che la città di Limone ha accettato in dono per costituire un Museo di arte e di artigianato locale, che porterà il nome di Giovanni Marro, ricorderà ai posteri, riconoscente, il generoso Scienziato che, durante i Suoi viaggi per lo studio dell'antropologia attraverso l'Europa, l'Africa e l'Asia, aveva pur sempre l'animo rivolto alla sua terra ed alla sua storia, per la quale, a prezzo di notevoli sacrifici, raccolse gli ultimi oggetti a documentare le epoche passate.
Dott. NOEMI GABRIELLI Soprintendente alle Gallerie per il Piemonte
La prof. Savina Fumagalli, quest'anima squisita che del prof. Giovanni Marro fu per tanti anni la devota, intelligente collaboratrice nell'Istituto e Museo di Antropologia e di Etnografia dell'Università di Torino e che ora è la degnissima continuatrice dell'Opera creata dal Suo Maestro, m'invita a dire anch'io qualcosa di Lui su questo numero unico dedicato alla Sua memoria.
Scrivo del prof. Giovanni Marro col ricordo commosso di questo mio grande compaesano che volle onorarmi della Sua amicizia e che fu uno degli spiriti rari dell'umanità per la dedizione ch’Egli fece di tutta la Sua esistenza alla Scienza, a cui si era votato, per la semplicità della sua vita, che non conobbe mai la superbia anche se fu onusta di meriti e di altissimi riconoscimenti.
Veniva dal ceppo che più ha illustrato il nostro paese natio, al quale Egli. come il suo grande Padre, come i suoi Fratelli, rimasero sempre affettuosamente legati, anche vivendone lontani.
Del limonese, il cui dialetto rude e curioso non tralasciò mai di parlare nei suoi rapporti coi familiari e coi compaesani, aveva conservato il carattere in quella scorza di riservatezza un po' selvatica, che lo faceva nemico delle blandizie ed alieno dall'esprimere facilmente i moti interni, pur avendo, sotto quella scorza, un animo poetico e sensibilissimo.
Il Suo affetto per il paese natio trasfuse in alcuni Suoi pregevoli lavori quali gli “Inediti Statuta loci Limoni nei rapporti con l'etnografia” pubblicati nelle Memorie dell'Accademia delle Scienze di Torino, di cui era membro autorevole; “La contea di Tenda” (Tenda, Briga, Limone e Vernante); “Antichi monumenti lapidei di Limone”; “Antico e prezioso quadro del Municipio di Limone”, ed altri, dei quali uno mandato alle stampe negli ultimi mesi di vita.
Ho riletto recentemente questi Suoi lavori, che Egli probabilmente concepì durante i brevi riposi estivi limonesi, riportandone, come già alla prima lettura, l'ammirata impressione suscitata dalla profonda facoltà d'indagine che il Nostro sapeva rivelare in ogni studio col compendio di una prosa chiara, robusta, non priva di lirismo, piena di comunicativa.
Quale altro mai, senza quella passione per l'indagine che il professor Marro possedette in somma misura, avrebbe avuto la tenace pazienza di ricercare sotto la montagna di vecchie carte di quell'archivio comunale, i famosi “Statuta loci Limoni” risalenti al XVI secolo, di decifrarli, di studiarli e di comporre un'opera di notevole interesse storico scientifico?
In quell'opera che, fra quelle che si possono classificare limonesi, è la più importante, è tracciata con mano maestra la storia di quel lembo di terra delle Alpi Marittime e della Sua gente attraverso i tempi.
La penetrazione greca in quella valle sarebbe addirittura da ricercarsi, secondo il prof. Marro nell'etimo del nome stesso del paese, che deriverebbe dalla parola greca “leimon”, in latino “limo”, che indica precisamente luogo umido, erboso come prato, pascolo di cui abbonda la conca limonasca.
Era così convinto che da quell'etimo «limo» discendesse il nome del paese, che in altro Suo lavoro: «Antichi monumenti lapidei di Limone», il prof. Marro identifica in due stemmi uguali, collocati in due diversi monumenti lapidei di Limone - uno nella chiesa parrocchiale, un altro all'estremità inferiore del paese (arsun dla villa, secondo l'espressione dialettale), raffiguranti tutti e due tre felci quercine, unite a cespo in tondo, divergenti nelle punte, l'antico stemma di Limone, simboleggiante luogo umido, erboso, fertile; e perciò molto più significativo dello stemma attuale del Comune.
La scoperta degli antichi Statuti di Limone permise, altresì al prof. Marro di descrivere in un altro interessante lavoro, il significato pittorico e storico di un quadro antico e prezioso, che pende da tempo immemorabile da una parete della Sala Consigliare di Limone. Con dovizia di particolari Egli è in grado di affermare che il quadro stesso, risalente alla metà del secolo XVI, rappresenta la contessa Anna di Tenda e il figlio Claudio, sotto il cui feudo era compreso il borgo di Limone-, è, pertanto, un quadro di notevole importanza storica, tale da ben figurare nella sede comunale di Limone.
Al paese natio il prof. Giovanni Marro, già in vita, aveva destinato le Sue ricche e copiose raccolte archeologiche, frutto di decenni di appassionate ricerche.
Sognava di poter concludere la Sua feconda giornata con la soddisfazione di saper ben collocato, in pubblico museo limonese, il frutto di questa Sua lunga fatica. La morte Gli ha stroncato quel sogno; ma dev'essere un impegno dei suoi compaesani, specie dell'Amministrazione Comunale di Limone, di tradurre presto questo Suo sogno in una postuma realtà.
In una biografia di Suo Padre che avevo fatto per un giornale di Cuneo, sotto la rubrica “Galleria dei Cuneesi illustri”, che Giovanni Marro aveva gradito, scrivevo che, per quanto ci si creda poco campanilisti, vivendo abitualmente lontani dal proprio paese natio, sentiamo tuttavia, e forse in misura maggiore di chi accanto al campanile vive abitualmente, il motivo dell'orgoglio paesano, coi sentimenti di particolare devozione gelosa che si hanno per le cose nostre, per le glorie nostre- quando ci accostiamo allo spirito dei nostri grandi compaesani.
Giovanni Marro fu uno di questi. Fra i tanti doni che Egli possedette, l'essenziale fu quello di credere profondamente alla verità della Scienza. Poteva essere un medico di successo, specie nel campo delle malattie nervose, data la Sua profonda preparazione; preferì al vantaggi economici della professione lo studio senza fine, la bellezza dei lavoro creativo. E lo attestano le duecento opere chi Egli elaborò, spaziando lo scibile scientifico.
È con senso di viva riconoscenza che i Suoi compaesani e gli amici guardano alla generosa popolazione di Capo di Ponte, in quella suggestiva Valcamonica, che, come magistralmente scrisse la prof. Savina Fumagalli, “lo vide per tanti anni arrampicarsi sui fianchi scistosi della valle e pulire pazientemente e delicatamente la roccia violacea dai muschi abbarbicati, per mettere in luce figurazioni e scene, a testimonianza di una antichissima civiltà autoctona” volle eleggerlo suo Cittadino Onorario fin dall'aprile 1952 e che si appresta a tributare alla Sua memoria le affettuose onoranze, che non poterono essergli tributate in vita.
Ma fu, forse, l'avvenimento che dovette toccargli più profondamente il cuore.
TOMMASO TOSELLI Limone Piemonte.
Lo conobbi all'Istituto di Antropologia, nella vecchia (e poco decorosa) sede di palazzo Carignano: pochi allievi, attorno ad un lungo tavolo: alle pareti, vetrine con lunghe teorie di crani bianchi; un po' di delusione.
Ma il modo cordiale e semplice con cui si presentò il Professore, quel mettersi tra noi, come fino allora con altri professori all'Università non ci era accaduto; quell'entrare direttamente, senza preamboli, nel vivo dell'argomento, sgelò subito l'ambiente. Notammo, poi, come la materia d'insegnamento procedesse rapidamente, anche se in apparenza sembrava di essere allo stesso punto per parecchie lezioni: ciò era dovuto alla lucidità minuta dell'esposizione, che non lasciava posto a pieghe nascoste nell'argomento trattato.
Non mancarono allievi che, incerti se scegliere la materia tra le facoltative, apparvero poche volte: ma gli altri furono assidui, proprio perché godevano della limpida e sicura esposizione del Docente.
Non ricordo come Gli dissi che desideravo fare la tesi con Lui: nella vita, sovente, proprio alcune cose importanti (o quasi) ci sfuggono, ma una cosa è viva nel mio ricordo, anche perché ripetutasi in circostanze analoghe: quando gli proposi un certo mio argomento, forse un po' ambizioso, come accade a tutti i principianti, mi stette a sentire e mi lasciò libero: avrei dovuto riferire, quando avessi avuto qualcosa fra le mani.
Fu questa una buona lezione, che mi veniva (lo compresi poi) dalla Sua vita di lavoratore, a cui nulla è vietato nell'intenzione, nell'impegno, nel tentativo, anche se poi la realtà suggerisce o di cambiar tattica, od anche di lasciare un certo tema.
E mi propose, quando si dimostrò impossibile il mio, un Suo argomento, ma, di nuovo, mi lasciò libero; in realtà me ne propose due, facendomi notare la poca consistenza dell'uno. Dovevo lavorare e finché non ebbi qualcosa da presentargli, quasi mai ne parlammo.
Se mi consigliò libri, se mi suggerì di cercare in questo o in quel luogo, e mi presentò a Colleghi ed a Biblioteche, mi lasciò solo nel compilare il lavoro, dandomi questa lezione di vita.
Ebbe la bontà (e mi stupì le prime volte) di discorrere con me dei suoi lavori: anche in questo Maestro, perché mi insegna che è saggio esporre ad altri il frutto del proprio lavoro: ma che non è bene far perdere tempo, fosse pure ad un allievo, se non si hanno cose da dire, quando le idee non sono ancora maturate dalla personale fatica della ricerca scientifica.
E pretese il lavoro: approvò, ma non lodò il ben fatto: fu, invece, schietto e severo nel disapprovare; come faceva con sé medesimo, con i Suoi lavori, continuamente ripresi e ritoccati.
Potrebbe sembrare che non fosse un uomo cordiale, affabile, o che facesse valere la Sua posizione: non sarebbe esatto un tale giudizio. Era riservato, un pò schivo, assorto in sé, ciò in parte dovuto alla debolezza di udito: ma verso chi ebbe con Lui maggior vicinanza fu aperto, gentile d'animo, sotto un velo di rudezza cortese nei modi. Col passare degli anni, crebbe in me per Lui la stima dell'uomo e dello studioso, ed Egli mi concedette, bontà sua, una più larga e, vorrei dire, affettuosa consuetudine.
Fu sereno nella vita, che pure sapevo non lieta: la responsabilità delle mansioni a cui fu preposto Lo tenne impegnato, ed Egli rispose con grande animo all'impegno, conscio più del Suo dovere, che della forza potente del Suo ingegno; ed in semplicità dette intelletto e volontà a quello che doveva fare ed a quello che volle fare.
La Sua versatilità non fu dilettantismo: si rammaricò a volte che, in argomenti a Lui ben noti, altri si fosse comportato più da dilettante che da studioso; non invidiò i mezzi altrui, anche se pensava che potevano essere meglio usati, spiacente, ma senza lamenti, che i limitati mezzi personali Gli riducessero quella che pure fu larga e saggia e continua attività scientifica.
Dico queste cose perché. più che affiorarmi alla mente ripensando a Lui, mi sono presenti come una vita degnamente vissuta di uno studioso, di un docente-, ed, a distanza di tempo, esse non svaniscono, ma si stagliano nettamente così nella memoria, come nella persona.
Non pretese ciò che non ritenne dovuto: non fece valere le distinzioni meritate, ma, credo, non ambite; non fu ad esse insensibile, ma le valutò non per se stesse, ma come riconoscimento della Sua opera, non certo come premio.
Altri giustamente dirà quel che fece per l'Istituto di Antropologia, la Sua creatura: che curava pazientemente, insistentemente, largo di tempo, di ingegno con essa; ma, è doveroso dirlo, largo, come e quanto poté, anche di mezzi propri. L'oculata amministrazione, che risparmiava il superfluo, Lo guidò alla valorizzazione dell'essenziale ed accettò i locali della nuova sede, contento d'aver per prima cosa maggior spazio, di poter prevedere una sistemazione, non soltanto materiale, ma anche con intendimento scientifico delle preziose e copiose collezioni del Museo: pensando di arricchirlo: proponendo il Suo parere, sollecitando quello di coloro che Gli erano vicini, per la maggior valorizzazione, sempre però instancabile ai suoi lavori, che parallelamente procedevano.
Quando entrai le prime volte nella vecchia sede di Palazzo Carignano, mi colpì un sottile odore dolciastro, come di miele: “odor di chiuso”, pensai. Ma imparai a conoscerlo meglio da una porta semi-aperta: odor di mummia autentica! Lo spazio limitato ammassava lo svariato materiale antropologico. Svanì, o meglio, fu limitato ad una stanza appartata, quell'odore, nella nuova sede. Ed è da augurarsi che questa conservi con le raccolte curate dall'illustre Fondatore del Museo, anche il Suo nome: che è nome di un vivo, il quale in semplicità di vita, in silenziosa operosità, in copiosa produzione scientifica, restò sino alla fine al Suo posto, degnamente.
Mi rincrebbe di non essergli stato vicino negli ultimi giorni, quando repentinamente ci lasciò: ma l'anima sua grande resta con noi: buona, generosa, continuando l'opera del Maestro indimenticabile.
Sac. Dott. DOMENICO DAVIDE
Dal medaglione bronzeo in cui l'Audagna Lo ha tratto vivo conoscendolo ed apprezzandolo, il professore Marro, l'indimenticabile mio Maestro, anche adesso, in questo luminoso atrio dei Palazzo Comunale di Capo di Ponte, mi guarda con gli occhi penetranti, adombrati dalle folte sopracciglia, nel consueto atteggiamento mimico sereno e benevolo insieme; come in passato è pronto a dirmi e ad ascoltarmi, e poi a consigliarmi, a incoraggiarmi, a migliorarmi.
Ho nell'intimo la profonda soddisfazione di non averlo tenuto all'oscuro della «Cittadinanza onoraria» che questa nobilissima gente camuna Gli avrebbe conferita con solennità nel settembre 1952; giacché Egli (stroncato all'improvviso in piena attività di studio nel luglio immediatamente precedente) non avrebbe in vita potuto godere di tale inaspettata, tanto spontanea designazione.
L'impareggiabile e devoto Suo amico, il sig. G. B. Belotti, mettendomi a parte della pratica avviata a tale scopo nel 1951 dal Comune di Capo di Ponte, su proposta dei Sindaco, sig. Bona, e coll'unanime plauso del Consiglio Comunale, mi aveva, per la verità, espresso, con delicato pensiero, il desiderio che il sen. Marro non ne venisse a conoscenza prima del giorno in cui il ridente paesello camuno avesse potuto salutarlo Concittadino e consegnargli, scritta su pergamena, la propria ammirata riconoscenza, per aver fatto assurgere la località a centro paletnologico di primaria importanza.
Ma, perché tacere al Professore quanto certamente Gli sarebbe tornato gradito? La devozione che ho sempre nutrita per Lui non me lo permetteva; ed il Suo carattere non ammetteva alcun sotterfugio, anche se a onesto fine.
Della Sua vita il Professore mi aveva narrato tanto nei lunghi anni trascorsi nell'Istituto universitario di Antropologia a Torino; mi aveva fatto conoscere e ammirare il Padre illustre, nella rievocazione di tanti episodi anche familiari, che sempre sentiva profondamente; mi aveva parlato spesso dei Fratelli scomparsi, e tanto di Giacomo che, laureato brillantemente in Chimica, era ritenuto una promessa per la famiglia e per la scienza e che, in una esperienza nell'Istituto di Fisiologia dell'università di Torino, aveva avuto stroncata l'esistenza; mi aveva introdotta nella amicizia del Fratello prof. Andrea, come Lui misurato di parole, ma di grande cuore, chirurgo di larga fama. E mi commuove sempre il ricordo che alla morte di questo Suo diletto Fratello, nell'aprile 1951, aveva voluto, per un profondo delicato sentimento, darmi personalmente immediata comunicazione telefonica all'Istituto, angosciato ma forte anche in quella dolorosissima circostanza.
Inoltre, mi metteva a parte di tutte le Sue ansie di ricercatore e di studioso; né mi taceva le inevitabili e non poche amarezze. E sempre sapeva guardare in faccia tranquillamente e coraggiosamente ogni verità.
Ascoltava con paterna attenzione le mie confidenze di casa, di scuola, di studio. Egli, che non esercitava da tanti anni la professione della medicina, sacrificando una sorgente di lucroso guadagno alle ricerche preferite, volle assumersi in cura il mio Papà quando cadde ammalato gravemente; e lo contese allora alla morte, e lo conservò ancora per tanti anni alla mia Mamma e a noi figliole.
Ero, perciò abituata da sempre a non tacergli mai nulla che Lo riguardasse. Cosi che Gli confidai, in grande segretezza, anche la notizia della simpatica e affettuosa designazione dei Cittadini di Capo di Ponte, fra i quali si era sempre sentito con orgoglio, Lui originario delle Alpi Marittime, montanaro fra montanari.
Posso ora attestare a tutti la Sua sincera e profonda commozione, e anche la trepida attesa del giorno designato dal Comune, per la cerimonia di allora.
Ma è d'uopo, ora, tralasciare ogni personale ricordo e sintetizzare le notizie biografiche dell'illustre Scomparso, affinché Egli rimanga degnamente nella memoria dei Suoi Concittadini di Capo di Ponte, di oggi e di sempre.
Nacque a Limone Piemonte il 29 gennaio 1875, secondogenito dell'allora dott. Antonio Marro, medico condotto nel paesello in cui la famiglia aveva modeste ma lontane radici.
Il Padre, che già in quegli anni veniva ascendendo e affermandosi nel campo della ricerca scientifica per virtù di intelletto e per tenacia di volontà, attese alla educazione dei figli con commovente e oculata dedizione e con tanto delicato affetto, da riuscire a compensarli della mancanza della Madre, morta quando tutti e quattro erano ancora in tenerissima età. Nel 1882 si trasferì a Torino, dove avviò i figli agli studi e dove ben presto ebbe fama in molteplici campi: fu criminalista, psichiatra, sociologo di indiscusso valore e illuminato filantropo. La “Guida all'arte della vita” di Antonio Marro è un gioiello, che ogni educatore dovrebbe conoscere e meditare ancora oggidì, per la risoluzione di alti problemi sociali; la “Pubertà” è una monografia completa del periodo più fortunoso della vita individuale e collettiva ed un capolavoro di organicità che tuttora fa testo in argomento; l'opera “I caratteri dei delinquenti” ha fatto definire Antonio Marro il Jussieu dell'antropologia criminale.
Spirito eminentemente umanitario, fondò l'Istituto Medico Pedagogico per fanciulli deficienti in Torino e diede impulso alla Società di Patrocinio per i Poveri Dimessi dal Manicomio.
I due figli maggiori, Andrea e Giovanni, scelsero come il Padre la medicina.
Andrea si appassionò alla chirurgia: fu allievo e aiuto del prof Carle; poi apprezzatissimo Docente nell'Ateneo torinese e Primario di Chirurgia nell'Ospedale S. Giovanni. Si specializzò nella plastica chirurgica e negli innesti delle ghiandole endocrine, riscuotendo incondizionata stima e fiducia dallo stesso prof. Sergio Woronoff, il quale spesso gli affidava pazienti di eccezione, provenienti anche da lontane regioni della terra. Nella guerra 1915-18 fu volontario al fronte, dove ideò e istituì un Gruppo Chirurgico avanzato, di cui fu il Comandante intrepido e coraggioso, svolgendo, “con maestria singolare, con abnegazione rara e sprezzo di ogni pericolo personale, efficace e nobilissima opera di chirurgo sul campo di battaglia: freddo, fermo e sereno, restando al suo posto anche quando artiglierie nemiche ripetutamente colpirono il suo reparto, riuscì a brillanti risultati nel contrastare e nello strappare da sicura morte numerosi feriti, pur quando la morte stessa lo minacciò molto da vicino”.
Questa la motivazione della medaglia d'argento al valore militare conferita (massiccio del Grappa, 15 giugno 1918) all'allora Maggiore Medico della Croce Rossa Italiana prof. Andrea Marro, poi Tenente Colonnello del Corpo Sanitario per merito di guerra, insignito di altra medaglia d'argento della Croce Rossa Italiana e di due Croci di Guerra.
Essa scolpisce la figura morale e scientifica di quel grande filantropo che fu in ogni momento il prof. Andrea Marro.
Giovanni, già distintosi per doti di intelligenza e per serietà di intenti nel Liceo Cavour, si laureò pure, e brillantemente, in medicina; quindi, si perfezionò nelle lingue, seguendo corsi di anatomia e di fisiologia presso Università svizzere, francesi e tedesche. Entrò giovanissimo, per concorso, nell'Ospedale Psichiatrico di Collegno, soprattutto - come ebbe spesso a dirmi - per essere vicino al Padre e vivere con Lui anche molte ore di studio e di lavoro. Degno continuatore dell'opera paterna, là profuse le grandi doti della Sua mente e del Suo cuore, raggiungendo (primo assoluto in Concorso Nazionale) l'alta carica di Direttore Generale dei quattro Ospedali Psichiatrici di Collegno,Torino.
Ai consigli, agli ammaestramenti, al luminoso esempio del Padre si professò per tutta la vita debitore in ogni cosa fatta per la scienza, per lenire la sofferenza e per recuperare socialmente tanti poveri derelitti.
Fervido credente nelle virtù patrie. anch'Egli partecipò alla guerra italo,austriaca, prima come Maggiore e poi come Colonnello Medico di Complemento; in seguito fu chiamato Consulente neuropsichiatra della Base Italiana e del Corpo d'Armata Italiano operante in Francia; volontario al fronte, era fregiato della Croce di Guerra.
Raggiunse e coprì alte cariche nel campo sociale, scientifico, politico e militare. Era Generale Medico della Riserva; Senatore del Regno dal 1939, esclusivamente per meriti accademici; Grande Ufficiale della Corona d'Italia; Ordinario di Antropologia nell'Università di Torino; Membro della Missione Archeologica Italiana in Egitto, promossa dal Re Vittorio Emanuele III; Membro dell'Accademia di Medicina di Torino; Membro Nazionale residente dell'Accademia delle Scienze di Torino; Membro effettivo della Accademia di Agricoltura di Torino; Membro Ordinario dell'Istituto di Studi Etruschi; Membro corrispondente dell'Ateneo di Brescia; Membro Onorarlo dell'Institut d'Egypte; Membro della Société Royale de Géographie del Cairo; Membro della Société des Américanistes di Parigi; Membro Onorario del Club Internacional de Folklore di Tucumàn, e di altri sodalizi culturali.
Le Sue numerosissime monografie e memorie vertono essenzialmente sull'Antropologia generale, sull'Antropogeografia, sulla Psicologia, sulla Etnografia, sulla Paletnologia, sulla Egittologia, sulla Archeologia e sulla Storia. Tutte hanno sempre portato originali e preziosi contributi al progresso della scienza.
Al primo decennio del nostro secolo risalgono le Sue ricerche metodiche sul diencefalo e sull'ipofisi nell'uomo ed in alcune specie di mammiferi, che Lo fanno includere fra gli antesignani della moderna endocrinologia.
Avvincenti sono i Suoi lavori di antropogeografia, nei quali sono largamente dimostrate le conoscenze profonde dei paesi e delle genti circummediterranee, dall'Egitto, alla Grecia, alla Spagna, all'Italia, culminanti nel volume Il primato della razza italiana, il cui titolo, ispirato all'opera immortale del grande Gioberti, annuncia già la scrupolosa documentazione di quell'eclettismo, di quella adattabilità intrinseca che - onore e gloria di nostra gente - ha dato un pioniere italiano in ogni campo pratico ed intellettuale in qualsiasi regione della terra.
L'esame minuzioso ed appassionato del Corpo Epistolare inedito di Bernardino Drovetti, da Lui rinvenuto a Torino, ordinato e fatto donare alla Accademia delle Scienze, Gli assegna un posto eminente fra coloro che, nella buona come nell'avversa sorte del nostro Paese, sanno attingere al luminoso esempio dei nostri grandi del passato, valorizzandone i pregi spirituali, l'opera umanitaria, culturale, politica, tanto spesso dimenticata dagli stranieri, se non addirittura misconosciuta. L'ingente e prezioso epistolario Gli procurò dapprima i documenti per rivendicare il merito che il Museo Egiziano e l'Accademia delle Scienze di Torino ebbero nella. scoperta della chiave dell'alfabeto geroglifico egiziano fatta da Champollion, proprio quando era tanto avversato nella sua patria; poi quello di riportare agli onori della storia una falange di Italiani, illustri e modesti, i quali, tuttavia, cooperarono con tanta efficacia alla rinascita dell'Egitto moderno agli albori del secolo scorso, documentando e lumeggiando fatti per tanto tempo lasciati ignorati, o poco noti, o del tutto falsati.
Il dovizioso materiale antropologico ed etnografico ora esposto nell'Istituto e Museo di Antropologia e di Etnografia dell'Università di Torino, da Lui fondato nel 1926, è prova di come il Marro contribuì ad affermare tale disciplina naturalistica presso l'Ateneo torinese. In tale Istituto e Museo, infatti, Egli depositò anche la propria ricca biblioteca (di ben 1400 volumi e di circa 3000 note e memorie provenienti da ogni parte del mondo) nonché numerose preziosissime collezioni antropologiche umane e di primati, ed etnografiche, in gran parte raccolte personalmente nei Suoi viaggi e spesso acquistate, anche con sacrificio pecuniario notevole.
Con la partecipazione diretta al lavori di scavo della Missione Archeologica Italiana in Egitto, in una serie di campagne fruttuose dal 1911 al 1938, portò per primo l'antropologia a contributo della civiltà sorta così precocemente e maturata nella prodigiosa valle dei Nilo, assecondando un originale concetto dello Schiaparelli, e iniziò un programma di ampie ricerche sulla costituzione fisica e sull'abito psichico degli antichi abitanti della valle dei Nilo, onde addivenire ad una interessante comparazione fra gli Egiziani neolitici o predinastici, quelli del tempo antico e della bassa epoca con gli Egiziani dei tempi nostri. Tale vasto programma è in piena attuazione nell'Istituto universitario di Antropologia di Torino e impegnerà molti anni di intenso lavoro e di studio coscienzioso.
È prova della Sua incondizionata dedizione alla Scienza il non essersi mai limitato a raccogliere materiale di studio per sé solo. Anche in Egitto si preoccupò di mettere insieme una collezione osteologica neolitica e dinastica tanto ingente da essere di gran lunga la più cospicua esistente, destinata ad arricchire, in modo veramente eccezionale, il nostro Paese e particolarmente l'università di Torino; la quale potrà cosi essere in avvenire all'avanguardia in uno dei settori più avvincenti dell'antropologia fisica. Tale collezione spazia dal neolitico (12.000, 8.000 anni or sono,) fino alle tarde dinastie faraoniche, secondo la identificazione cronologica dettata dall'insigne egittologo Schiaparelli; comprende oltre 600 scheletri completi e circa 1300 crani; il suo valore, anche scientifico, è incommensurabile; giacché dal 1937, per legge, è vietata categoricamente e rigorosamente l'esportazione di scheletri e di mummie a chiunque scavi il suolo egiziano.
A Capo di Ponte il nome di Giovanni Marro è legato a un grandioso monumento: quello delle incisioni preistoriche che Egli intuì e per primo scopri, liberandolo - tanto spesso personalmente, con paziente lavoro - dalla coltre vegetale che lo aveva custodito, negletto, per secoli ,e secoli.
Bastò al Marro vedere la magnifica superficie di spacco del «primo masso istoriato di Cemmo», che pure doveva essere conosciuto per notizia datane dalla Guida del Touring Club Italiano del 1914, per apprezzarne tutta l'importanza paletnologica e fare assurgere la così detta «roccia dei pitoti» a “magnifico saggio di arte zoomorfica”, definendola, già nel primo Suo magistrale studio sull'argomento, «reperto di eccezionale importanza, anche perché costituisce, finora, un unicum in Italia».
La segnalazione riportata dalla Guida del Touring Club Italiano non era tale da richiamare l'attenzione dei paletnologi, neppure di quelli dei centri di studio assai più prossimi di Torino alla Valcamonica. Ed il prof. Marro, nella prima Sua pubblicazione sulle incisioni camune, scrisse testualmente: «Il prof. S. Squinabol, che da anni ne aveva conoscenza, volle segnalarmelo, molto gentilmente e con squisito senso di liberalità; del che attesto a Lui il mio vivo ringraziamento».
Lo stesso prof. Squinabol Lo coadiuvò, in effetti, largamente ed efficacemente anche nella successiva esplorazione sistematica che, nella piccola conca glaciale di Cemmo, il Marro condusse per conto dell'Istituto di Antropologia dell'Università di Torino; la quale esplorazione portò completamente alla luce una seconda roccia istoriata, posta sullo stesso allineamento della prima, ma sepolta per la maggior parte, e da anni, nel terreno in seguito a lavori di coltivazione. Quanto entusiasmo al ritorno di tale fruttuoso scavo! E con quale passione nell'Istituto universitario di Torino sempre si accingeva a preparare i piani di ogni successiva esplorazione! La soddisfazione della scoperta delle incisioni sui fianchi est ed ovest della media Valcamonica è stata per il Marro grandissima, sia pure tenuto conto della estrema moderazione con cui Egli era solito manifestare ogni intimo sentire.
Profondamente ammirato, non solo descrisse la monumentale opera artistica preistorica camuna, ma la interpretò al lume dei fatti geologici e storici, ricorrendo spesso ad antichi dati toponomastici e valendosi con efficacia del confronto con costumanze folkloristiche persistite più o meno a lungo nei vari centri della valle: manifestazioni della continuità o della persistenza di elementi psichici primitivi, che dall'ambiente naturale avevano tratto origine e avuto impulso e vigore.
Le raffigurazioni di specie animali in gran parte scomparse dalla regione; il grandissimo numero di capanne costruite su pali, con singolare polimorfismo e differente tecnica, che qua e là Gli apparvero raccolte intenzionalmente in veri e propri villaggi; le scene di lotta collettiva e singola, le battute venatorie e la visione idilliaca della discesa degli armenti a valle, sotto la guida dei pastori e la fida custodia dei cani; i quadretti di vita agreste con l'aratro ed il carro a quattro e a due ruote; le danze rituali, culminanti nel grazioso complesso coreografico della Salita della Zurla, proprio di uno stato assai avanzato di arte, anche se ancora improntato all'originale ingenua freschezza naturalistica; le scene magico-religiose che, a cominciare dal sole irradiante dall'alto tutte le figurazioni del secondo masso di Cemmo, si moltiplicavano a mano a mano che nuove incisioni erano riportate a giorno (il carro con la pagaia sacra alle foppe di Nadro, le pagaie votive di Paspardo, la rituale iniziazione con lo stregone e il corpo sacerdotale fuori del tempio pavesato di stendardo) furono elementi che, vagliati ad uno ad uno con rigore scientifico e corroborati dalle profonde personali conoscenze fecero vedere al Marro per primo, e svelare poi agli altri, una singolarissima civiltà palafitticola fino allora ignorata: «civiltà probabilmente autoctona d'origine o per lo meno di maturazione».
Ed il Marro ebbe anche la fortuna di poter assistere, in certo modo, quei primitivi camuni nel loro primo faticoso tentativo di entrare nella storia, scoprendo di essi anche parecchie iscrizioni; iscrizioni composte tutte di disegni improntati a notevole pluralità morfologica, le quali subito Egli mise a confronto con quelle sui mattoni di Cividate, con la famosa iscrizione di Vergiate, con un saggio epigrafico assai somigliante, e pure su roccia, trascrittogli dall'amico e collega prof. A. Corti e proveniente dalla Valtellina, separata dalla Valcamonica dal Colle dell'Aprica.
Il Marro diffuse subito le Sue conoscenze sul grandioso monumento paletnologico camuno a mezzo di note e memorie pubblicate da Accademie scientifiche italiane e straniere. Delle Sue fruttuose ricerche in Valcamonica diede costantemente notizia anche in Congressi scientifici Nazionali e Internazionali; e sempre illustrò degnamente, da par Suo, questo patrimonio culturale, il quale, appunto perché inestimabile, considerò esclusivo della Scienza italiana.
Col Burkitt, col Norden, coll'Obermaier, per tacere di altri, ebbe frequenti scambi anche epistolari sull'argomento; in occasione di una conferenza ad Upsala, sui monumenti italici, il prof. Petazzoni scrisse al Marro che fra quelli «occupavano un posto di primo ordine le figurazioni rupestri della Valcamonica da Lei (il Marro) egregiamente illustrate».
Al Bogara, al Terracini, al Ribezzo sottopose in esame le varie iscrizioni a mano a mano repertate; e tutti furono concordi nel considerarle un prezioso filone epigrafico, che il Bendinelli non si peritò di presentare come il più antico documento epigrafico dell'Italia settentrionale, atto ad ampliare l'orizzonte di indagini ed a risolvere il problema cronologico dell'intero grandioso emporio artistico.
Naturalmente, dopo di Lui altri scesero e salirono questa ridente valle, e scrissero sulle singolari incisioni profuse in tempi tanto remoti e sulla prodigiosa civiltà che dal cuore della Valcamonica, da Capo di Ponte, deve essersi irraggiata all'intorno. Ma gli abitanti di Capo di Ponte, orgogliosi giustamente di aver radici così remote e gloriose, avendo contribuito per certo nella preistoria a dare notevole impulso all'incivilimento umano, vollero inserire nella loro famiglia Colui che, per primo, aveva loro consegnato il blasone di tanto antica nobiltà.
Carattere forte, il Marro ebbe tutte le virtù della salda razza piemontese. Mente feconda conservò intatto fino all'ultimo il fervore della ricerca scientifica e l'insaziabile sete di conoscere. Era per indole cortese di modi, ma raramente faceto; passava le intere giornate nell'Istituto di Antropologia di Torino, dove resterà esemplare il Suo attaccamento al lavoro, il cui risultato gustava in rapporto al sacrificio speso per esso. Il lavoro gli fu amico inestimabile in tutta la vita, come già al Padre Suo, che lasciò scritto: “L'uomo ha bisogno di lavorare per conservarsi in salute, come ha bisogno di lavorare per sostenersi in vita. Il lavoro è la condizione naturale della nostra vita”.
A me, che cercavo negli ultimi anni di esortarlo e di persuaderlo a concedersi maggior riposo, rispondeva spesso melanconicamente: “Solo per ciò che abbiamo contribuito a costruire, continueremo a vivere”.
E costruttore formidabile fu per davvero il Marro. Con relativamente scarsi mezzi personali, riuscì a mettere insieme un patrimonio culturale e scientifico veramente inestimabile, il quale, per essere nella maggior parte inedito, fornirà materia di studi seri e profondi a più di una generazione.
Ultima prova della stima in cui mi teneva, il Maestro volle darmi nominandomi Sua esecutrice testamentaria e legataria di tutto il predetto patrimonio culturale e scientifico, atropo-etnografico, archeologico e artistico, che fu ragione e scopo di tutta la Sua vita. Con le collezioni atropo-etnografiche, ingentissime, ho già atteso ad apprestare un Museo di Storia naturale dell'uomo, da intitolarsi al nome del suo illustre Fondatore, presso l'Ateneo torinese, al quale il prof. Marro si sentiva per molte fila sentimentalmente legato. Col materiale archeologico ed artistico sarà costituito un altro ricco Museo, di indole Folklorico-regionale, nella Sua natia sempre amata Limone Piemonte, vivamente riconoscente per la pregevole donazione. Per questo ultimo Museo, sto impegnando ogni mia possibile energia per addivenire al recupero di intere collezioni artistiche e di oggetti di grande valore, andati dispersi subito dopo la morte del prof. Marro, per cause del tutto esulanti dalla mia volontà e dalla mia incondizionata devozione al Maestro.
Il compito spirituale e materiale che ho da assolvere è, invero, assai grande per le mie modeste forze personali; ma la fiducia che il prof. Marro ha così serenamente e incondizionatamente riposta in me, mi è di sprone, di guida, di incoraggiamento fino alla effettuazione dei Suoi illuminati e lungimiranti voleri.
Ma anche a Capo di Ponte, che Lo ha chiamato Concittadino e sempre tanto ammirato e rispettato, l'illustre Scienziato piemontese affida un grande mandato: quello di conservare e salvaguardare il gran libro lapideo, aperto fra la Concarena e il Pizzo del Badile, molte pagine del quale, sparse sulle pendici della Valcamonica, hanno ancora da essere lette e hanno ancora tanto da rivelare.
Prof SAVINA FUMAGALLI Incaricata di Antropologia nell'Università di Torino